di Geraldina Colotti – 

Pagine Esteri, 11 novembre 2024. Sulle reti sociali latinoamericane, l’ironia popolare si è già fatta sentire, modificando l’acronimo Brics con quello di Vrics… Una maniera di esprimere contrarietà nei confronti del Brasile, uno dei membri fondatori dell’organismo, insieme a Russia, India, Cina, (e al Sudafrica che si è aggiunto nel 2010). Al vertice che si è svolto a Kazan, città sulla sponda sinistra del Volga, e che è terminato il 24 ottobre, inaspettatamente, il ministero degli Esteri brasiliano, che ha rappresentato il presidente Lula da Silva, assente per un incidente domestico, ha infatti posto il veto all’entrata del Venezuela come uno dei nuovi “soci ufficiali”.

Iran, Egitto, Etiopia, Emirati Arabi Uniti, avevano già aderito all’inizio dell’anno quando la Russia ha assunto la presidenza pro-tempore dell’organismo, cambiando l’acronimo in Brics+. L’Arabia Saudita, che a gennaio aveva partecipato come nazione ospite, è stata aggiunta a Kazan. Se si considera che, in totale, 59 paesi hanno fatto domanda d’entrare, e che quelli già associati provengono dall’Asia, dall’Africa, dall’America latina, e anche dall’Europa dell’Est, si capisce che l’impatto dell’organismo attraverserà gli equilibri globali, considerando inoltre l’adesione della Turchia, membro della Nato che aspira a entrare nella Ue.

Le decisioni approvate alla fine del vertice prospettano, d’altronde, l’intenzione, ben sostenuta dalla consistenza del blocco, che vale oltre il 37% del Pil mondiale e che contrasta gli orientamenti di altre istituzioni come il G7 e la Nato, di erodere gli assi portanti dell’egemonia statunitense: a partire da quella del dollaro.

Un intento ancora lontano dall’attuarsi, ma ben avviato, sia mediante le articolazioni economico-finanziarie della Banca dei Brics (presieduta dalla ex presidente brasiliana, Dilma Rousseff), sia con il varo di una moneta alternativa, di cui Putin ha mostrato un esemplare. Importante, anche, la chiamata a raccolta dei paesi colpiti dalle “sanzioni” degli Usa e dei loro alleati, che vedono nella Russia e nella maniera di aggirare il “sistema Swift” con nuove relazioni internazionali, un esempio efficace da seguire.

La proposta di un Osservatorio internazionale contro le “sanzioni”, già presentata dal Venezuela all’Onu, è stata nei giorni scorsi approvata durante il Foro Parlamentare Mondiale, che ha ospitato a Caracas oltre 700 deputati e senatori, provenienti da ogni parte del mondo. Delegati di 70 paesi, che hanno aderito a una Piattaforma internazionale permanente contro “il fascismo, il neofascismo e altre espressioni simili”. Un capitolo che ha fatto seguito al Congresso mondiale sullo stesso tema, che, a settembre, ha lanciato la proposta di un’internazionale antifascista, antimperialista, anticoloniale e anti-patriarcale, per contrastare l’avanzata dell’estrema destra a livello globale.

Il Venezuela avrebbe dovuto essere accolto fra i “soci ufficiali” dei Brics, e il presidente Maduro si era recato a Kazan, invitato dall’omologo russo, Putin. All’ultimo momento, però, la cancelleria brasiliana si è messa di traverso, e il paese bolivariano è rimasto fuori dalla lista dei nuovi giunti (13 in tutto: Malesia, Tailandia, Indonesia, Vietnam, Nigeria, Uganda, Algeria, Kazakistan, Uzbekistan, Bielorussia, Cuba, Bolivia e Turchia).

Le decisioni del vertice – ha poi spiegato Putin in una successiva conferenza stampa – vengono prese per consenso, e si è dovuto tener conto del veto del Brasile. Un ostruzionismo dovuto alle polemiche seguite al 28 luglio, quando Maduro è stato eletto per un terzo mandato e l’opposizione ha contestato i risultati, ottenendo appoggio a livello internazionale.

Al contrario, il presidente russo non ha lasciato dubbi sul suo sostegno al Venezuela, scherzando sul leader dell’opposizione, Edmundo González Urrutia, che, “alzando gli occhi al cielo”, è sceso in piazza per dichiararsi vincitore delle elezioni presidenziali. Putin ha affermato di averne discusso con i funzionari del governo statunitense, i quali hanno “fatto un sorrisetto compiaciuto, ma niente di più”.

D’altronde, ha aggiunto Putin, chiunque può alzare gli occhi al cielo e dichiarare persino di essere il Papa, ma questo non cambia la verità dei fatti: cioè “la legittimità e la trasparenza della vittoria elettorale di Nicolás Maduro, che la Russia riconosce e sostiene. Ho delle ottime relazioni con il Brasile – ha concluso Putin– però non condivido le posizioni del suo presidente sul Venezuela”.

Che in pochi mesi il presidente brasiliano abbia cambiato radicalmente opinione – da maggio, quando ha dichiarato i suoi buoni uffici per l’ingresso del Venezuela nei Brics, fino a ottobre, quando il suo portavoce, Celso Amorin, ha espresso la sua contrarietà – ha sollevato interrogativi e critiche: tanto più considerando la fattiva collaborazione tra il governo bolivariano, il Foro di San Paolo e le organizzazioni popolari brasiliane, prima fra tutte il Movimento dei Sem Terra che, con uno dei suoi esponenti storici, Joao Pedro Stedile, sta portando avanti importanti progetti di scambio a livello agricolo e produttivo in Venezuela.

C’è stato chi, nella sinistra latinoamericana, ha messo in luce l’”egocentrismo” di Lula e l’intenzione del Brasile di affermarsi come l’unico centro importante del continente, ponendosi come “ago della bilancia” e come snodo tra il nord e il sud del mondo. C’è stato anche chi ha ricordato la timidezza espressa negli anni del governo Lula e le promesse non mantenute quanto a riforme strutturali: la riforma agraria, lo spazio permesso alle grandi multinazionali e la mancata riforma costituzionale, che ha lasciato il presidente in balìa di quelle stesse forze e interessi che hanno disarcionato i precedenti governi del Partito dei lavoratori (Pt).

E c’è chi ha fatto notare il curriculum dell’attuale ministro degli Esteri brasiliano, Mauro Vieira. Vicinissimo al portavoce di Lula, Celso Amorin, del cui staff ha fatto parte, Vieira è un ambasciatore di lungo corso, è stato a Washington, alle Nazioni unite e anche nel corpo diplomatico a Parigi, dove mantiene eccellenti rapporti con Emmanuel Macron.

Nel 2024, il Brasile ha assunto sia la presidenza annuale pro tempore del G20 sia quella del Mercosur, organizzazione che negozia un accordo di libero scambio con l’Unione Europea, e che Lula vuole firmare entro la fine del 2024.  Nel 2025, il quinto Stato più grande del mondo ospiterà anche la Cop30, che prevede di attrarre oltre 40.000 visitatori.

Insieme ad altri importanti ministri brasiliani, il 14 novembre, il capo della diplomazia brasiliana aprirà la prima edizione del vertice Sociale del G20, che prevede oltre 200 attività coordinate dalle organizzazioni della società civile. Durante l’incontro, i rappresentanti del terzo settore potranno partecipare ai dibattiti finali su un testo, in via di elaborazione da agosto anche attraverso Internet sulla piattaforma Brasil Participativo. Un documento che il 16 novembre verrà consegnato ai presidenti brasiliano, Luiz Inácio Lula da Silva, e sudafricano Cyril Ramaphosa (che assumerà la presidenza del G20 nel 2025).

In tre sessioni plenarie si discuteranno i tre pilastri proposti dalla presidenza brasiliana al G20 per lanciare l’Alleanza globale contro la fame e la povertà: lotta alla fame e alle disuguaglianze, cambiamento climatico e sostenibilità, e nuova governance globale. In calendario, anche il tema del “digitale inclusivo”, già discusso in varie sessioni del vertice Brics.

Piuttosto debole nel suo paese, sia per la forza della destra che per la frammentazione del quadro istituzionale, Lula intende mantenere un profilo internazionale, posizionandosi come “arbitro” e punto di mediazione. Le amministrative di ottobre, hanno mostrato quanto sia ancora ben radicata la destra di Jair Bolsonaro, che ora trarrà nuovo impulso dall’elezione di Trump alla Casa Bianca.

E di sicuro risulterà rafforzata quell’internazionale di estrema destra che Trump ha fatto nascere in Spagna del 2020, sul modello della Convention repubblicana riscritta a uso e consumo del tycoon da Steve Bannon, ora tornato in pista dopo la sua liberazione. Da quell’incontro, che ha riunito intorno al partito Vox altre formazioni analoghe d’Europa e dell’America Latina, è nata la Carta di Madrid che, oltre ad aver messo nel mirino il socialismo in tutte le sue forme, ha attaccato frontalmente il Foro di San Paolo.

Una delle prime firmatarie di quel documento fu Maria Corina Machado, rappresentante di quell’estrema destra venezuelana che ora cerca di riproporre con González Urrutia lo stesso copione giocato dall’autoproclamato “presidente a interim”, Juan Guaidó. In questo caso, però, si parla di Urrutia come del “presidente eletto”, già avallato da alcuni governi europei, a cominciare da quello italiano. Di nuovo, c’è che anche l’estrema destra venezuelana è cresciuta, e i risultati elettorali, che hanno dato il secondo posto a Urrutia, seppur con largo margine di stacco dal presidente eletto, lo dimostrano.

Dopo aver ricevuto, insieme a Machado, il Premio Sakharov per la libertà di pensiero dal Parlamento Europeo, Urrutia è stato ricevuto da Roberta Metsola, presidenta del Parlamento europeo. Poi, in Italia, è stato accolto da Meloni, dalle più alte cariche istituzionali e anche da tutti gli eletti del “centro-sinistra”. E uno dei punti in discussione al vertice Ue di Budapest è stata la “transizione in Venezuela”. Un cambio di poteri che, si è augurata pubblicamente Machado dopo l’elezione di Trump, il tycoon dovrà adeguatamente garantire, rispettando le minacce profferite contro Maduro prima della fine del suo precedente mandato.

Anche dopo l’elezione di Trump, oltre alle legittime preoccupazioni provenienti dai paesi progressisti dell’America latina (a cominciare dal Messico), si è fatta sentire l’ironia del web: sul ruolo del magnate delle piattaforme, Elon Musk, come “presidente-ombra” degli Stati uniti, e su quello di Machado, pronta a chiedere “il riscontro delle schede scrutinate” anche a Trump, in caso non mettesse in atto le minacce contro Maduro. E già pronta a proclamare Urrutia come il vero vincitore delle elezioni Usa. Pagine Esteri