della redazione
Pagine Esteri, 12 aprile 2021 – I Socialisti Democratici dell’America (Democratic Socialists of America, Dsa) il mese scorso hanno annunciato che avranno come priorità una campagna nazionale per approvare il Protecting the Right to Organize Act (PRO Act)”. Il PRO Act, sottolineano i Dsa, sarà una “legislazione trasformativa” che “dà potere ai sindacati di organizzare i lavoratori”. Senza dubbio l’approvazione del disegno di legge darebbe vantaggi ai lavoratori – quelli statunitensi e quelli immigrati senza cittadinanza – ma non è detto che, come sperano molti, rappresenterà un passo effettivo verso la nascita di un nuovo sindacalismo negli Usa. E’ stato introdotto per la prima volta nel 2019 e ha ottenuto 100 sponsor del Partito Democratico alla Camera e 40 al Senato e alla sua presentazione alla Camera dei Rappresentanti il mese scorso, il numero degli sponsor è salito a 209, inclusi tre repubblicani.
Dal Wagner Act al PRO Act
Per comprendere lo scopo del PRO Act, è necessario collocarlo nel suo contesto storico. Il disegno di legge consiste in una serie di emendamenti al National Labor Relations Act (noto anche come Wagner Act), che è stato approvato nel 1935 e firmato dal presidente Franklin Delano Roosevelt. A quel tempo la lotta di classe, a causa della Grande Depressione degli anni ’30 aveva comprensibilmente avuto un grande impulso, accresciuto anche dal diffondersi a livello internazionale delle conquiste fatte dalla Rivoluzione sovietica in Russia. Un anno prima dell’approvazione del Wagner Act erano scoppiati scioperi generali in tre grandi città: San Francisco, Toledo e Minneapolis. Le rappresentazioni principali del capitalismo negli Usa agirono affinché fossero approvati provvedimenti, di apparente miglioramento delle condizioni di lavoro e contro la disoccupazione, atti a contenere la minaccia di una ampia rivoluzione sociale. Il “New Deal” che rese celebre Roosevelt ne è un esempio. Il Wagner Act ha istituito il National Labour Relations Board (NLRB) che ha avuto lo scopo di controllare l’ondata di scioperi e di indirizzarla in un quadro giuridico che potesse essere controllato.
Poco più di un decennio dopo l’approvazione del Wagner Act, nel 1947, i Democratici si unirono ai repubblicani per imporre il Taft-Hartley Act, un emendamento al Wagner Act approvato di fronte alla massiccia ondata di mobilitazioni avvenute nel dopoguerra, che bandiva esplicitamente scioperi selvaggi, politici e di solidarietà. Includeva inoltre un giuramento di fedeltà anticomunista e la possibilità di impedire con la forza gli scioperi considerati una minaccia alla “sicurezza nazionale”. La conseguenza immediata fu che con la Guerra Fredda, i sindacati abbracciarono la crociata anticomunista e attuarono un’epurazione dei loro esponenti di sinistra e socialisti. Questo sviluppo si è consolidato con l’unificazione dell’AFL e del CIO nel 1955, nota oggi come la Federazione americana del lavoro e del Congresso delle organizzazioni industriali (AFL-CIO) che con 55 sindacati al suo interno rappresenta formalmente 12,5 milioni di donne e uomini ma che di fatto ha una funzione di contenimento delle lotte di lavoratrici e lavoratori.
Gli anni tra il 1969 e il 1975 videro un enorme aumento della militanza della classe operaia, in particolare dei minatori, i dipendenti delle poste, i lavoratori dell’acciaio e dell’auto, gli insegnanti. Anche allora molte delle lotte più significative presero la forma anche di una ribellione contro l’apparato sindacale filo-capitalista. Nella primavera del 1970, 210mila postali lanciarono uno sciopero selvaggio, all’epoca il più grande sciopero mai fatto contro il governo federale. Nel 1977-1978, i minatori (del carbone) intrapresero uno sciopero nazionale di 111 giorni. Il presidente Carter, un democratico, forte del Taft-Hartley tentò di imporre un ordine di ritorno immediato al lavoro agli United Mine Workers of America (UMWA). I minatori lo ignorarono e rimasero in sciopero. Poi quando la posizione egemonica globale degli Stati Uniti iniziò a vacillare, l’élite economica dominante passò da una politica di riforme limitate al contrasto concreto delle mobilitazioni dei lavoratori utilizzando i metodi della chiusura degli stabilimenti, dell’indebolimento ulteriore delle strutture sindacali. Il repubblicano Ronald Reagan è stato il braccio armato di questa linea.
Di conseguenza negli anni ’80 i sindacati Usa adottarono sempre più apertamente la politica del “corporativismo”, basata sulla presunta identità degli interessi di proprietari e manager delle imprese e quelli dei lavoratori. Gli esiti negativi furono inevitabili. A metà degli anni ‘90, la quota di iscritti scese al 10,4% nel settore privato, un calo impressionante rispetto al 1958 quando un terzo di tutti i lavoratori americani erano sindacalizzati. Gli scioperi praticamente scomparvero. Nel 1995 ci furono solo 34 interruzioni del lavoro con più di 1.000 lavoratori, rispetto ai 187 nel 1980 e ai 424 nel 1974. Dalla fine degli anni ’70, i salari relativi al 70% dei redditi più bassi sono rimasti sostanzialmente stagnanti, mentre la paga dei manager è aumentata di 10 volte. Allo stesso tempo i sindacati al servizio delle imprese hanno avuto importanti benefici. Nel 2020, ad esempio, quello degli insegnanti, l’American Federation of Teachers, ha raccolto 185 milioni di dollari di quote associative, non ha distribuito alcuna indennità di sciopero e ha elargito quasi 100 milioni in stipendi, benefici e rimborsi per la sua burocrazia.
Punti chiave del PRO Act
La legge comunque non passerà al Congresso nella sua forma attuale. I repubblicani sono nettamente contrari alla misura e i Democratici dovrebbero trovare 60 voti al Senato per superare gli ostacoli procedurali. Si prevedono perciò cambiamenti importanti alla sua bozza attuale. L’impegno dei Dsa è quello di rimuovere i pesanti divieti del Taft-Hartley Act sulle cosiddette mobilitazioni secondarie – gli scioperi di solidarietà – e di impedire ai datori di lavoro di licenziare e sostituire gli scioperanti. Un altro elemento centrale è la riclassificazione in “dipendenti” dei lavoratori a contratto, in gran parte costituiti da “gig-worker” in aziende come Lyft, Uber e DoorDash, allo scopo di sindacalizzarli. Buoni propositi che non sono la fine dei mali. I datori di lavoro saranno ancora in grado tenere in pugno questi “dipendenti” escludendoli in vari modi dagli ammortizzatori sociali, dalla previdenza e altri benefici. Saranno anche liberi di imporre spese vive ai dipendenti e licenziarli, come in passato, a piacimento.
Le conseguenze economiche e sociali della pandemia tuttavia forniscono ragioni importanti per le mobilitazioni dei lavoratori statunitensi e le lotte contro il sindacalismo asservito. Anche prima che l’immensa crisi sociale fosse accelerata dalla pandemia, la militanza era in costante aumento. Nel 2018 e nel 2019 è scoppiata un’ondata di scioperi tra gli insegnanti contro l’austerità. Nel 2019 48mila lavoratori della General Motors si sono fermati per 40 giorni, il primo grande sciopero automobilistico nazionale in quattro decenni. A un anno dall’inizio della pandemia la crisi sociale negli Stati Uniti ha raggiunto profondità senza precedenti e il fermento sociale è evidente. E non deve trarre in inganno il vigoroso intervento di Joe Biden a sostegno dei lavoratori di Amazon. La mossa del nuovo presidente non è a sostegno dei diritti di precari e disoccupati. Piuttosto è un passo volto a impedire la radicalizzazione di massa e dei giovani in particolare in risposta alla gestione sconsiderata della pandemia. Il PRO Act è solo un piccolo passo in avanti di una lunga strada dove spesso, proprio le forze che si proclamano progressiste, pongono gli ostacoli più consistenti alla trasformazione del modello capitale-lavoro negli Usa.