di Valeria Cagnazzo*
Pagine Esteri, 12 aprile 2021 – In guerra i poeti continuano a nascere. In uno stato perenne di guerra come quello che ha vissuto negli ultimi quarant’anni l’Iraq, incubato anche attraverso il labirinto spettrale della dittatura, i poeti hanno continuato a nascere, a mangiare, a scrivere e a morire. Poiché i poeti appartengono al loro Paese natio alla stregua dei suoi sassi, dei suoi scarafaggi, delle sue piante rampicanti, dei torrenti. Talvolta, e mai questo è vero come nella storia recente della letteratura irachena, come gli uccelli migratori che lì sono nati. Ma in tutte le loro sfaccettate forme, è la loro voce, ovunque per salvarsi essi abbiano diretto la loro fuga, a diventare la lingua della Nazione nella storia, la sua ancora nel tempo, il suo racconto più affidabile e vero.
Disegnare una breve storia recente dell’Iraq attraverso la sua poesia è impresa straordinariamente ardua. Il materiale poetico che l’Iraq ha consegnato al mondo è un magma incandescente come le sue guerre e vitale come i suoi fiumi: qui nacque il primo scrittore e poeta della storia, e fu una donna. Enheduanna, così si chiamava, sacerdotessa del tempio di Ur vissuta tra il 2285 e il 2250 a.C. durante il regno di Sargon suo padre, per la prima volta firmò con il suo nome un’opera poetica, “Signora di tutti i Me”, poema dedicato alla dea Inanna. La religione è il tema centrale ma diventa pretesto: Enheduanna plasmò probabilmente il primo “Io poetico” della letteratura, con voce matura e un tono a tratti intimistico, ponendo al centro dei suoi versi la sua persona, le paure, le fragilità, ma anche l’orgoglio, la sensualità – allacciandolo inevitabilmente alla narrazione delle vicende storiche e politiche del suo regno: l’usurpazione da parte dei Lugalzaggesi, il suo esilio, la riconquista sanguinosa del trono, fino a un terremoto che scosse la terra. Così scriveva, precorritrice dei poeti migratori dell’Iraq e del mondo e delle loro sconfitte:
Io, colei che qualche volta si sentì trionfante
Fui scacciata dal santuario,
Come una rondine
Mi fecero volare via dalla finestra,
E la mia vita si consumò.
All’indomani della seconda guerra mondiale, l’Iraq era un Paese turbato da profonde trasformazioni politiche ed economiche. Formalmente indipendente dall’Inghilterra dal 1932, dopo un tentativo fallito di crisi con la Gran Bretagna da parte del primo ministro Rashid ‘Ali al-Gayani, l’Iraq era di fatto retto da un governo filo-britannico guidato dalle figure estremamente impopolari del primo ministro Nuri al-Said e del re Abdullah. Due correnti di opposizione prendevano sempre più linfa dal diffuso dissenso anticoloniale: il movimento panarabista e quello nazionalista. Il primo anelava alla cancellazione delle frontiere disegnate dai colonizzatori occidentali e alla creazione di un unico regno panarabo; in seno ad esso nacquero, tra gli altri, il circolo Muthana, poi Partito dell’Indipendenza, e il Partito Ba’th. Il secondo, che ambiva a formare un forte Stato nazionale indipendente, era rappresentato da formazioni come il Partito Democratico Nazionale e il Partito Comunista Iracheno, guidato dal 1941 dal carismatico Yusuf Salman Yusuf, detto il compagno “leopardo” (Fahd). Nel Partito comunista, in particolare, conversero le istanze e le aspirazioni dei ceti piccoli e medi della società irachena, prostrata da un crescente malcontento. Nonostante i proventi derivanti dai giacimenti petroliferi scoperti nel 1927, a una parte dei quali l’Iraq riuscì nel ‘52 a partecipare grazie a un accordo siglato con l’Iraq Petroleum Company di proprietà britannica, le campagne irachene restavano ancorate a un modello agricolo di tipo feudale. Intorno alle città in trasformazione, si formavano baraccopoli di operai che iniziavano a organizzarsi in sindacati. La ricchezza dell’intero Paese era in mano a pochissimi, la vita media si attestava intorno ai 35 anni. La repressione sanguinosa delle manifestazioni studentesche e degli scioperi dell’insurrezione Al-Wathba, “il balzo”, che si scatenò nel ’48 in seguito alla firma di un trattato di ulteriore dipendenza dell’Iraq dal controllo britannico, non fece che ingrossare la rabbia del Paese: oltre 400 manifestanti furono uccisi, il “compagno Fahd” fu arrestato e impiccato.
In questo contesto di contraddizioni sociali e fermento politico, anche la poesia irachena fu attraversata dalla propria rivoluzione. A guidarla una giovanissima poetessa, Nazik al-Malaika. Coi suoi versi afferrò e scardinò la severa metrica della millenaria poesia araba introducendovi il verso libero.
Nata nel 1923, figlia di poeti, attiva nel movimento femminista, appassionata di lingue e specializzata in letterature comparate con un master nel Wiskonsin, Nazik al-Malaika è l’iniziatrice del verso libero iracheno, insieme al poeta Badr Shakir al-Sayyab. Dei primi anni ’40 in Iraq, in una sua autobiografia Al-Malaika scrisse che era un periodo in cui nel suo Paese “non si poteva respirare”. Il malessere sociale non impediva all’élite intellettuale irachena di ridiscutere i suoi canoni confrontandoli con le influenze esterofone da un lato e con le nuove esigenze espressive delle trasformazioni in atto nei Paesi arabi. Le esperienze di studio all’estero di molti poeti iracheni, egiziani, siriani, libanesi, così come, inevitabilmente, la colonizzazione inglese e francese, faceva circolare negli ambienti poetici arabi i versi di Keats, T.S. Eliot, di Rimbaud, di Walt Withman.
Nel ’47, di fronte all’epidemia di colera dilagata in Egitto, Nazik al-Malaika scrisse la poesia “Il colera”: nasceva il verso libero iracheno, si abbandonavano le regole della monorima, del numero fisso di piedi per ciascun verso, della ferrea metrica secolare araba. La poesia, comparsa su una rivista nel dicembre di quell’anno, ricordava le liriche inglesi; ciascuna delle sue stanze era vincolata comunque a una metrica interna affatto “libera”. Per la poetessa, il verso libero non equivaleva a privare la poesia della musica e del ritmo, non apriva le strade a sperimentazioni come le prose poetiche – ma la sua in3novazione ebbe un carattere rivoluzionario. Lei stessa avrebbe scritto: “Il movimento della poesia libera ha avuto origine nel 1947, in Iraq. E dall’Iraq, anzi dal cuore di Baghdad, questo movimento ha strisciato estendendosi fino a sommergere l’intero mondo arabo (…) E la prima poesia in versi liberi ad essere pubblicata è stata la mia poesia intitolata Il colera”.
Nello stesso mese, l’altro rivoluzionario del verso libero, Badr Shakir al-Sayyab, pubblicava la raccolta “Fiori appassiti”: versi diseguali per lunghezza, metrica, stanze di estensione variabile. Nato e cresciuto in una famiglia povera (il padre era un coltivatore di datteri), Al-Sayyab avrebbe presto aderito al Partito Comunista. Per il suo attivismo politico, sarebbe stato licenziato e successivamente costretto a fuggire in Iran e in Kuwait fino al 1954, quando sarebbe tornato in Iraq allontanandosi dal partito.
Entrambi i poeti erano poco più che ventenni. Le loro pubblicazioni erano destinate a stravolgere la poesia araba per sempre.
Tale stravolgimento era, secondo i poeti del “movimento del verso libero”, inevitabile: non avrebbero potuto i vetusti schemi della poesia classica contenere i messaggi sociali, gli ideali politici, che gli autori degli anni ’40 e ’50 dovevano esprimere. Una “rivoluzione” era necessaria, anche in poesia. Non si trattava solo della “forma”. Scriveva Badr al-Sayyab, mentre nelle campagne si moriva di fame, gli oppositori erano messi al bando e il “leopardo” era già stato giustiziato:
Posso quasi sentire l’Iraq ammassare tuoni,
raccogliere fulmini nelle montagne e nelle pianure,
finché, quando gli uomini spezzeranno il loro sigillo,
i venti di Thamud non lasceranno alcuna traccia nella valle.
Posso quasi sentire le palme saziarsi di pioggia,
i villaggi gemere e gli emigranti
combattere coi remi e le vele i venti del Golfo
di tempesta e fulmini, cantando
Pioggia… Pioggia…
E c’è fame in Iraq,
il tempo del raccolto arriva e sparge il grano
con cui corvi e locuste si riempiranno lo stomaco,
granai e pietre macinano ancora e ancora,
i mulini girano nei campi e con essi girano gli uomini…
(…)
E ogni anno, appena la terra diventava verde, la fame ci abbatteva.
Non è passato un solo anno senza fame in Iraq.
(…)
In ogni goccia di pioggia
Un colore rosso o giallo sboccia dai semi di fiori.
Ogni lacrima degli affamati e denudati
E ogni goccia di sangue versata dagli schiavi
Sboccia in un sorriso rivolto a un’alba nuova,
un capezzolo che diventa rosa tra le labbra di un neonato,
nel mondo nuovo di domani, portatore di vita.
E ancora cade, cade la pioggia.
Una legge del ’32 vincolava ancora i contadini iracheni in quegli anni alla terra che coltivavano e al suo proprietario. La mortalità infantile aveva raggiunto tassi elevatissimi. Disse al-Sayyab:
La morte è un mondo estraneo che strega i bambini *
Secondo Nazik al-Malaika, il verso libero era una vera e propria esigenza sociale: da lì sarebbe dovuta passare la società irachena, e tutta la comunità araba, per gettare le basi della sua propria identità intellettuale. In risposta a chi accusava il movimento del verso libero di un realismo asettico, cronicistico e impoetico, scriveva: “Cos’è questa realtà? Non è la vita delle persone? Le persone che non passano giorno senza soffrire o sorridere (…) e quale tipo di poesia può esprimere questa vita reale umana? La poesia semplice emotiva attraverso le lacrime e i sorrisi oppure una poesia sociale che si ferma allo stato di predica e di allocuzione?”.
La sua poesia doveva essere anche specchio delle lotte per i diritti civili che animavano l’Iraq: nasceva in quel periodo il primo periodico femminile, “Leila”; le donne rivendicavano un accesso egualitario all’istruzione e al mondo del lavoro. Al-Malaika denunciò la condizione della donna in una poesia dal titolo emblematico: Orazione funebre per una donna insignificante (scene di vicolo a Baghdad)
Ci ha lasciati senza un pallore di gota o un fremito di labbra
le porte non hanno sentito nessuno narrare della sua morte
nessuna tenda alle finestre stillante dolore
si è levata per seguire il suo feretro sino a che non scompaia dalla vista
(…)
La notte non se n’è curata e si è trasformata in giorno
Quindi è giunta la luce con le grida del lattaio, il digiuno,
il miagolio di un gatto affamato tutto pelle ed ossa,
le liti dei commercianti, l’amarezza, la lotta,
i bambini che lanciano pietre da un lato all’altro della strada,
le acque sporche nei canali e i venti che giocano da soli con le porte delle terrazze
in un oblio pressoché totale.
Intanto, la proclamazione dello Stato di Israele sui territori palestinesi da una parte, la cui responsabilità risiedeva nelle politiche dei colonialisti inglesi, e l’ascesa di Nasser in Egitto, che risvegliò l’ammirazione e gli orgogli nazionalisti e panarabisti in tutti i Paesi arabi, minacciavano anche dall’esterno la precarietà del governo iracheno. In Iran Mossadeq diventava primo ministro e nazionalizzava l’industria petrolifera; cinque anni dopo, Nasser nazionalizzava il canale di Suez. Anche nell’esercito iracheno, covava il malcontento: il rientro delle truppe irachene dal conflitto arabo-israeliano, in cui poco o nulla avevano potuto offrire in soccorso dei Palestinesi, costituì una macchia importante sull’onore dei militari che poco dopo si riunirono nel movimento degli Ufficiali Liberi. Furono proprio loro, in un Paese investito da nuove ondate di scioperi e manifestazioni, a rovesciare definitivamente la monarchia del giovane Faysal II nel 1958.
Nazik al-Malaika celebrò la nascita della Repubblica con la poesia “Un saluto alla Repubblica irachena”:
Felicità di orfani fra amorose braccia paterne
felicità di assetato che assapora l’acqua
felicità di luglio al tocco di venti freddi
felicità delle tenebre a una fonte di luce,
la nostra felicità per la repubblica.**
Nel giro di pochi anni, l’entusiasmo avrebbe lasciato spazio alla diaspora di gran parte dei poeti iracheni. La chiave del verso libero aveva tuttavia oramai aperto la poesia irachena a una libertà tale che gli anni duri che si prospettavano nel destino dell’Iraq avrebbero potuto costringerla all’esilio ma non al silenzio. Undici anni dopo questi versi, Al Malaika avrebbe lasciato per sempre il suo Paese. Nel ’64, Al Sayyab si sarebbe spento per una malattia neurologica a soli trentasei anni in Kuwait, affidando alle pagine un triste presagio.
Chi crocifiggerà il poeta a Baghdad?
Chi comprerà le sue mani e i suoi occhi?
Chi lo incoronerà di spine?
BIBLIOGRAFIA
“Inanna, signora dal cuore immenso” Ed Venexia 2009, Collana Isole di Venexia
“Breve storia dell’Iraq” Thabit A.J. Abdullah, Ed Il Mulino 2011
“Simbolo e mito nel “Canto della pioggia” di Badr Shakir al-Sayyab”, Stefano Morselli, 1985, Padova, Editoriale Programma
“Non ho peccato abbastanza. Antologia di poetesse arabe contemporanee” a cura di valentina Colombo, Mondadori 2007
“Al-Sayyab, B.S. Full Poetic Collection” (3rd ed.), Ed. and Intro. Naji Allosh, Baghdad: Dar al- Hurria Publications, 2000
“Al‐Malā’ika,N., Shağarat al qamar , in Dīwān, volume secondo” Dār a’auda, Beirut 1971, p.449, traduzione di Manuela Rasori
“Nazil Al-Mala’ika. Innovazione e conservazione” Manuela Rasori, Alma Mater Studiorum 2012
“Badr Shakir Al-Sayyab nella poesia araba” Benedetta Donvito, Alma Mater Studiorum 2017
*Valeria Cagnazzo (Galatina, 1993) è medico in formazione specialistica in Pediatria a Bologna. Come medico volontario è stata in Grecia, Libano ed Etiopia. Ha scritto di Palestina su agenzie online, tra cui Nena News Agency, anche sotto pseudonimo. Sue poesie sono comparse nella plaquette “Quando un letto si svuota in questa stanza” per il progetto “Le parole necessarie”, nella rivista “Poesia” (Crocetti editore) e su alcune riviste online. Ha collaborato con il Centro di Poesia Contemporanea di Bologna. Per la sezione inediti, nel 2018 ha vinto il premio di poesia “Elena Violani Landi” dell’Università di Bologna e il premio “Le stanze del Tempo” della Fondazione Claudi, mediante il quale nel 2019 ha pubblicato la sua prima silloge poetica, “Inondazioni” (Capire Editore). Nel 2020, il libro è stato selezionato nella triade finalista del premio “Pordenone legge – I poeti di vent’anni”.