di Paola Caridi –
Pagine Esteri, 24 maggio – E se una notte, da un minuto all’altro, scomparissero? Così, come in un soffio. L’idea è per alcuni un sogno, per altri un incubo. Di certo è irreale, impossibile, inconcepibile. Fino a quando, a farla entrare nella nostra riflessione sul reale, non arriva un romanzo. Chi dovrebbe scomparire? E da dove? Sono i palestinesi. Da Israele. E da Cisgiordania, da Gaza, da Gerusalemme. Nella terra tra il mar Mediterraneo e il fiume Giordano.
È questa l’idea, da molti definita geniale, che è al cuore del romanzo di Ibtisam Azem, Il Libro della Scomparsa. È stato appena pubblicato in italiano, grazie a Barbara Teresi, una delle traduttrici dall’arabo più interessanti nel panorama nazionale. Ed è pubblicato nella collana che ho la gioia e l’onore di guidare, “La Stanza del Mondo”, la collana più recente della casa editrice indipendente torinese hopefulmonster.
Questa, dunque, non è la recensione di un romanzo. È la storia di una precisa scelta editoriale, una scelta per alcuni versi obbligata.
Tutto comincia proprio dalla collana, La Stanza del Mondo, concepita come un luogo, uno scaffale su cui si trova tutto, senza bisogno di dividere oggetti e saperi. Senza separazione tra generi letterari. Senza muri, inventati solo dagli esseri umani, non certo da un ordine naturale delle cose. E poi tutto prosegue nella ricerca e nella lettura, certo influenzata dai miei dieci anni di vita e lavoro a Gerusalemme e dal ruolo speciale che Medio Oriente e Nord Africa hanno nella mia esistenza.
Da tempo mi interrogo, soprattutto, sui modi attraverso i quali colmare il deficit contemporaneo di conoscenza del Mediterraneo. È una carenza di conoscenza diffusa, dovuta certo a una informazione generalista piegata, ormai, su alcune letture a tesi degli avvenimenti, delle guerre, delle crisi. Se fosse solo questa la ragione di una sostanziale ignoranza di cosa succede nel Mediterraneo, gli anticorpi ci sarebbero: la cultura diffusa, il ricordo di relazioni commerciali e sociali millenarie, capillari tra le coste di questo mare riuscirebbero ad averla vinta sulle narrazioni dominanti. E invece no, la memoria del Mediterraneo si è sbriciolata in infiniti granelli e ricostruirla è una fatica di lunga durata.
Che fare, dunque? Cominciare dai granelli di conoscenza: non vedo, al momento, altro modo.
Il romanzo di Ibtisam Azem è arrivato sulla mia scrivania digitale come fosse l’indicazione su una mappa. Una direzione da intraprendere. È pubblicato in arabo nel 2014 da Dar al Jamal, con il titolo Sifr al-Ikhtifaa. Ma nella lingua di passaggio per il mondo occidentale, in lingua inglese, arriva solo cinque anni dopo, nella preziosa traduzione di Sinan Antoon e per i tipi della Syracuse University Press. È il volano per l’attenzione, la diffusione, i premi meritati negli Stati Uniti. Il motivo risiede, a mio parere, nel fatto che la scrittura di Ibtisam Azem si inserisce in un filone nuovo, e allo stesso tempo consolidato: una letteratura palestinese che ha perso completamente la retorica anche stantìa della militanza che ha pervaso molte opere, accanto ai capolavori che abbiamo amato. Tutto a favore di una qualità artistica alta. In questo, Ibtisam Azem non è sola. Basta l’esempio di Adanìa Shibli, il cui Un dettaglio minore è stato appena pubblicato da Nave di Teseo nella bella traduzione di Monica Ruocco. Entrambe le autrici prendono la Storia, compresa la storia palestinese, e ne fanno il banco di prova della propria ricerca artistica. È l’arte, la letteratura la chiave determinante, utilizzata per penetrare gli angoli bui della contemporaneità.
L’immaginario arriva, così, là dove l’indagine del reale si ferma. Anche nel romanzo di Ibtisam Azem.
Come raccontare Israele, oggi, senza dimenticare il 20% della popolazione? Un quinto della popolazione – palestinese –che la abita nei confini formali ma non sostanziali della Linea Verde, violata nel 1967 con l’occupazione di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme. Come raccontare chi, nel 1948, è rimasto a Jaffa, Haifa, Akka, Lydda, Nazareth, mentre altri settecentomila palestinesi venivano cacciati o fuggivano per evitare la guerra, senza poter più tornare a casa loro?
Il libro della scomparsa riesce a mettere insieme il piano di una memoria lunga 73 anni, impressa nella vita quotidiana di tutti i palestinesi nei vari frammenti di terra in cui vivono, e il piano del presente. L’autrice riesce, in sostanza, a legare la memoria irrisolta del 1948 e della nakba, della catastrofe della cacciata dalla terra, con i dettagli dell’esistenza quotidiana in Israele, paese di cui sono minoranza non accettata. Minoranza che non ha neanche diritto al nome – palestinese – ritradotto nella denominazione di “arabo-israeliano”, un modo per nascondere identità e appartenenza (palestinese) e responsabilità storica (israeliana).
Ibtisam Azem usa, dunque, un doppio livello. Il piano dei ricordi, dentro una vicenda che ha tutti i crismi delle storie narrate in tutte le famiglie palestinesi. E il piano di quello che Molly Crabapple, voce autorevole dell’avanguardia artistica newyorchese, ha definito un “realismo magico freddo e lacerante come quello di Borges”.
La memoria è impressa nero su bianco sulle pagine del diario di Alaa, il protagonista palestinese del Libro della Scomparsa, un mezzo per trasmettere agli israeliani la storia intima, le persone e i loro preziosi ricordi, gli abitanti delle case da cui sono stati espulsi, i fantasmi di cui poco o nulla si sa. A leggere il diario di Alaa è il suo vicino di casa, israeliano ebreo, l’amico israeliano a cui Alaa ha consegnato le chiavi di casa per le emergenze. Il diario assume il valore di un manuale di storia, il libro di testo per conoscere e comprendere la storia dell’Altro.
Il realismo magico è tutto nel plot del libro e del suo titolo: la scomparsa dei palestinesi, in un soffio. Un’assenza che, lungi dall’essere senza conseguenze pratiche e quotidiane, costringe gli israeliani a guardarsi allo specchio. È lo stesso impianto della società e dell’economia israeliana a subire immediatamente i contraccolpi, visto che la macchina del paese non funziona senza i suoi cittadini palestinesi, dagli ospedali al commercio, dai trasporti all’agricoltura. È soprattutto una domanda a pervadere il libro, da cima a fondo: chi siamo senza il nemico, l’avversario, il capro espiatorio? Chi siamo noi, da soli? E dove andremo, come vivremo su questa terra?
Questi interrogativi possono solo parzialmente spiegare la scelta editoriale. Avrei potuto scegliere un saggio, la storia dei palestinesi con cittadinanza israeliana, una riflessione sulla Palestina frammentata in diverse isole (dentro Israele, e poi Cisgiordania, Gerusalemme est, Gaza, i rifugiati). È invece un romanzo, il suo realismo magico ad avermi costretto ad andare a fondo, a immergermi nei dettagli e nella “vita degli altri”, nella macerazione e nella complessità. A immaginare.