di Bruno Sergentini
Pagine Esteri, 2 giugno 2021 – La tregua tra Israele e Hamas sembra reggere e sono numerose le cose già viste in precedenti simili circostanze. A cominciare dalle tante le vittime innocenti, quasi tutte a Gaza. Grande è la distruzione di abitazioni e infrastrutture. Ed è in corso da qualche giorno la solita pantomima dei negoziati, per poter offrire a ciascuno ragioni sufficienti a cantare vittoria.
Tuttavia, l’ennesima escalation ci consegna un novità di rilievo perché è cominciata anche un’inedita analisi sul “peso bellico” dei social media. Non si tratta di una novità assoluta. Il ruolo dei social sulla politica e sulla costruzione del consenso è ormai da tempo oggetto di ricerche e indagini molto accurate. L‘ingresso ufficiale dei social nel campo della strategia militare è però un avvenimento che può produrre una vera e propria rivoluzione.
Non è casuale che il quotidiano israeliano Jerusalem Post, abbia dedicato all’argomento un lungo articolo dal titolo “Israel’s battle of the narrative on social media”, lasciando a un esperto della comunicazione la rassegnata conclusione che, nella battaglia sui social, quella di non reagire, per Israele sia l’opzione preferibile.
Si è percepito subito che i social, da Facebook a Tik Tok, passando per Twitter e Instagram, prima e durante il conflitto stessero in parte oscurando la narrazione ufficiale dei media tradizionali tenuta sotto controllo e spesso pesantemente condizionata dalle autorità militari e non solo. Come non è stato difficile avvertire che gli strateghi della comunicazione bellica fossero entrati in confusione, alla ricerca di un piano B.
Con il passare dei giorni, anche per i non addetti ai lavori, è apparso chiaro che la scesa in campo dei social media, stesse imponendo una profonda revisione delle strategie politico-militari e ad essere messi in discussione, da un’arma difficile produrre e da contrastare, fossero gli stessi concetti di attacco e di difesa, perchè “non c’è ancora un Iron Dome” a proteggere dai lanci di notizie via social che costruiscono relazioni, permettono lo scambio di notizie in tempo reale, contribuiscono a formare le opinioni e mobilitano giovani e giovanissimi.
Gerusalemme era il focus nei social dei giovani palestinesi già diversi giorni prima del 10 maggio, quando sono partiti i primi razzi di Hamas e la lunga serie di bombardamenti di Israele su Gaza. I social già raccontavano di una identità palestinese dal Giordano al Mediterraneo e rifiutavano la definizione di arabo israeliani usata per indicare i palestinesi che vivono nello Stato ebraico.
“Per noi giovani palestinesi la cacciata dei nostri fratelli dalle loro case di Sheikh Jarrah, l’esercito israeliano che protegge i coloni e caccia i fedeli dalla Spianata delle moschee al-Haram al-Sharīf sono crimini inaccettabili” – ha spiegato nei giorni scorsi Nur – Per protestare, abbiamo organizzato i gruppi Facebook. I più giovani hanno messo i loro video su Tik Tok e così non abbiamo abbandonato i nostri fratelli che difendevano Gerusalemme”.
“Siamo tutti uniti per Gerusalemme e per la fine dell’occupazione – aggiungeva Ahmad – Le cose stanno cambiando, siamo tutti insieme. Dal Giordano al Mediterraneo e questa volta non ci fermeremo”.
“Ci hanno chiuso il gruppo Facebook più numeroso, ma così ci hanno dato un motivo in più per organizzarci meglio. Avete visto i pullman bloccati dalla polizia sulle strade per Gerusalemme per la Lailat Al Qader” – si inseriva a sua volta Samer “Abbiamo fatto tutto noi, sui social. In poche ore da tutte le città in Israele, hanno fatto i pullman per andare ad aiutare i fratelli che erano ad Al Aqsa. Quando, hanno fermato i pullman, i nostri gruppi social hanno trovato migliaia di macchine che sono partite da Gerusalemme per andarli a prendere”.
Erano tutti molto carichi, convinti che il mondo ora può vedere quello che succede. “Le nostre storie da Gerusalemme, da Gaza, da Lid, da Giaffa, da tutta la Palestina hanno milioni di like. La verità non la possono più nascondere. Abbiamo promosso noi lo sciopero e abbiamo fatto vedere che era riuscito dappertutto”, aggiungevano altri ancora.
E quando abbiamo domandato cosa succederà con la tregua, erano tutti d’accordo: “Non cambia niente. Non c’è nessun accordo e noi continueremo”, scrivevano un po’ tutti. E ci hanno mostrato i video di ragazzi e ragazze che vanno nei negozi a portare le locandine e a mettere adesivi di boicottaggio sui prodotti israeliani.
Fare previsioni a lungo termine non è possibile ma l’effetto dei social sui conflitti e di come neutralizzarli è uno degli argomenti che scottano sul tavolo dei generali in Israele. Ma anche a Ramallah, al quartier generale dell’Autorità nazionale palestinese non si dormono sonni tranquilli. Pagine Esteri