di Michele Giorgio –

«Lo considero il mio primo romanzo, ma non è fiction. È una storia vera, ho solo usato nomi di fantasia e sviluppato un po’ i personaggi. Una piccola storia d’amore tra due adolescenti. E le storie di persone comuni, seppur piccole, qui in Palestina raccontano anche la vicenda del nostro popolo». Parliamo con la scrittrice Suad Amiry del suo libro, “Storia di un abito inglese e di una mucca ebrea”, pubblicato in Italia da Mondadori nel 2020.

 

Giaffa è la città dove si svolge la vicenda di Subhi e Shams, i due giovani protagonisti del romanzo. Un luogo a lei molto caro.

Sono nata a Damasco ma mio padre era di Giaffa e questa città è stata per lui e per il resto della famiglia un luogo carico di ricordi forti e di tante suggestioni. Papà ha potuto rivederla solo dopo la guerra del 1967. Sono sempre stata legata a Giaffa e sapevo che presto o tardi avrei scritto qualcosa sulla città. Poi per caso, due anni fa, mentre mi trovavo lì per un’iniziativa culturale, un tassista mi ha raccontato di una sua parente, la moglie dello zio, da piccola rimasta sola, senza famiglia, adottata per alcuni anni da una anziana ebrea. Ed è venuta fuori la storia d’amore, segreta a quel tempo, di questa donna che quando era tredicenne si innamorò di un 15enne. Cominciato nel 1947 quell’amore fu travolto l’anno dopo dalla Nakba, la nostra catastrofe, l’esodo dei palestinesi dal territorio in cui nel 1948 è stato fondato Israele. Quei due ragazzi nel romanzo sono Subhi e Shams. Racconto la loro relazione, semplice, ingenua, felice, seguita dalla separazione causata dalla Nakba. Subhi finì in Giordania assieme a tanti altri profughi palestinesi, Shams invece riuscì a rimanere a Giaffa. Non si sarebbero mai più rivisti.

 

Ha incontrato il vero Subhi?

Si, ad Amman, è una persona eccezionale, con uno straordinario senso dell’umorismo, ne sono rimasta impressionata. Mi ha detto di essere rimasto legato al ricordo di Shams, la figlia di un dipendente di suo padre. Ha sempre pensato a lei in tutti questi anni e non ha mai superato il trauma della separazione. Shams invece mi è apparsa meno coinvolta emotivamente parlandomi di quei giorni, mi ha detto che si trattava di una relazione tra ragazzini e di aver vissuto dopo una vita di donna sposata felicemente e di madre.

 

L’abito inglese è un elemento centrale del romanzo.

Subhi era un meccanico di talento, sin da ragazzino. Riuscì a riparare una pompa meccanica e il proprietario, un pezzo grosso di Giaffa, pieno di soldi, lo ricompensò con un abito di taglio inglese. Per Subhi è un premio meraviglioso, sperava di indossarlo per conquistare definitivamente la sua ragazza. Poi quell’abito è diventato un tormento. Qualcuno addirittura lo accusò di averlo rubato ma per fortuna venne scagionato completamente. Ancora oggi ne conserva una parte.

Le vite di Shams e Subhi sono segnate dalle vicende politiche della Palestina.

Già. Lavorando al romanzo sono ritornata al dibattito degli anni precedenti al 1948 tra le varie personalità politiche palestinesi. Nel libro c’è Subhi che va in un caffè di Giaffa a quel tempo molto noto perché frequentato da intellettuali e uomini politici. I temi al centro delle discussioni in quel caffè sono più o meno quelli di oggi: le confische di terre e gli atti di forza da parte dei futuri israeliani sono simili a quelli che avvengono ora. L’appoggio che gli israeliani di quel tempo ricevevano (da altri paesi) ricorda da vicino la situazione internazionale attuale. E i leader palestinesi erano spaccati sulla strategia da adottare: chi si appellava alla lotta armata, chi al negoziato, chi alla diplomazia internazionale. Non è diverso ai nostri giorni se guardiamo allo scontro tra il presidente (palestinese) Mahmoud Abbas (Abu Mazen) a Ramallah e il movimento Hamas a Gaza.

Le foto di Giaffa sono di Michele Giorgio

Quale conclusione se ne ricava

Che allora come oggi, con questa o quella strategia palestinese, gli israeliani alla fine hanno fatto tutto ciò che volevano senza che ciò impegnasse il resto del mondo ad intervenire a sostegno dei palestinesi rimasti senza nulla. A distanza di decenni siamo allo stesso punto: senza terra, sotto occupazione e milioni di palestinesi restano profughi esattamente come settanta anni fa. Ancora oggi in Europa e negli Stati uniti non si riesce a capire che i palestinesi sono stati vittima di un progetto di colonizzazione. Quando viaggio in Europa mi parlano di due narrazioni del conflitto, una israeliana e una palestinese. Tutto ciò è frustrante, perché i fatti storici parlano da soli e sono molto chiari, non lasciano spazio a versioni e interpretazioni opposte. Spero che il mio romanzo aiuti le persone che lo leggeranno a comprendere meglio cosa è accaduto al nostro popolo nel 1948.

 

È di stretta attualità il piano di annessione unilaterale a Israele di porzioni di Cisgiordania. Di fatto è la fine della soluzione a Due Stati teorizzata con la firma degli Accordi di Oslo nel 1993. Non pochi denunciano la creazione di un sistema di apartheid e anche in Israele si leva qualche voce in più a sostegno di uno Stato unico per ebrei e palestinesi, con uguali diritti. È questa la soluzione?

Dico questo. Ci andrà bene uno Stato indipendente palestinese sovrano sui territori occupati del 1967. E ci andrà bene anche uno Stato unico con diritti uguali per tutti. Ma siamo onesti, queste voci israeliane chi rappresentano realmente nel loro paese? Hanno gente dietro di loro? Non credo. Il punto è che gli israeliani, in larga parte, ora come in passato, vogliono la terra dei palestinesi ma senza i palestinesi. Ed è questo che dovrà cambiare prima di ogni altra cosa.