di Marco Cinque –
Pagine Esteri, 2 novembre 2021 – Tra le centinaia di storie emblematiche del controverso sistema giudiziario statunitense, spesso pesantemente inquinato dalla discriminazione razziale ed economica, è salita recentemente alle cronache quella dell’afroamericano Curtis Flowers, processato per ben 6 volte, con l’accusa totalmente campata in aria di aver ucciso quatto persone in un negozio di mobili di proprietà di bianchi, a Winona, nel Mississippi.
Per questa accusa Flowers fu condannato a morte e rimase in prigione per 23 interminabili anni, prima di essere completamente scagionato, nel 2020. Il procuratore distrettuale del Quinto Circuito, Doug Evans, ha cercato in tutti i modi di consegnare Flowers nelle mani del boia, con la complicità di John Johnson, un ex investigatore e gli agenti di polizia Jack Matthews e Wayne Miller.
Due de sei processi di Flowers si sono conclusi con le giurie sospese per cattiva condotta e con i giurati bianchi che votavano sistematicamente a favore della condanna. Un’indagine di APM Reports ha infatti scoperto che l’ufficio di Evans escludeva sistematicamente gli afroamericani dalle giurie, con una facilità troppo sfacciata e troppo sospetta.
Oltre ciò, poco prima del secondo processo di Flowers, la casa dei suoi genitori fu bruciata e sua madre venne minacciata da un uomo che le disse che “se avessero rilasciato quel negro, un’altra casa sarebbe stata bruciata”.
Nel sesto ed ultimo processo, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha finalmente annullato la condanna a Flowers, per l’inesistenza di prove oggettive e per la discriminazione razziale compiuta da Evans nella selezione della giuria. Quindi, il Procuratore Generale del Mississippi, non ha potuto far altro che togliere il caso ad Evans, facendo così cadere tutte le accuse.
Durante il ricorso contro l’Accusatore Distrettuale è stato asserito che “il caso intentato contro Flowers non ha mai avuto senso e che l’assoluta mancanza di prove rende gli accusatori colpevoli di aver inventato un caso che non avrebbe dovuto mai essere aperto”. Ma ora che la penosa vicenda giudiziaria di Flowers si è conclusa, il 3 settembre 2021 il suo team legale ha presentato una denuncia ad una corte federale, in quanto fermamente intenzionato a portare sul banco degli imputati Evans e la sua cricca, con l’accusa di aver violato la Costituzione degli Stati Uniti, nonché la Costituzione del Mississippi, oltre a diverse altre leggi di questo stato. A parti invertite, ci sarebbe ora da augurarsi giurie composte solo o prevalentemente da afroamericani, per vedere l’effetto che fa.
Di ricorsi contro le istituzioni che hanno spedito nel braccio della morte persone innocenti, oltre quello di Flowers, ce ne sono stati diversi. Nel 2007 l’Fbi venne condannata a sborsare un sostanzioso risarcimento di 101,8 milioni di dollari per quattro italo-americani di Boston: Henry Tameleo, Louis Greco, Peter Limone e Joseph Salvati, ingiustamente condannati alla pena capitale e rinchiusi in una cella della morte per 33 anni. Per i primi due, purtroppo, non ci fu nemmeno modo di godere del risarcimento, poiché morirono in carcere prima del processo che stabilì la loro innocenza.
Più recentemente è emersa un’altra vicenda simile, quella di tre ex condannati a morte afroamericani che hanno trascorso quasi quattro decenni in carcere a causa della condotta illegale della polizia. Si tratta dei tre afroamericani Kwame Ajamu, Wiley Bridgeman e Rickey Jackson, condannati a morte nel 1975 dallo stato dell’Ohio per un crimine che non avevano mai commesso.
A seguito della causa civile contro la polizia dell’Ohio, il risarcimento di 18 milioni di dollari stanziato per i tre ex condannati a morte è stato il più elevato mai concesso in questo Stato. Quando è stato raggiunto l’accordo per il risarcimento, Ajamu ha affermato: “Il denaro non può comprare la libertà e il denaro non è il riconoscimento dell’innocenza, ma questo accordo era l’unico modo per dire al mondo che è stato fatto un torto a tre ragazzi neri, 45 anni fa”.
Per capire come sia possibile che fatti simili avvengano con regolare frequenza, basta consultare tutti i dati statistici disponibili, i quali confermano che il sistema penale degli Stati Uniti punisce in maniera oggettivamente discriminatoria e razzista, dal momento che, percentualmente, le minoranze sono immancabilmente ai primi posti nelle classifiche delle incarcerazioni e delle condanne capitali. Il primato percentuale di queste minoranze tartassate tocca ai nativi americani, seguiti a ruota dagli afroamericani.
Dal 1976, dopo una sentenza della Corte Suprema, la pena capitale è stata reintrodotta negli Stati Uniti e da allora si contano più di centoquaranta ex condannati a morte scampati dalle mani del boia e successivamente liberati; non prima però d’aver passato anni rinchiusi in una cella della morte, a contare il tempo che li separava dall’esecuzione.
Molti ex detenuti, dopo la liberazione, hanno grandi difficoltà persino a compiere gesti apparentemente semplici come, ad esempio, aprire una porta, perché per decenni c’è stato qualcuno che lo ha fatto per loro. La cosa paradossale è che molti Stati hanno speso milioni di dollari per far condannare a morte degli innocenti, i quali, una volta liberati, hanno potuto beneficiare (tranne i pochi casi citati) solo del ridicolo rimborso di 200 dollari, cioè la somma prevista per tutti i detenuti al momento del rilascio. Qui a seguire alcune testimonianze di ex condannati, sopravvissuti al ferale conto alla rovescia del sistema penale statunitense.
Anthony Graves: “È come se una proverbiale pistola fosse stata puntata alla mia testa. Ma non era come nel proverbio, quello che mi accadeva era molto reale e disgustoso. Tutto quello che potevo udire era una voce che diceva: Anthony Graves, hai un appuntamento con la morte in Texas. La condanna errata, la detenzione in isolamento e dodici anni nel braccio della morte non sono riusciti ad uccidere la mia anima. Ora devo crearmi un mio futuro, facendo qualcosa di positivo. Questo è ancora un momento surreale per me. Mi sono sforzato di capire cosa sto provando ma non ci sono ancora riuscito. Ho percorso il mio inferno personale per diciotto anni e ne sono uscito fuori da un solo giorno. Comunque pensiate di descrivere l’inferno, così è il braccio della morte. Non c’è da aggiungere nient’altro”.
Earl Washington: “La prima cosa che farò sarà quella di andare a Virgina Beach. Farò un bagno caldo. Poi mangerò qualcosa. Sarò nervoso. Non sto là fuori da così tanto tempo. Sono ancora arrabbiato con lo stato della Virginia per quel che mi ha fatto. Ma è ora ch’io metta la rabbia da parte. Devo vivere ogni giorno così come viene, altrimenti impazzisco. Mi hanno rubato diciassette anni di vita”.
James Richardson: “Non mi voleva nessuno a lavorare perché ero stato operato al cuore ed ero stato in prigione. Una volta uscito dal carcere volevo le cose che da sempre desideravo. Non volevo dieci o quindici milioni di dollari. Speravo soltanto di avere il necessario per vivere. Ma non ho avuto niente. Spero ancora che qualcuno mi aiuti, spero di riuscire ad avere una casa”.
Rolando Cruz: “Anagraficamente ho trentasette anni, ma psicologicamente molto spesso mi sento più vecchio. Però, qualche volta, quando esco, è come se avessi venticinque anni. Non ho perduto quei dodici anni, loro me li hanno rubati. Io credo che quando ti viene portato via il tempo in quel modo e poi ritorni nella società, per così dire alla vita normale, automaticamente tendi a pensare agli anni perduti e ritorni all’età che avevi, come se il tempo si fosse fermato”.
Ronald Keith Williamson: “Ogni giorno ci sono momenti in cui mi sembra di essere di nuovo in prigione. La mia mente rivede quei momenti. So che sono libero, ma è più forte di me. A volte non riesco a non pensare di essere ancora in prigione”.
Randy Steidl: “Credevo nella pena di morte. Quando sono stato arrestato pensavo che fosse una punizione giusta per chi commette violenze contro i bambini o le donne. Ma oggi non ci credo più. Penso che dopo dodici anni nel braccio della morte, quando esci e sei ancora vivo le cose cambiano. Si libera un innocente dal carcere ma non dalla tomba. Nel 2004, quando sono uscito di prigione ho lavorato in un’industria tipografica come addetto alle macchine per la stampa. Quattro anni dopo, sono stato licenziato per via della crisi economica. Così, oggi la mia attività principale è portare la mia testimonianza nelle università, in istituti, associazioni”.
Walter McMillian: “A volte vorrei andarmene da qui e non tornare più. Molti mi dicono: «al posto tuo io me ne andrei»; ma io rispondo loro: «questa è la mia casa. Io sono innocente». Se me ne andassi la gente penserebbe che sono colpevole. Non vedo perché dovrei lasciare la mia città natale. A volte mi arrabbio, allora inforco la bicicletta e pedalo, qualsiasi cosa pur di non pensare. Non ho mai ricevuto delle scuse. Otto persone sono state giustiziate mentre ero nel braccio. Conosci un fratello, ci giochi a palla insieme, vi affezionate l’un l’altro, e poi loro gli dicono: «è arrivato il tuo giorno». Il carcere mi ha dato cento dollari come miglior prigioniero. Non ho mai avuto problemi, né con le guardie, né con altri detenuti o con il direttore. Non ho mai ricevuto un biglietto di punizione. Il direttore disse che si era dimenticato ch’io fossi là”.
Kirk Noble Bloodsworth: “È una cosa che distrugge completamente la vita di una persona. Ogni sassolino, ogni minima parte, ogni granello della tua esistenza viene buttato via. Devi ricominciare tutto daccapo e alcune persone non ce la fanno. Alcune persone non saranno mai più le stesse. Non importa quale sia la verità, la gente comunque non ha fiducia in te. Una volta sono entrato in un supermercato in città e, non appena mi ha visto, una donna ha preso in braccio la sua bambina. La bimba ha detto: “quello è l’uomo che era in tv, mamma”. E lei ha afferrato la bambina dicendole: “non avvicinarti a lui”. Ho lasciato lì tutto e me ne sono andato. Non finisce mai. Mai. Mai. Non finirà mai!”
Shujaa Graham: “La guardia mi ha chiesto: ancora qui? Io gli ho risposto: adesso aspetti tu. Sono stato in trance per un’ora, non avevo più fretta. Ero entrato in galera a diciotto anni, ne uscivo a trentuno. Prosciolto dall’accusa di omicidio, dopo quattro processi. Riabituarsi è dura. La benzina costava trenta centesimi, la ritrovo a un dollaro. Le macchine vanno più veloci, tutto corre, non sono abituato alle tastiere del computer, al cellulare. Sembra una stupidata, ma mi ritrovo incapace, quasi invalido. Mi allaccio le scarpe e mi viene voglia di piangere. Per la speranza rubata. Che io ho riavuto, ma altri no. Per la sofferenza di quelli che non hanno evitato il boia. La sento mia, fino in fondo. È un veleno che non riesci a eliminare, è come essere seppelliti e poi togliersi via la terra. Non ce la fai del tutto, ti resta sempre qualche granello. La pena di morte puzza, inquina la libertà, per questo va eliminata”.