di Caterina Maggi* –
Pagine Esteri, 3 novembre 2021 – Dopo due anni di viaggi “ristretti”, magari in campagna per fuggire al contagio come in un capolavoro di Boccaccio, la pandemia potrebbe finalmente rallentare e permettere il ritorno dei turisti stranieri in tante zone del mondo. Ci sono località letteralmente prese d’assalto, altre su cui bisognerebbe fare qualche indagine in più per poterne vagliare la sostenibilità e luoghi stupendi ma dimenticati dalle agenzie di viaggio. Del secondo e terzo gruppo fanno parte, rispettivamente, Israele e i territori palestinesi
Israele negli ultimi anni ha investito parecchio sul turismo. Ieri peraltro è arrivata la decisione di riammettere i turisti vaccinati dopo il blocco delle partenze in entrata e in uscita causato dalla pandemia, durato 20 mesi. Il settore turistico in Israele è in rapida ascesa: il ministero del turismo israeliano ha calcolato che in epoca prepandemica l’afflusso di visitatori abbia generato utili per 23 miliardi di shekel (circa 7 miliardi di euro) grossomodo cioè un punto e mezzo del Pil del Paese. Il punto di forza di questa striscia di terra sulle sponde del Mediterraneo è il turismo religioso, visto che vi convergono fedeli delle tre religioni monoteiste (Islam, cristianesimo ed ebraismo). A controllare buona parte di questi siti (e di relativi servizi al pellegrino come vitto e alloggio) sono associazioni cattoliche ma soprattutto evangeliche, che ovviamente traggono benefici non indifferenti da questa economia. Ma anche i palestinesi della città occupata di Gerusalemme est e delle altre città chiave dei pellegrinaggi, come ad esempio Betlemme, hanno accolto con favore la notizia.
Va però precisato che Israele non è una delle mete più solidali in cui recarsi: si tratta comunque di uno Stato che è accusato da istituzioni internazionali e locali di perpetrare violazioni dei diritti umani e di ignorare i richiami della comunità internazionale. Il “tourism washing”, fatto di spot accattivanti, è spesso usato per indorare una situazione tutt’altro che positiva. Secondo Adalah, il Centro legale per i diritti della minoranza araba, sarebbero 65 i testi di legge israeliani, di varia natura, che provocano una discriminazione istituzionale contro arabo-israeliani e palestinesi. Di queste, almeno 14 controllano la distribuzione di terra e i diritti di proprietà, garantendo un’espansione ingiustificata e non regolare degli insediamenti coloniali (illegali per il diritto internazionale). Frequentare luoghi di proprietà dei coloni o servirsi di compagnie che finanziano la costruzione delle colonie alimenta questo circolo vizioso. Tel Aviv, infatti, spinge molto sulla maggiore attenzione all’ambiente. Le campagne per sensibilizzare i turisti al risparmio idrico – visto quanto preziosa è questa risorsa per il territorio – spingono parecchio sulla maggiore sostenibilità di alloggiare in una guest house di un kibbutz, per esempio. E anche pur senza viaggiare in Palestina, il rischio è di finanziare l’economia degli insediamenti israeliani; magari cercando di fare una buona azione per il pianeta, come nel caso dei gasatori SodraStream.
Da non dimenticare, anche, che Israele dal 2018 non è più parte della commissione Unesco. Una scelta dovuta ai ripetuti richiami dell’istituzione sovranazionale in merito alle modalità, alle motivazioni e ai metodi con cui Israele si appropria di patrimonio artistico e culturale nei Territori occupati palestinesi. La Palestina infatti è stata, in antichità ma anche in epoca moderna, snodo di rotte carovaniere, luogo di incontro (e molto spesso di scontro) di civiltà antiche, da quella fenicia all’ellenistica, dall’Impero Romano fino alle crociate e poi via via per i secoli della dominazione ottomana. Il risultato è un mosaico di siti archeologici, monumenti, beni del passato materiali e immateriali unici al mondo e di fragile e straordinaria bellezza. Spesso però lo Stato di Israele allunga le mani anche su questi beni culturali, utilizzando una clausola della legge israeliana sull’accesso ai luoghi sacri che stabilisce che Israele possa temporaneamente appropriarsi di un terreno qualora ci siano evidenze archeologiche che questo possa essere sede di un monumento-luogo di culto dell’ebraismo. Il problema, è che quel temporaneamente non solo diventa in pratica molto definitivo, ma non consente un controllo imparziale affinché negli scavi non siano sistematicamente distrutti – come sostengono i palestinesi – reperti non appartenenti alla tradizione ebraica, ad esempio quelli della cultura autoctona palestinese. Un altro esempio di cattiva pratica turistica di Israele, è il Mar Morto. Lo specchio d’acqua giace in area C, nei Territori Occupati che sono sì sotto il controllo di polizia israeliano, ma da Accordi di Oslo dovevano essere restituiti all’Anp. Ad anni dagli accordi, invece, i Territori continuano ad essere in larga parte sfruttati da coloni e compagnie israeliane, anche tramite piccole attività come quelle che vendono fanghi e altri cosmetici prodotti grazie al Mar Morto. Se volete fare il bagno in uno dei mari più salati al mondo, insomma, ricordatevi che lo state facendo in un posto che apparterrebbe alla popolazione palestinese e che invece Israele ha occupato abusivamente.
Tra i comportamenti poco educati (per usare un eufemismo) di Israele sul tema del turismo c’è il perpetuo tentativo di creare un’immagine sempre negativa e arretrata della Palestina libera, contrapposta a uno stato di Israele dipinto come terra di assoluta libertà e opportunità di divertimento mondano. Meno conosciuto resta così il turismo nei territori dell’Autorità Nazionale Palestinese, della Cisgiordania e di Gaza. Eppure, questi luoghi non sono solo terreno di scontri e di guerra. Prendiamo ad esempio Hebron, nell’area sotto il controllo di polizia israeliano. Città massacrata, dilaniata tra l’occupante israeliano che vi si è insediato abusivamente e fuori di ogni norma internazionale anni fa, rendendo la vita praticamente impossibile per gli abitanti autoctoni, e i palestinesi stessi, vittime di continue rappresaglie e costretti a estenuanti itinerari attraverso check point e posti di blocco per arrivare da un capo all’altro della città. Eppure, Hebron è anche centro d’eccellenza dell’arte del vetro. Nelle sue botteghe artigiane vengono create campagne di vetro coloratissime e altri oggetti delicatissimi e multicolori.
Un’altra città dal patrimonio artistico e culturale straordinario è Nablus, rinomata per la produzione di sapone impastato e modellato con tecniche antiche. Ma anche nella piccola Striscia di Gaza esistono strutture ricettive, anche se rivolte soprattutto al turismo interno. Il 2 ottobre di quest’anno, tornando in tema di turismo ecosostenibile, è stata aperta proprio a Gaza la prima guest house ecologica dell’enclave: un luogo di relax dove bere qualcosa e godersi il mare antistante – Gaza affaccia su uno stupendo scorcio di Mediterraneo – fondato sul principio della rigenerazione delle risorse; gli ospiti infatti possono portare vestiti, materiali che non usano e cibo avanzato per entrare gratuitamente a godere dei servizi del locale, tra cui una libreria e un teatro. La struttura stessa è costruita a partire da materiali di recupero. Insomma, al netto della propaganda israeliana, anche la Palestina storica e i Territori occupati possono offrire relax e cultura a profusione per i visitatori più attenti all’etica.
*Laureata in Lettere all’Università di Genova e diplomanda alla Scuola di Giornalismo di Bologna, giornalista praticante presso l’Istituto Affari Internazionali, si appassionata fin da giovanissima alla questione palestinese e al Medio oriente. Scrive per il sito online Affarinternazionali.