di Eliana Riva –
Pagine Esteri, 15 aprile 2021 – La prima lettera Nawal la scrisse bambina e la indirizzò a Dio. Gli chiedeva conto dei torti compiuti in nome suo e lo minacciava: se continuerai ad essere ingiusto, non potrò credere in te.
La ribellione ce l’aveva nel sangue. Sua nonna era una rivoluzionaria, illetterata, analfabeta ma dissidente. E anche lei è diventata una dissidente. Quando andava a scuola percorreva tutta la strada correndo per sfuggire agli sguardi degli uomini e alle pietre dei bambini. Gliele lanciavano semplicemente perché era una femmina e si trovava per strada invece che a casa. Ma lei un giorno raccolse quelle pietre e gliele scagliò contro con la stessa rabbia, la stessa violenza. Quando i ragazzini videro che sapeva essere violenta proprio come loro, si spaventarono. Da quel giorno non le tirarono più pietre. Capì che essere una dissidente, utilizzare l’aggressività e attaccare le persone dalle quali si era attaccati, era l’unico modo per impedire di essere sottomessa.
La mia memoria resta una pagina vuota
Sin dall’infanzia
Una montagna nascosta sott’acqua
Con un solo occhio che mi fissa
L’occhio di Dio o Satana
Perché sono una cosa sola
E io li temo entrambi
La ribellione l’aveva nel sangue, Nawal, ma quella genetica, innata, non bastava: doveva sommarsi a quella acquisita con i libri, le letture, il pensiero. Da ragazzina cominciò a scrivere un diario segreto per cercare di tirar fuori la rabbia e la frustrazione che provava per ciò che ogni giorno viveva. Studiava tanto e a scuola era molto brava. Suo fratello più grande, al contrario, era pigro e svogliato. Eppure, aveva molti più doni e privilegi di lei e durante le feste riceveva, come gli altri fratellini, 2 monete, mentre a lei ne spettava solo una. Nawal si arrabbiava e chiedeva perché. Le veniva risposto che era stato dio a dirlo: una femmina vale la metà di un maschio.
Quando aveva 10 anni la sua famiglia decise che avrebbe dovuto sposarsi. Sua cugina, anche lei di 10 anni, si era sposata poco tempo prima. Nawal bambina la ricorda, vestita di bianco, piangere il giorno del suo matrimonio. Anche le altre donne piangevano e vedeva nei loro occhi la tristezza del ricordo della loro prima notte. Dio diceva che la moglie doveva assaggiare il bastone del marito già dal primo giorno. Nawal ricorda le urla della cuginetta, per il dolore del bastone e della deflorazione che il marito compì a mani nude, per dare prova alla comunità di aver sposato una bambina pura. Nawal utilizzò, per allontanare il suo promesso sposo, la stessa violenza che aveva utilizzato con i bambini sulla strada per la scuola. E poi studiava, continuava a studiare senza sosta. Sua madre volle continuare a garantirle un’istruzione anche quando i soldi in casa erano pochi e il padre era fiero di avere una figlia tanto diligente. Ma i pretendenti non apprezzavano una ragazzina che preferiva avere in mano una penna invece che un mestolo o un manico di scopa. “Fu il saper leggere e scrivere che mi salvò dai potenziali mariti”.
La mamma, per prima, le aveva insegnato l’alfabeto e poi a scrivere il suo nome. Ne andava molto fiera e le sembrò naturale, quando il primo anno la maestra le chiese di scrivere per esteso come si chiamava, mettere vicino a Nawal il nome di sua madre, Zaynab. Ma la maestra la sgridò, le disse di cancellarlo e sostituirlo con quello di suo padre e di suo nonno, El Saadawi. Non era solo il nome di sua madre a dover essere cancellato. Alle bambine veniva insegnato a vergognarsi del proprio corpo, della propria pelle, delle gambe, dei seni, del ciclo mestruale, del clitoride. All’età di 6-7 anni arrivò la daya e glielo tagliò via con una lametta. La madre non aiutò Nawal e anzi era tra le donne che la tenevano ferma, con le gambe e le braccia larghe, così come sua madre aveva fatto con lei molti anni prima. Nawal non dormì per molte notti, aspettandosi che la daya ritornasse per tagliarle via un altro pezzo del suo corpo, un altro pezzo che potesse essere vergognoso agli occhi di Dio.
Poi dimenticò quell’evento, lo rimosse, sepolto nella memoria per tanti anni. Un giorno, però, quando da studentessa di medicina prese a visitare le donne che erano state circoncise, cominciò a ricordare, l’inconscio sputò fuori quello che le pareva essere solo un incubo. Così iniziò a lottare contro quella terribile pratica di mutilazione. Allora tutti le si misero contro: il ministro della salute, i religiosi, anche i suoi colleghi medici. Cristiani, ebrei, musulmani l’accusavano di essere contro dio.
“Nel corpo, da qualche parte appena sotto il cuore, nell’incavo profondo tra le costole, sentivo un’energia, una vitalità imprigionata. Di che cosa era fatta? Gioia, tristezza, collera, il sogno di essere libera, di librarmi oltre i muri della cucina, della nostra casa, della scuola. Ma per andare dove? […] La mattina, al momento del risveglio, guardavo mia sorella Leila o le altre negli occhi alla ricerca di quella cosa, del sogno che mi turbava la notte: ma i loro sguardi erano sempre limpidi e rilassati, senza tracce d’ansia, né di qualcosa che ne avesse potuto disturbare il sonno. Anche a scuola guardavo le compagne alla ricerca di uno solo di questi segni e anche dopo, all’Università, alla facoltà di medicina, facevo lo stesso con le ragazze, le mie colleghe o quelle che esercitavano la professione. Ovunque andassi, continuavo a cercare, a guardare gli occhi delle altre persone sperando di ritrovare quel sogno”.
Con la pubblicazione, nel 1971 del volume Donne e sesso, lo scontro con il potere e con il sistema che la circondava fu formalizzato: Nawal venne allontanata dal Ministero della Sanità e costretta a lasciare la rivista per cui scriveva e sulla quale aveva più volte denunciato la pratica della circoncisione genitale femminile. Anni dopo Nawal, quando ricorderà questo periodo, dirà che la scelta del governo egiziano fu per lei quasi una liberazione: le permise di fare quello che realmente voleva fare. E quello che Nawal voleva fare era scrivere, parlare, organizzarsi e manifestare per i diritti delle donne. Lavorò come consulente delle Nazioni Unite per il Programma per le Donne in Africa e Medio Oriente. Intanto, gli arresti dei contestatori e degli avversari politici del presidente egiziano Anwar al-Sadat si moltiplicavano e nel 1981 toccò anche a Nawal El Saadawi, fermata per crimini contro lo Stato. In prigione non le davano la carta igienica, preoccupati che potesse utilizzarla per scrivere. Ma lei trovò comunque il modo di farlo.
Si è ritrovata a combattere tutt’insieme l’ignoranza, il patriarcato, la religione e la crudeltà. Ha cominciato a farlo scrivendo e poi organizzandosi con le altre donne. Era certa che l’organizzazione fosse essenziale e così nel 1982 ha fondato l’Arab Women’s Solidarity Assocation, una associazione di donne che si definivano storiche, socialiste e femministe. Grazie alla storia sapevano che l’oppressione delle donne esisteva in ogni epoca e in ogni luogo. Erano certe che il capitalismo e il patriarcato fossero strettamente connessi e si opponevano alla dominazione dell’uomo nella scienza, nella cultura, nell’economia, nella politica. Era un’associazione di donne ma formata per il 40% da uomini: anche loro si sentivano vittime della società patriarcale e volevano sovvertirla.
L’associazione venne dichiarata fuori legge 10 anni dopo, poco prima che Nawal al-Saadawi venisse prima di nuovo incarcerata e cominciasse poi il suo esilio negli Stati Uniti, quando fu emessa la sua condanna a morte da parte di un gruppo fondamentalista religioso. Anche da lì continuò a parlare dell’oppressione economica e militare dei popoli occidentali su quelli africani e orientali, oppressione che affonda le sue radici, da sempre, nelle ragioni di interesse economico, e che non ha quindi nulla a che fare con quello “scontro di civiltà” molte volte richiamato e utilizzato per giustificare sopraffazione e schiavitù. Nel 2002 tentarono di sottoporre Nawal e suo marito al divorzio coatto: la ferma opposizione del marito e la mobilitazione internazionale riuscirono ad impedirlo. Nel 2004 si candidò alle elezioni egiziane ma ritirò la partecipazione quando capì che non le sarebbe stato permesso di fare campagna elettorale né di vincere. È stata denunciata più volte per apostasia e per eresia, rispondendo alle accuse in tribunale, dove vinse le cause che la vedevano imputata.
Ha scritto molti libri e ricevuto altrettanti premi. Scrivere le veniva naturale “come parlare o respirare”, non poteva farne a meno. Ci ha lasciato, così, un patrimonio grande di civiltà, esperienza, impegno civile, ma soprattutto di immensa forza e umanità.