di Valeria Cagnazzo
Pagine Esteri, 10 novembre 2021 – Se Allah ha novantanove nomi, per Hassan Blasim questi sono storie “senza capo né coda” che frastornano, turbano, imbarazzano. Sono le storie dei reietti, di persone la cui vita è stata distrutta dalla guerra, persone rifiutate da Allah e dalla terra, che si è sollevata sotto ai loro piedi per scuoterseli di dosso e gettarli sulle rotte della migrazione. Le loro voci sono raccolte in questa strana e articolata opera narrativa, “Allah 99”, che prende il nome dal blog che il narratore, uno scrittore iracheno, decide di aprire come collettore di interviste, nel suo intento novantanove, ad altrettanti migranti, apolidi e vittime dei conflitti o delle dittature nel mondo. Ne viene fuori un mosaico in cui si alternano tinte gotiche e colori sgargianti, e ciascun minuscolo tassello può contenere slanci di fervente immaginazione poetica insieme a baratri grotteschi. Lo specchio della religione islamica, con i suoi fanatismi e le sue contraddizioni, viene afferrato dall’autore e distrutto in una moltitudine di frammenti. Ognuno di quei frammenti è una vita di dolore, di solitudine, di abbandono, che la storia e i giochi politici degli uomini, travestiti da dogmi religiosi, hanno prodotto. Pubblicato in Italia nel settembre 2021 da Utopia Editore e dissacrante ed eretico a partire dal titolo, “Allah 99” è un romanzo destinato a far parlare di sé che ci mostra quanto viva e innovativa possa essere la letteratura araba contemporanea.
Acclamato dalla critica per la sua raccolta di racconti “Il matto di Piazza della Libertà” in lista per l’Independent Foreign Fiction Prize nel 2010, di cui è risultato vincitore nel 2014 con la sua seconda raccolta, “Il Cristo Iracheno”, e definito dal Guardian come “forse il più grande romanziere vivente in lingua araba”, Hassan Blasim sceglie come voce narrante del suo romanzo d’esordio quella di un suo alter-ego, Hassan Gufo. Come lui, anche Blasim è stato costretto a fuggire da Baghdad e a percorrere le pericolose rotte della migrazione e una faticosa peregrinazione prima di stabilirsi in Finlandia nel 2004. Come lui, è uno scrittore, un cantastorie, oltre che un regista e un poeta. Come il suo Gufo, anche Blasim ha intessuto una fitta corrispondenza con il suo mentore e adesso cura un blog. L’incursione apparentemente autobiografica, però, non rompe la fiction in “Allah 99”: “Il libro mette in dialogo realtà e finzione”, ha detto Blasim al Guardian. “L’autobiografia è finzione – noi mentiamo sulle cose. Le ricordiamo male e le rappresentiamo in maniera alterata. Così anche la finzione contiene delle verità. Fortunatamente, non sono abbastanza famoso perché la gente conosca la mia vita, quindi posso ancora giocare con questa cosa”.
L’opera è costruita su tre livelli, che si avvicinano tra di loro con una progressiva complessità che li porta alla fine del libro a toccarsi e quasi a sovrapporsi, senza tuttavia confondersi. Si tratta delle storie raccolte da Hassan attraverso le sue interviste in Iraq e in giro per il mondo, della componente “autobiografica” del libro, in cui il narratore emerge con tutte le sue fragilità e dipendenze, e della corrispondenza con l’amica scrittrice Alia, con le sue riflessioni sul senso della vita, sulla morte, sulla religione, la politica irachena ma soprattutto su quella che è la protagonista indiscussa di questo libro, la scrittura.
“Da adolescente ho letto da qualche parte che le idee si trovano sul ciglio della strada, e quella frase ha avuto un forte impatto su di me (…). Specialmente quando ho sostituito la parola idee con storie”. Le storie di questo libro-blog si succedono con ritmo incalzante. Nessuna è banale, ciascuna è un affresco affascinante e complesso che potrebbe anche stare in piedi autonomamente in forma di racconto breve. C’è, ad esempio, la storia di Doctor Dj, che dopo aver lavorato come specializzanda in un Pronto Soccorso in Iraq durante l’avanzata dell’Isis nel Paese e dopo aver visto morire suo marito colpito da un cecchino, abbandona la medicina e si trasferisce in Germania per diventare dj di musica techno. “Che senso ha, in una situazione del genere, avere velleità artistiche o umanitarie? (…) E quante cose orribili vuoi fotografare perché impariamo qualcosa da questo incubo?”, è il grido che ci lascia. La storia della direttrice della scuola per gatti, una ragazza francese che va in Siria a cercare il suo ragazzo che si è unito all’Isis, o la storia di Alì Transistor, che con l’aiuto di un falegname realizza opere sonore come un pesce di legno che raglia come un asino e che muore forse di crepacuore dopo aver visto esplodere un’autobomba in tv “dopo l’ingresso dei barbari americani a Baghdad”. O quella del giovane game designer, che sta realizzando un videogioco in cui il giocatore deve scegliere un punto di partenza e uno di arrivo sul planisfero e raggiungere la sua destinazione in un viaggio clandestino, affrontando avversità climatiche, squali, polizia di frontiera, filo spinato, muri. Gli ostacoli sul suo percorso sono orchestrati da Mr Spazzatura, un personaggio che assomiglia a Trump. E ancora le storie di Salma Hayek, o del plasmatore di maschere per cadaveri sfigurati, o di zio BBC.
In tutti questi racconti, la Piccola storia dei singoli intervistati è stata schiacciata e stravolta dalla Grande storia. Non c’è spazio per nessun ottimismo quando si guarda al passato o all’attualità. L’Iraq, ad esempio, ha sofferto sotto la dittatura ba’athista, come anche durante l’occupazione americana, quando “morte, violenza e distruzione avevano preso a diffondersi a Baghdad come un incendio in un pagliaio”, e successivamente con la guerra civile e l’ascesa degli estremismi (“prima che gli americani ci liberassero dai dittatori e ci consegnassero ai partiti islamisti”, si legge). Non c’è speranza di fronte alla distruzione subita dal Paese: “Ci servirebbe un intero secolo per demolire tutto, e un secolo per ripulire dalle macerie, poi un altro per progettare e ancora uno per ricostruire”. L’esperienza della migrazione in clandestinità è descritta con crudo realismo, con un’aperta denuncia alla sofferenza e alla morte che all’umanità provoca l’esistenza delle frontiere: ricorre il sogno che l’essere umano possa muoversi liberamente nel mondo, scegliere di andare a vivere nel più sperduto paesino della terra e potervisi trasferire da un giorno all’altro. L’Occidente in questo quadro è un posto che ancora deve fare i conti con il suo razzismo. Né può la religione offrire un rifugio per queste vittime: il Corano è ormai un simbolo di oppressione che viene addirittura bruciato, e sulla fede bigotta si abbatte un’ironia efferata, come quando Hassan riconosce che la madre non poteva leggere i Libri Sacri perché era analfabeta, proprio come il profeta che quei libri li aveva scritti.
C’è poi l’ingombrante prima persona dello scrittore ed ex veterinario Hassan Gufo. Inevitabilmente Hassan Blasim si confonde con il suo protagonista-narratore. A smascherare questa identificazione dell’autore con il suo alter-ego non è tanto il dato autobiografico del profugo fuggito dall’Iraq al nord Europa, quanto la bruciante passione di entrambi per la scrittura e la sete smaniosa di raccogliere storie, di vivere per scrivere storie. Il racconto introspettivo di questo narratore è uno dei tre piani del romanzo. In maniera frammentata e caotica, affiorano le sue storie d’amore, la dipendenza dall’alcool e dal sesso, il suo interesse osceno e pornografico per le donne, ma anche la sua solitudine estrema, la fuga dall’Iraq fino alla Finlandia che gli ha procurato traumi, perdite, sofferenze che tornano spesso a tormentarlo. E’ per non sentire le voci della sua memoria, che nel silenzio riemergono crudeli, che preferisce affogare la sua esistenza nell’alcolismo e nel sesso di relazioni occasionali. Il cinismo si spinge tanto oltre da essere spietato, la lussuria è trascinata fino ai suoi risvolti più volgari, scandalosi, spesso più propriamente pruriginosi: tutto sembra essere ostentato come una provocazione al moralismo islamico. La vita nei suoi aspetti più scabrosi è messa viscida e nuda sotto al naso dei bigotti, in segno di sfida, col chiaro intento di destare disgusto, disprezzo, e così facendo di rivelare le ipocrisie farisee e opprimenti della società. “Dicono che la mia scrittura sia sporca, oscena, e che offenda i sacrosanti valori religiosi”. In questo vortice a cavallo tra l’eresia e il disturbo post-traumatico da stress, e nello spaesamento del profugo (“Penso che il mondo per me sia diventato soltanto un albergo. Una stanza a Baghdad, una stanza a Helsinki, una stanza a Pechino”), Hassan lascia, tuttavia, aperto uno spiraglio all’amore. A Sara, una delle sue tante donne, rivela, infatti, il romanzo che sogna di scrivere. E’ questa condivisione che apre all’amore, quella dei propri sentimenti e pensieri più nascosti, come dice a un certo punto Hassan, ma soprattutto della scrittura, della passione che dà un senso a tutto, e dalla quale fioriscono le relazioni umane più autentiche – non solo quelle amorose, ma anche l’amicizia.
Ecco il terzo filo che lega assieme queste pagine: la corrispondenza con la vecchia amica Alia. Un confronto e un conforto incessanti su ciò che sta più a cuore a entrambi, che muove le loro vite, che le rende degne di essere vissute, che li tortura nel senso di inadeguatezza ma che non possono che celebrare come il centro sacro della loro esistenza senza senso: la scrittura. Alia è una vecchia scrittrice e traduttrice che ha dedicato la sua vita alla letteratura. Le sue lettere sono spesso lacerate dalle classiche turbe degli scrittori, dalla scrittura come bisogno alla scrittura come condanna perché non ci si sente alla sua altezza (“disperazione causata del fatto che ciò che scriviamo, più che un urlo nel vuoto, sembra un peto nel vuoto”), all’assillo della mancanza di tempo per tutto quello che si vorrebbe leggere e scrivere. Ma Alia è anche lo sprone costante che fa sì che lo scrittore continui a scrivere e a credere nel suo sogno: “E allora scriviamo, mio caro, sulla scia di Henry Miller che afferma: “Dovevo imparare, e feci presto, che bisogna rinunciare a tutto e non far altro che scrivere, che bisogna scrivere e scrivere e scrivere””. Oltre a Miller, si citano Cioran, Calvino, Bulgakov: in un mondo di macerie, tragedie e scene disgustose, Blasim innalza un altare alla letteratura con voce delicata e ispirata. “Posso affermare che la scrittura mi ha salvato la vita”.
L’opera sembra caotica ed è l’autore stesso ad ammetterlo: “il ritmo del blog Allah poteva essere simile a quello della storia sconclusionata di mio zio”, zio BBC, quel personaggio che captava alla radio le notizie trasmesse dalla BBC da frequenze radiofoniche disturbate durante l’epoca ba’athista e riferiva quel poco che riusciva a capire nei caffè in maniera fantasiosa e distorta. “Storie senza capo né coda”, così Blasim definisce i racconti dei suoi intervistati che ha messo insieme. Senza capo né coda sono, tra l’altro, le storie che la realtà stessa propone, affogando “in un diluvio di news, foto e reportage”. E’ difficile inserire “Allah 99” in un genere letterario: lo si potrebbe considerare una raccolta di racconti, ma non si tratta semplicemente di questo. In alcuni tratti diaristico, in altri romanzo epistolare, nella parte finale assume anche le connotazioni di un memoir. Quando i tre livelli si sovrappongono a sorpresa, tuttavia – e in una delle storie raccontate viene coinvolta l’amica di penna e l’autore cade nella centrifuga narrativa da lui stesso creata – ecco che l’opera appare come un romanzo. Un romanzo ad anello, addirittura: quando lo si conclude si ha voglia di ricominciarlo da capo, tenendo tra le mani quel filo narrativo di cui si è finalmente quasi padroni e che ci aiuterebbe ad apprezzare l’incipit sotto una luce diversa. Non è d’altronde necessario attribuire un’etichetta a un’opera letteraria, non serve al lettore né all’autore, che con una certa maestria e qualche piccola incertezza confeziona un testo che colpisce per la sua estrema modernità. Per alcuni aspetti, la struttura sconclusionata di “Allah 99” ricorda, quando si cerca di classificarla, quello che il gruppo degli italiani Wu Ming chiamò “UNO”, “Unidentified Narrative Objects”: oggetti narrativi catalogati spesso come romanzi in libreria, ma in cui di fatto si mescolano commistioni di esperimenti linguistici e stilistici, intrecci di saggi, di poesie, di racconti brevi e altre eventuali deformazioni letterarie.
Questo romanzo stravolge per la sua spietata sincerità. Talvolta la materia è talmente scottante che l’autore fatica a manipolarla e cade anche lui in qualche appesantimento retorico e in alcuni giudizi di valore che risultano di troppo nella buona letteratura: le parole guerra, razzismo, dolore, di solito non sono necessarie e talvolta Blasim, invece, finisce per abusarne. Si possono leggere anche alcuni slanci troppo romantici e poco moderni rispetto al resto, come “Questo mondo inutile è un forno che mi arrostisce l’anima”. In questi momenti, il dettato sembra ancora non del tutto maturo.
Senza dubbio, in “Allah 99” Hassan Blasim è magistralmente “blasfemo ed eretico”, come la sua amica Alia definisce il suo amato Cioran. A volte è eccessivo e disturbante, ma è proprio questa esuberanza che si manifesta anche nella sua immaginazione e nella sua intelligente ironia a fare di “Allah 99” un’opera unica e brillante. Questo libro è una vera celebrazione della parola. La sua recensione più bella la fa probabilmente l’autore stesso, nella voce di Alia: “Tu vieni accusato, ingiustamente, di essere un maestro nel fare affiorare la bruttezza e nello scavare sempre più a fondo. Nulla di più sbagliato! In letteratura, infatti, o meglio, in tutti i campi della vita, gli ossimori sono indispensabili, e noi non potremmo comprendere e goderci la bellezza se non conoscessimo il suo contrario. E persino la bruttezza, in te, Hassan, è diversa, trasuda umanità”.
Doveroso è un plauso alla giovane casa editrice che ha scelto di tradurre dall’arabo in Italia un autore sconosciuto quanto valido: nata solo nel gennaio del 2020, Utopia Editore offre tra i suoi autori in catalogo nomi del calibro di Anne Carson e Grazia Deledda, in edizioni curate e di qualità. Ai giovani editori va sicuramente reso merito per il coraggio della scelta di portare nelle librerie italiane anche Hassan Blasim con un titolo come “Allah 99”, rendendo accessibile una punta di diamante per modernità e originalità della letteratura araba di oggi.