di Valeria Cagnazzo* –

Pagine Esteri, 29 settembre 2021 – Come si racconta un Paese fatto a pezzi? Come si descrive una società sulla quale il bisturi maldestro dell’occupazione americana si è accanito al punto da aprire ferite profondissime tra sette religiose e fazioni politiche, con la ferocia di cui sarebbero capaci solo quattro energumeni di un Ministero segreto sul corpo di un vecchio inerme? Ahmed Saadawi lo fa con un affresco stravolgente e il suo Iraq assume le sembianze spaventose di Frankenstein.

“Frankenstein a Baghdad” è un romanzo dalle tinte magiche e macabre e al tempo stesso fedelissimo alla storia recente dell’Iraq, ed è meritatamente valso al suo autore, Ahmed Saadawi, l’International Prize for Arabic Fiction nel 2014 e il Grand Prix de l’Imaginaire nel 2017. Pubblicato nel 2013 ed edito in Italia nel 2015 per E/O, è la storia di un personaggio orribile che inizia a macchiarsi di una misteriosa serie di omicidi e a seminare il terrore in una Baghdad occupata dalle truppe della coalizione americana, tra il 2005 e il 2006.

L’occupazione in Iraq ha determinato il “caos”: è questa la parola più utilizzata per indicare lo stato delle cose dopo il 2003. “Con l’assenza del regime e il propagarsi del caos”, scrive Saadawi, “le celle di tutti i demoni si erano spalancate in un colpo”. Si era assistito, ad esempio, all’ascesa delle “mafie”, come quella rappresentata dal personaggio di Faraj il sensale, e al dilagare di furti: all’arrivo delle truppe straniere nel Paese, qualsiasi edificio si era trovato alla mercé di ruberie che avvenivano alla luce del sole, e che potevano riguardare gioielli di famiglia o lavastoviglie nelle case di privati o reperti archeologici e volumi di inestimabile valore nel Museo nazionale o nelle biblioteche universitarie. Il personaggio di Hadi il rigattiere rappresenta indubbiamente questo nuovo sottobosco della società irachena costituita da piccoli criminali costretti a vivere di espedienti. L’entropia generalizzata in Iraq consiste, inoltre, nella costante vulnerabilità di qualsiasi oggetto animato o inanimato di restare coinvolto in un’esplosione e di frammentarsi in una moltitudine di pezzi non più ricomponibili né riconoscibili.

E’ questo un tema ricorrente del romanzo: lo smembrarsi, il dissolversi, il frantumarsi dei corpi e delle cose. L’Iraq è un Paese “le cui carni si erano mescolate”: degli esseri umani restano solo pezzi sparpagliati e anonimi e forse qualche oggetto a loro caro a sua volta fatto a pezzi, oppure il nulla assoluto. “Hazib Muhammad Ja’far era sparito completamente”, si legge per esempio. Quasi mai di chi muore esiste un cadavere. E di conseguenza, quasi mai le famiglie hanno corpi su cui piangere e sui quali quindi elaborare i propri lutti e ricostruire qualcosa che assomigli a una “memoria”. Come accade a Umm Daniel, la cui mente viene progressivamente imbiancata dalla demenza senile mentre la sua vita si consuma nell’attesa di toccare di nuovo il corpo del figlio scomparso. L’Iraq si spezzetta e la sua memoria svanisce. Il suo eroe non può che essere fatto di pezzi.

La storia inventata da Saadawi è, però, tutt’altro che un racconto lacrimoso sulla guerra. Con una fantasia brillante e tinte spesso comiche, il confine con il surreale è sfondato. Il  Frankenstein creato da Saadawi è plasmato da Hadi il rigattiere, un ubriacone ignorante, non da uno scienziato, e prende vita grazie a un’anziana madre disperata, che per svegliarlo pronuncia la singolare formula “Alzati, Daniè. Vieni qua, figlio mio”. La magia, in questo micro/macrocosmo, è l’unico elemento per tentare di comprendere il reale, e i personaggi se ne servono con maestria più o meno consapevole. Persino l’Autorità provvisoria della coalizione americana al governo (Apc), del resto, per prevenire gli attentati e controllare il caos che domina il Paese si avvale del Dipartimento di Monitoraggio e Revisione, un organo segreto in cui lavorano occultisti, astrologi e negromanti, coadiuvati da spiriti e jinn (spiriti nati dal fuoco secondo il Corano).

Se è vero che a volte Saadawi sembra impacciato nel maneggiare il personaggio da lui stesso ideato, tanto da interrompere alcune scene con fughe inspiegabili e dargli poi una voce impostata e articolata difficilmente credibile, il suo mostro fantastico diventa un affascinante emblema di tormenti e contraddizioni in un romanzo in cui tutto è simbolo.

Il Frankenstein iracheno inizialmente cattura le nostre simpatie: uccide per vendicare le vittime della guerra, è l’unico garante della giustizia in un Paese allo sbando nelle mani dell’Apc e di un governo corrotto. Lo seguiamo con ammirazione come un paladino nato dalle viscere del popolo iracheno. “Io sono l’unica giustizia in questo Paese” in “un mondo ingrato e incapace di comprendere”, dice, per giustificare la sua missione di ammazzare “tutti i criminali che gli hanno fatto un torto”, o, meglio, che l’hanno fatto a una delle parti umane di cui è costituito. Quando la trama sembra ormai definitivamente virata verso una fiaba in cui si scontrano il bene e il male, e in cui i buoni sono solitamente brutti e accompagnati da un olezzo insopportabile, e i loro antagonisti sono uomini senza volto armati fino ai denti o eleganti voltafaccia dalle guance rigorosamente rasate, ecco che Saadawi ci fa abilmente dubitare della buona fede dei nostri eroi. Ci si ritrova a parteggiare per personaggi che rivelano anch’essi un animo feroce ed egoista. E Frankenstein, inizialmente votato a un breve ciclo di vendette, scopre in sé la più umana delle paure: non vuole più morire. Questo lo rende fallibile, imperfetto, e come tutti predisposto alla crudeltà e al crimine.

Intorno a lui si riuniscono vari seguaci, ma ciascuno di loro crea una propria setta. In poco tempo Frankenstein perde il controllo sui propri collaboratori: chi doveva seguirlo nella missione di rendere giustizia alle vittime della violenza in Iraq si abbandona a sua volta a nuove barbarie e ad altro odio, non solo verso gli occupanti e i carnefici ma anche verso i propri simili. Dal desiderio di vendetta e dalla resistenza anti-americana si organizzano sette religiose o laiche, più o meno armate, più o meno accecate dalla fede nella propria missione, tutte velocissime a spaccarsi tra loro e a farsi la guerra. Saadawi sceglie personaggi fantastici, come il Grande Matto e il Piccolo Matto, ma la vicenda rimanda efficacemente alla storia recente irachena, fino al dilagare di Daesh. Chi resta al mostro? Una vecchina indementita e un vecchio ubriacone ormai troppo provato da una storia diventata più grande di lui.

Intrecciata alla trama principale c’è la storia di un giovane giornalista ambizioso ma idealista, perseguitato da qualche fantasma del passato e troppo ingenuo per muoversi, senza restarvi incastrato, nel complicato labirinto della corruzione che in Iraq ha travolto anche il suo settore. Un peccato, perché una storia non esiste se non viene raccontata. Che si tratti della storia di un Paese sotto occupazione, di quella dei suoi morti innocenti e dei loro corpi che svaniscono con le esplosioni e non possono essere pianti, o della storia di Frankenstein a Baghdad. Quello del mostro è un enigma irrisolto che si potrà affrontare solo quando la gente inizierà a crederci, ovvero quando qualcuno glielo racconterà efficacemente. Si assiste così a una sorta di passaggio di consegne, dal giornalismo, che ha fallito nel suo intento di raccontare una tragedia e di interessare l’opinione pubblica al caos che domina l’Iraq, all’Autore, incaricato di trasportare la storia del Paese sul piano della fantasia. E’ questo il merito principale di Ahmed Saadawi e che rende “Frankenstein a Baghdad” un’opera degna di diventare un classico della letteratura araba contemporanea. Abbandonando tecniche cronachistiche o narrazioni autocommiserative, l’Autore (lo scrive con la A maiuscola) sceglie la fantascienza, la reinterpretazione onirica, simbolica, che qualcuno ha definito addirittura “realismo magico”: è mescolando le esplosioni quotidiane, le autobomba in agguato ad ogni angolo, i soldati americani che bloccano le strade gesticolando con un mitra e la corruzione nelle alte sfere del potere, tutti elementi reali, a parti di cadaveri smembrati che si riassemblano e riprendono vita, a morti immortali e a dipinti di bellissimi San Giorgio capaci di parlare mentre sono lì sospesi nell’atto di sconfiggere il drago, che Saadawi fa della storia dell’occupazione militare in Iraq una vicenda unica in grado di sbalordire e rimanere impressa. Una storia che non si dimentica, e che per questo esiste: non è questa la chiave della letteratura? Chi è dunque il vero giustiziere del libro? Un romanzo da leggere assolutamente, in grado di mettere in piedi mostri pur di raccontare un Paese fatto a pezzi. Pagine Esteri

*Valeria Cagnazzo (Galatina, 1993) è medico in formazione specialistica in Pediatria a Bologna. Come medico volontario è stata in Grecia, Libano ed Etiopia.  Ha scritto di Palestina su agenzie online, tra cui Nena News Agency. Sue poesie sono comparse nella plaquette “Quando un letto si svuota in questa stanza” per il progetto “Le parole necessarie”, nella rivista “Poesia” (Crocetti editore) e su alcune riviste online. Ha collaborato con il Centro di Poesia Contemporanea di Bologna. Per la sezione inediti, nel 2018 ha vinto il premio di poesia “Elena Violani Landi” dell’Università di Bologna e il premio “Le stanze del Tempo” della Fondazione Claudi, mediante il quale nel 2019 ha pubblicato la sua prima silloge poetica, “Inondazioni” (Capire Editore). Nel 2020, il libro è stato selezionato nella triade finalista del premio “Pordenone legge – I poeti di vent’anni”.