di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 18 gennaio 2022 – Nei giorni scorsi il governo cubano è tornato, per l’ennesima volta, a chiedere la chiusura della prigione di Guantánamo, aperta esattamente vent’anni fa dagli Stati Uniti all’inizio della “guerra globale al terrore” scatenata dopo gli attacchi alle Twin Towers. «La base navale degli Stati Uniti a Guantánamo custodisce una storia di 20 anni di disgrazie. 780 persone vi sono state detenute arbitrariamente, senza processo o comunque senza giusto processo, compresi molti minorenni. Molti di loro sono stati vittime di torture e trattamenti degradanti che violano i diritti umani. Si ponga fine a quell’atroce prigione» ha scritto su Twitter il ministro degli Esteri della Repubblica di Cuba, Bruno Rodríguez.
Una base abusiva
«Vent’anni di scandalosi abusi in territorio cubano occupato illegalmente» ha insistito il presidente Miguel Díaz-Canel Bermúdez, in riferimento al fatto che il suo paese ha chiesto innumerevoli volte a Washington di abbandonare le installazioni militari ottenute dal governo dell’ex colonia spagnola che gli Stati Uniti avevano aiutato a liberarsi dal giogo di Madrid, ovviamente per imporre un loro protettorato. Se la perdita degli ultimi grandi possedimenti coloniali (Cuba, ma anche Portorico e le Filippine) condannò l’ex impero spagnolo al declino, la vittoria nella guerra ispano-americana del 1898 lanciò gli Stati Uniti alla conquista di un ruolo egemone non solo in quello che diventerà il proprio “cortile di casa” ma anche nel resto del pianeta. La grande base navale concessa nel 1903 dal presidente cubano Tomàs Estrada Palma – leader di un paese a sovranità limitata – in “affitto perpetuo” a Washington nell’estremo oriente dell’isola caraibica fu uno dei primi importanti avamposti dai quali la nuova potenza irradiò la propria espansione imperiale.
È all’interno di questa enclave di 121 chilometri quadrati abusivamente occupata che l’11 gennaio 2002 George W. Bush e il suo governo aprirono il campo di prigionia dedicato ai presunti terroristi islamici catturati in tutto il mondo, in particolare in Afghanistan – attaccato il 7 ottobre del 2001 – e in Pakistan.
Gli Usa hanno abbandonato l’Afghanistan, ma la prigione “speciale” di Guantánamo è ancora lì e i reiterati e trasversali appelli alla sua chiusura sono rimasti finora disattesi.
Venti anni di scandalosi abusi
Negli ultimi due decenni il campo ha ospitato centinaia di persone catturate o rapite – attraverso le cosiddette “extraordinary renditions” – dai militari e dai membri delle varie agenzie per la sicurezza di Washington, sottratti così alla protezione offerta dalle convenzioni di Ginevra e alle garanzie accordate dalle stesse leggi federali statunitensi ai prigionieri di guerra. I “combattenti nemici illegali” rinchiusi nei container montati alla meglio nell’originale “Camp X Ray” (poi diversificato e ampliato) e sottoposti ad ogni genere di tortura fisica e psicologica, sono così precipitati in un incredibile limbo giuridico utilizzato per estorcere ai veri o presunti membri di Al Qaeda informazioni utili alla distruzione della rete terroristica di Osama Bin Laden. La stessa con la quale Washington aveva, in precedenza, a lungo flirtato.
Nonostante il riservo sull’arrivo delle prime decine di prigionieri nelle celle di Guantánamo, già nel 2002 sui media di tutto il mondo rimbalzarono le prime foto dei detenuti – in tuta arancione, inginocchiati, incatenati e bendati o incappucciati – chiarendo a cosa servissero le nuove installazioni create in tutta fretta nella base di Guantánamo: sevizie gratuite, prigionieri spariti, abusi sessuali e psicologici, assenza assoluta di garanzie per i prigionieri detenuti senza processo, senza la possibilità di difendersi e sottoposti ai cosiddetti “interrogatori rafforzati”, come uno stuolo di avvocati e giuristi assoldati dalla Casa Bianca aveva eufemisticamente ribattezzato le sedute di tortura. Negli anni emergeranno maggiori particolari sulle “tecniche di interrogatorio” impiegate: persone private per settimane del sonno, appese ai polsi, rinchiuse in celle di meno di un metro quadrato, sottoposte a temperature estreme, sottoposte ad alimentazione forzata, vessate in ogni modo.
Mentre da più parti si levavano veementi proteste per il trattamento inumano e degradante riservato ai detenuti, da Guantánamo filtravano le prime notizie sui prigionieri morti o impazziti. Nel 2011, poi l’organizzazione WikiLeaks, guidata dal giornalista Julian Assange, pubblicò oltre 700 mila file classificati sottratti alle autorità militari statunitensi, che dimostravano che fino a quel momento nel buco nero di Guantánamo erano finiti almeno 150 innocenti.
Alle denunce e alle condanne provenienti da vari paesi, dalle istituzioni internazionali e dalle organizzazioni per i diritti umani, le amministrazioni statunitensi hanno sempre risposto che solo grazie al limbo giuridico imposto in quel remoto angolo di Cuba era possibile ottenere le informazioni necessarie a disarticolare “la rete del terrore”.
Ma che il waterboarding, la deprivazione sensoriale e le altre forme di scientifica tortura applicate ai prigionieri sotto la supervisione di psicologi e giuristi abbiano consentito alla CIA di entrare in possesso di informazioni in grado di sventare nuovi attacchi o di individuare i capofila delle cellule terroristiche è assai dubbio. Per sfuggire alle violenze, è noto, i detenuti confessano ciò che gli aguzzini suggeriscono loro.
E così le commissioni militari incaricate di processare i sospetti terroristi rinchiusi a Guantánamo hanno emesso, in venti anni, appena otto condanne. Su 780 persone rapite e condotte nel campo, più di 700 sono state liberate. Molte erano completamente estranee alle accuse, altri avevano ruoli davvero marginali o comunque di secondo piano nelle organizzazioni fondamentaliste. La stragrande maggioranza di loro non è mai stato formalmente accusato di nessun crimine (solo il 5% del totale lo è stato) e tantomeno processato dopo aver scontato anni di carcere duro a Guantánamo proveniente, spesso, dai cosiddetti “black sites”, le carceri segrete aperte dagli USA in vari paesi del mondo come quelle famigerate di Bagram (a nord di Kabul) o Abu Ghraib (in Iraq).
La maggioranza dei sopravvissuti a Guantánamo è riuscita a tornare nel proprio paese d’origine, ma nel 20% circa dei casi si è dovuto accontentare di paesi ospitanti come l’Arabia Saudita, l’Albania, la Gran Bretagna, gli Emirati Arabi Uniti o la Slovacchia. Molti di loro, in particolare quelli insediati in paesi terzi, rimangono prigionieri di un limbo legale, assai lontani dal poter tornare a una vita normale.
Promesse mancate
Lungi dal rivelarsi indispensabile per la cosiddetta lotta al terrorismo, il lager di Guantánamo divenne un problema per gli stessi Bush, Cheney e Rumsfeld che l’avevano inventato. Il 16 febbraio del 2006 cinque esperti della Commissione per i diritti umani dell’ONU chiesero agli Stati Uniti di chiudere immediatamente il campo di prigionia. «I tentativi dell’amministrazione statunitense di ridefinire la ‘tortura’, come parte della lotta contro il terrorismo, al fine di consentire alcune tecniche di interrogatorio che altrimenti sarebbero vietate sotto la definizione internazionale di tortura sono estremamente preoccupanti» avvisarono, inascoltati.
«Sebbene avessi ritenuto necessario aprire Guantánamo dopo l’11 settembre, la struttura di detenzione è diventata uno strumento di propaganda per i nostri nemici e una distrazione per i nostri alleati. Ho lavorato per trovare un modo per chiudere la prigione senza compromettere la sicurezza» scrisse George W. Bush nelle sue memorie.
Il campo di detenzione, però, è rimasto al suo posto. Dando seguito alle sue promesse in campagna elettorale, appena entrato in possesso del suo incarico nel 2009 Barack Obama firmò l’ordine esecutivo n° 13492 che annunciava la chiusura della struttura detentiva entro 12 mesi. Camp Delta continuò a funzionare, anche se cessò l’afflusso di presunti terroristi rapiti in giro per il pianeta. Nel 2011 il presidente democratico istituì un’apposita commissione – la “Guantánamo Review Commission” – per esaminare i dossier dei detenuti, il cui numero è sceso negli anni a poche decine.
Dopo la sua vittoria, l’ultrà repubblicano Donald Trump ha emesso un ordine esecutivo per tenere aperta la prigione di Guantánamo.
All’inizio del 2021, Joe Biden ha di nuovo promesso e annunciato la chiusura, ma a distanza di un anno la prigione è ancora aperta e continua ad ospitare, mentre scriviamo, circa 40 detenuti. Di questi, dieci sono stati incriminati e sono in attesa di processo, due sono stati condannati per terrorismo e stanno scontando la loro pena nella base. Altri 27 non sono mai stati accusati di alcun crimine e dovrebbero essere liberati. Quando? L’ultimo rimpatriato, nel luglio 2021, è stato un marocchino che doveva essere rilasciato già nel 2016.
La sezione destinata ai “combattenti nemici illegali” costa a Washington circa 550 milioni di dollari l’anno, circa 14 milioni a prigioniero. Nonostante le reiterate promesse di chiusura, però, Biden ne ha approvato l’ampliamento, includendo la realizzazione di un’aula di tribunale aggiuntiva che, secondo i documenti venuti in possesso del New York Times, escluderebbe la presenza del pubblico durante le udienze.
Il risarcimento impossibile
Tre anni fa il governo lituano è stato condannato a pagare, da una sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani, circa 100 mila euro ad Abu Zubaydah, uno dei più “longevi” prigionieri di Guantánamo, rapito nel 2002 e rinchiuso dalla CIA in un sito segreto alla periferia di Vilnius prima di essere trasferito in un altro “black site” in Thailandia e infine a Cuba dove è tuttora detenuto. Il cittadino pakistano è stato sottoposto decine di volte all’annegamento controllato e rinchiuso in una scatola delle dimensioni di una bara per giorni e giorni perché sospettato di essere uno dei leader di Al Qaeda, finché non emerse che non aveva alcun legame né con gli attacchi dell’11 settembre né con la rete di Bin Laden. «Scusi, ci siamo sbagliati»…
Il risarcimento di Zubaydah è un caso isolato. E comunque, se e quando la prigione “speciale” verrà chiusa – ammesso che non venga riaperta da un’altra parte, curando maggiormente la segretezza dell’operazione – rimarrà comunque il problema, non proprio secondario, delle responsabilità di chi l’obbrobrio politico e giuridico di Guantánamo lo ha ideato, gestito o comunque tollerato per 20 lunghissimi anni. Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e del Nord Africa. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria. Scrive tra le altre cose di Spagna e movimenti di liberazione nazionale.
FONTI E LINK DI APPROFONDIMENTO
https://www.amnesty.org/en/documents/amr51/3474/2021/en/
https://www.aljazeera.com/news/2022/1/10/timeline-20-years-of-guantanamo-bay-prison
https://www.limesonline.com/cartaceo/guantanamo-chiave-dei-caraibi