di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 28 gennaio 2022 – Aspettando una transizione ecologica che viaggia a ritmi decisamente troppo lenti, una nuova catastrofe ecologica colpisce questa volta le coste del Perù. Dal 15 gennaio migliaia di barili di petrolio si sono riversati in mare durante il trasferimento del greggio da una petroliera (di proprietà dell’italiana Fratelli d’Amico Armatori S.p.A) alla raffineria della multinazionale spagnola Repsol che sorge in località La Pampilla, a nord della capitale Lima. Il “chapapote” (catrame, in castigliano) ha sommerso un vasto tratto di mare e almeno una ventina di spiagge, soffocando migliaia di pesci e uccelli e contaminando due aree protette: la Riserva Nazionale del sistema delle isole del Gruppo dei Pescatori e la Zona Protetta di Ancón.
Secondo alcune rilevazioni, il vento e le correnti hanno spinto i residui di petrolio molto a nord, fino a 1100 km di distanza dal luogo della catastrofe. Ingenti i danni ambientali quindi, ma anche quelli economici diretti, causati dal blocco delle attività turistiche e di pesca. Anche se i responsabili della raffineria assicurano che entro febbraio la costa sarà ripulita, secondo alcuni esperti ambientali ci vorranno almeno due anni per ripulire il tratto gravemente contaminato.
Repsol: negligenze e omissioni
Inizialmente la Repsol ha minimizzato l’entità dell’incidente, affermando che a disperdersi in mare era stata una quantità molto piccola di petrolio. Poi, quando la chiazza di greggio ha cominciato ad allargarsi coprendo una superficie di alcuni chilometri quadrati, la multinazionale ha dato la colpa allo tsunami originatosi nel Pacifico dopo la forte eruzione vulcanica che ha scosso l’isola di Tonga, lontana circa 10 mila km. L’impresa diretta da Antonio Brufau ha affermato più volte di ritenere il disastro ambientale – il più grave in Perù negli ultimi decenni – un fatto imprevedibile. «Non possiamo stabilire chi sia responsabile di questo sfortunato incidente» ha detto la portavoce della Repsol nel paese, Tine Van Den Wall Bake Rodríguez.
Dalle prime indagini, però, è emerso che l’azienda ha tardato molte ore prima di dare l’allarme ritardando così l’adozione delle contromisure necessarie a impedire l’espandersi dalla marea nera, come il dispiegamento delle macchine per il filtraggio dell’acqua, dei serbatoi galleggianti e delle barriere di contenzione.
La notte di martedì 25 gennaio, intanto, la capitaneria di porto ha comunicato un nuovo sversamento di greggio dalla raffineria di La Pampilla. Stavolta i responsabili di Repsol hanno smentito il nuovo incidente, affermando che a loro non risultava.
Com’è accaduto in passato in altri contesti le multinazionali – che pure incassano profitti stratosferici e spendono ingenti risorse nelle attività di greenwashing – investono molto poco sulla sicurezza e si sottraggono quasi totalmente al momento di rimediare a disastri spesso evitabili o comunque facilmente circoscrivibili. La Repsol non ha fatto eccezione: quando il disastro era ormai evidente è stato reso noto che la compagnia non dispone né di squadre di operai specializzati né di equipaggiamenti sufficienti a recuperare il petrolio sversato, e si è affidata ad imprese esterne che hanno reclutato abitanti del luogo privi di esperienza, mezzi e addestramento.
Lima punta il dito contro la multinazionale
Gli esperti della Marina peruviana, chiamati in causa dall’esecutivo, hanno affermato di non ritenere credibile che lo sversamento di una tale quantità di petrolio – circa seimila barili – sia stato causato dalle onde generate dall’eruzione del vulcano sottomarino nell’arcipelago situato in Oceania. Dello stesso avviso anche i membri del “Organismo Supervisor de la Inversión en Energía y Minería” (Osinergmin) che nel rapporto consegnato al parlamento di Lima attribuiscono l’ingente perdita di combustibile ad alcuni errori commessi durante il trasferimento dalla petroliera “Mare Doricum” alla raffineria.
Nei giorni scorsi le autorità hanno ordinato il sequestro della petroliera. Il Comitato di Crisi istituito dal governo ha infatti deciso di impedire la partenza dell’imbarcazione fino a quando la proprietà non pagherà una cauzione di 150 milioni di soles (34 milioni di euro). Il capitano della Mare Doricum, l’italiano Giacomo Pisani, però, accusa esplicitamente l’impresa spagnola di cercare di scaricare sul suo equipaggio la responsabilità del disastro ecologico. Il pm Ariel Tapia Gómez ha comunque chiesto – e ottenuto – alle autorità di emettere un divieto di espatrio per i prossimi 18 mesi nei confronti dei vertici peruviani della compagnia spagnola. Due di questi, Gianna Macchiavello Casabone de Zamorano e Orlando Carbo Conte, si sono intanto dimessi dai loro incarichi. Al contempo Julio Guzmán, della “Procura per i reati ambientali” di Lima, ha aperto un’inchiesta contro quattro alti funzionari della Refinería La Pampilla, tra i quali figura il direttore esecutivo Jiame Fernández-Cuesta. Il reato ipotizzato è quello di “inquinamento”, punibile con una condanna da quattro a sei anni di carcere. In un’intervista Guzmán ha anticipato che potrebbe imputare agli indagati anche l’aggravante di aver occultato o falsificato informazioni importanti.
Come detto, molti pescatori e abitanti del luogo sono stati coinvolti nelle operazioni di pulizia del litorale; ma gli organismi di controllo sulla sicurezza sul lavoro denunciano il mancato rispetto delle regole sanitarie prescritte in questi casi e che gli incaricati sono stati dotati di un equipaggiamento insufficiente. Molti degli operatori – affiancati da centinaia di volontari accorsi dai territori circostanti – lavorano senza guanti e senza mascherine, esponendosi quindi alle conseguenze (amplificate dalle alte temperature del periodo) delle sostanze tossiche contenute nel catrame che raccolgono dagli scogli e dalle spiagge con pale, scope, secchi e spugne.
Il governo promette sanzioni esemplari
Il presidente della Repubblica peruviana, Pedro Castillo, ha dichiarato l’emergenza ambientale per 90 giorni e ha intimato alla multinazionale di farsi carico dei gravissimi danni causati.
Anche la presidente del Consiglio dei Ministri, Mirtha Vasquez, denunciando la negligenza dell’impresa spagnola, ha annunciato l’intenzione di imporre quella che ha definito una “sanzione esemplare” per la catastrofe ecologica causata. «Stiamo valutando tutte le azioni legali che possiamo mettere in atto» ha informato la premier, aggiungendo che il suo esecutivo «non esclude nessuna misura». «Abbiamo avuto una serie di disastri ambientali e non c’è mai stata una sanzione esemplare, e questo ha a che fare con le leggi che abbiamo, è stata creata una legislazione favorevole alle aziende» ha spiegato la leader del governo progressista di Lima. Alcuni parlamentari di Perù Libre, il partito socialista di cui è membro anche Castillo, chiedono esplicitamente la cancellazione immediata degli accordi con la multinazionale il cui comportamento ha suscitato nel paese un’intensa ondata di proteste.
Domenica scorsa decine di mobilitazioni si sono tenute in tutto il Perù. La più significativa ha avuto luogo davanti all’ingresso della raffineria al grido di “Multinazionale ecocida, nemica della vita. Gridiamo per il nostro mare contro l’industria assassina”. Il giorno precedente centinaia di pescatori hanno sfilato in corteo chiedendo alle autorità di imporre immediate sanzioni alla Repsol e di esigere che l’impresa destini dei tempestivi indennizzi alle migliaia di famiglie del distretto di Ventanilla che sopravvivono grazie alla pesca.
Le responsabilità di Madrid
In un comunicato, il coordinamento delle Ong spagnole attive in Perù ha chiesto al governo di Madrid di applicare finalmente le norme contenute nel “Piano di Azione Nazionale delle Imprese sui Diritti Umani” firmato nel 2017, e di riconoscere la responsabilità extraterritoriale dello stato sull’impatto negativo che le proprie imprese generano all’estero. Da anni, inoltre, Ong e organizzazioni sociali spingono per l’approvazione, da parte dell’Onu e dell’Unione Europea, di un trattato giuridicamente vincolante sulla responsabilità delle multinazionali in materia di diritti umani. Se da un lato le autorità spagnole sostengono su vari fronti – economico e diplomatico in primo luogo – le attività e l’espansione di aziende come Repsol, dall’altro evitano accuratamente di assumersi le proprie responsabilità in caso di danni.
Da alcuni documenti pubblicati dal quotidiano spagnolo Publico, emerge che nel 2016 e nel 2017 lo Stato Spagnolo ha sostenuto il progetto di ristrutturazione della raffineria di La Pampilla della Repsol, tramite la Società spagnola di assicurazione del credito all’esportazione (Cesce), collegata al Ministero del Commercio e di cui lo Stato ha una quota di maggioranza. Il sovrano spagnolo Felipe VI, nel 2018, presenziò addirittura all’inaugurazione del nuovo impianto realizzato nella località peruviana.
Una lunga scia di crimini ambientali
In America Latina Repsol ha lasciato, negli ultimi decenni, una scia di catastrofi naturali e sociali. Nel 2006, nel 2008 e nel 2010, alcune organizzazioni ecologiste, indigene e popolari di differenti paesi sono riuscite a portare l’impresa spagnola davanti al Tribunale Permanente dei Popoli, accusandola di connivenze con i paramilitari di estrema destra e con gli omicidi di attivisti ecologisti, indigeni e sociali in Colombia; di contaminare i territori Mapuche dell’Argentina; di insidiare alcune riserve indigene in Bolivia ed in Ecuador; di estendere illegalmente le ricerche del gas in quattro aree protette del Perù. La strategia della multinazionale ha danneggiato aree del subcontinente caratterizzato da una forte biodiversità ed ha causato danni irreparabili a molte popolazioni indigene, alcune delle quali sono state costrette ad abbandonare i propri territori.
L’ira suscitata in Perù dalla negligenza e dalle omissioni della Repsol nell’ultimo disastro ambientale e la presenza nel paese di un governo progressista, insieme alle pressioni delle organizzazioni sociali e ambientali, potrebbero questa volta produrre conseguenze rilevanti per l’operato della multinazionale. Ma gli interessi economici e politici in gioco, le pressioni del governo spagnolo e le complicità di cui gode nel paese – da giorni alcuni tra i quotidiani peruviani più diffusi parlano genericamente di una “impresa spagnola” senza mai citarla – potrebbero portare ad un’ennesima assoluzione. Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e del Nord Africa. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria. Scrive tra le altre cose di Spagna e movimenti di liberazione nazionale.
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