di Francesca Marretta a Nouackchott
Pagine Esteri, 16 marzo 2022 (le foto sono di Mohammed Diop) – Morti, feriti o scomparsi senza un perché, cercando di sbarcare il lunario giusto al di là della frontiera in un paese amico. Sarebbero secondo diverse fonti una trentina i cittadini mauritani desaparecidos in territorio maliano, forse quindici i morti e due, almeno questo un dato certo, i feriti. Inoffensivi pastori alla ricerca di pascolo per le masserizie e piccoli commercianti, secondo testimonianze e resoconti di stampa locale. Presunte vittime di quello che il Ministero degli Affari Esteri di Nouackchott ha definito in un comunicato lo scorso otto marzo « atti criminali ricorrenti perpetrati dalla forze armate regolari maliane » contro mauritani «innocenti e senza difesa».
Parole dure e a giusta ragione. E’ la terza volta da gennaio di quest’anno che « incidenti » del genere si ripetono in territorio maliano. I posti di frontiera tra Mauritania e Mali sono una ventina su 2000 chilometri circa, il cosiddetto confine poroso. Almeno un deputato mauritano punta il dito apertamente contro i militari di Bamako per l’accaduto.
Altre denunce giungono da Ong locali e familiari di coloro che la stampa locale definisce « vittime dei recenti incidenti » che l’8 e il 9 marzo scorso hanno manifestato davanti al Ministero degli Interni di Nouakchott, chiedendo giustizia e verità per la « carneficina » e le sparizioni. Proteste che hanno trovato risposta il 12 marzo con l’annuncio della formazione di una commissione d’inchiesta congiunta tra Nouakchott e Bamako, iniziativa seguita a una settimana di intensa attività diplomatica ai più alti livelli.
Il governo di fatto del Mali si é impegnato a far luce su « atti criminali destinati a recare danno all’eccellente qualità delle relazioni dei nostri due paesi », con la precisazione che nella fase attuale non esiste « alcuna prova che metta in causa la condotta dell’esercito maliano che agisce nel rispetto dei diritti umani e in maniera professionale ». Il 13 marzo una delegazione composta da alti esponenti governativi mauritani, tra cui i Ministri dell’Interno e della Difesa si é recata nel villaggio di Serdouba, luogo da cui proviene il maggior numero dei presunti uccisi e scomparsi, per far visita alle famiglie.
Il Colonnello Assimi Goïta, classe 1983, a capo della giunta militare che giuda il Mali dal 2020, ha tutto l’interesse a gettare acqua sul fuoco su quella che appare una situazione sfuggita di mano con uno dei pochi paesi della regione in cui ancora gode di buoni uffici. Il governo di fatto maliano é infatti colpito da sanzioni da parte della Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (ECOWAS), l’Unione Economica e Monetaria dell’Africa Occidentale (UEMOA) e l’Unione Europea, per aver rimandato a data da destinarsi le elezioni previste nel febbraio di quest’anno, un copione preso a prestito dalle migliori tradizioni in quanto a cambi di regime manu militari a sud del Sahara.
Quando il 9 gennaio scorso, l’ECOWAS (di cui la Mauritania non fa parte) ha annunciato la chiusura dei confini con il Mali, la cessazione dei rapporti diplomatici e l’imposizione di ulteriori sanzioni in risposta a quello che è stato definito un « inaccettabile » ritardo nell’organizzazione di nuove elezioni, é verso Nouackchott che Goïta si é voltato per aggirare l’embargo. La Mauritania é anche il paese che garantisce uno sbocco sul mare al Mali. L’inchiesta stabilirà presumibilmente se la presenza dei marcenari della Wagner, al soldo al soldo del Cremlino attraverso il libro paga di Yevgeny Prigozhin, oligarca fedelissimo di Putin, che affiancano le forze maliane dalla fine del 2021 ha giocato un ruolo nell’accaduto. Tale scenario trova riferimenti (da dimostrare) su almeno una fonte di stampa locale e sulla stampa francofona internazionale.
L’annuncio del ritiro (graduale) dei militari francesi dell’Operazione Barkhane dal Mali e la recente espulsione dell’ambasciatore francese ordinata dai militari di Bamako a gennaio scorso, forniscono un istantanea sulla situazione di tensione esistente tra la giunta che regge il Mali, alcune capitali europee e Bruxelles, che nel paese ha investito dal 2012 enormemente in termini di sicurezza e cooperazione allo sviluppo con risultati non all’altezza delle aspettative. Si pensi agli 8 miliardi di euro spesi tra il 2014 e il 2020 per assistenza allo sviluppo, agli oltre 950 milioni di euro impegnati nel Sahel attraverso l’Emergency Trust Fund for Africa e i quasi 200 milioni di euro finora spesi per sostenere la « forza congiunta » (militare e civile) di cui si sono dotati i paesi del G5 Sahel (Burkina Faso, Chad, Mali, Mauritania e Niger).
Non avendo la stessa forza finanziaria di Unione Europea, Cina e Stati Uniti nel continente, Mosca si é specializzata nel prêt a pôrter modello militare, di cui Wagner rappresenta l’ultima collezione. Il Sahel resta una zona di interesse strategico sia per l’Europa che per la Russia (come per la Cina che in Africa é un gigante). Lo dimostra l’attuale Partnership per la Sicurezza e la Stabilità nel Sahel adottata dal Consiglio UE lo scorso anno (P3S). L’inquietudine sulla vicenda che ha innescato la crisi diplomatica, per ora rientrata, tra Mauritania e Mali, si accompagna a concrete preoccupazioni per le conseguenze che il conflitto in Ucraina porterà in questa parte del mondo, sia in termini di insicurezza, sopratutto nelle zone in cui operano estremisti del jihad, che per il deteriorasi di condizioni socio economiche già tra le piu’ precarie al mondo.
Più aumenta la povertà, più si allarga il bacino di utenza dei gruppi armati.
Questo in un contesto in cui abusi e violazioni dei diritti umani non avvengono solo per mano di milizie irregolari e terroristi, ma anche da parte di forze regolari. Ieri (15 marzo) Human Rights Watch ha pubblicato un rapporto (non senza precedenti) che fornisce dettagli su esecuzioni sommarie commesse dall’esercito maliano nel quadro di operazioni anti-terrorismo nelle zone di Mopti, Ségou e Koulikoro (almeno 75 civili uccisi da inizio dicembre).
Se Bamako conta sui « consiglieri russi » della Wagner (un migliaio in Mali secondo diverse fonti) per fronteggiare terrorismo e bande criminali, potrebbe ora trovarsi a fare i conti con il fatto che gli stessi mercenari, a parità di diaria, preferiscano rispondere all’appello di Mosca di portare aiuto ai « fratelli d’arme russi » impegnati a « cacciare i banditi dall’Ucraina ». Ne fa riferimento l’edizione del quotidiano francese Le Monde del 13 marzo, che riferisce di video da giorni postati sui social dei residenti nella principale base delle milizie Wagner in Repubblica Centroafricana che invitano a fare i bagagli per combattere più vicino a dove batte il cuore.
Secondo l’analisi del Washington Post del 9 marzo, la Russia potrebbe invece spingere maggiormente su Wagner in Africa come strumento predatorio di assets come bauxite, oro e diamanti per parare i colpi delle sanzioni. Le conseguenze delle sanzioni contro Mosca saranno avvertite anche a sud del Sahara, dove il Cremlino coltiva rapporti bilaterli di lungo corso e dove gli oligarchi che siedono nelle stanze del potere « investono » al fine di trarre profitto da risorse minerarie. La necessità di elargire aiuti in sostegno a nuovi rifugiati in fuga dalle bombe a un passo dall’Europa fa si che la coperta diventi corta per coprire i diseredati di altri luoghi.
Alcune Organizzazioni internazionali, tra cui Oxfam, hanno già lanciato l’allarme. « Per il momento non abbiamo un quadro esaustivo, ma i donatori indicano tagli tra il 50 e il 60 per cento per proposte di progetti che erano in via di finalizzazione per il 2022 » ha dichiarato qualche giorno fa Marine Olivesi, portavoce di Oxfam per l’Africa Occidentale, alla BBC. Tutto questo accade mentre sono frontalmente coinvolti nella guerra due dei maggiori produttori mondiali di cereali.
Un recente studio sul Mali e altri paesi del Sahel pubblicato dal think tank Brookings Institution con sede a Washington sostiene che instabilità e sicurezza nel Sahel peggiorano esacerbate dal cambiamento climatico che amplifica le crisi prosciugando mezzi di sussistenza « sempre più scarsi ». Secondo lo stesso studio l’aumento di temperatura di 1 grado Celsius amplia l’incidenza della guerra civile del 4,5 per cento. « Il Mali offre un’eccellente illustrazione del complesso nesso tra cambiamento climatico, mezzi di sussistenza e conflitto », si legge nel rapporto, che mette in evidenza come negli ultimi vent’anni questo paese duramente colpito dal climate change abbia conosciuto rivolte, violenze, insurrezioni estremiste e colpi di stato militari.
Si capisce dunque perché sarà difficile che le cose si mettano meglio per pastori e commercianti mauritani che vanno alla ventura oltreconfine. E l’impoverimento ulteriore delle no man’s land in cui terroristi di ogni dove trovano riparo significa maggiori sacche di manodopera a buon mercato. Il deserto saheliano continuerà a rappresentare una meta sicura per i gruppi terroristici, che nella distrazione provocata dalla guerra in Ucraina trarranno vantaggio per riorganizzarsi. Per questo la sorte di chi resta seppellito dalla sabbia tra le dune riguarda tutti noi. Pagine Esteri