di Alessandra Mincone* – 

(le foto sono di Martine Perret e Jonathan Hayms/Nazioni Unite) 

Pagine Esteri, 18 maggio 2022La capitale della Sierra Leone fu chiamata “città libera” dagli inglesi quando divenne il porto d’approdo per oltre cinquanta mila schiavi, liberati dalle catene dopo l’abolizione della tratta per la schiavitù. I suoi abitanti ancora soffrono la fame, di libertà come di pane. E come se non fosse bastata la guerra dei diamanti insanguinati a traumatizzare l’ex colonia britannica, a vent’anni di distanza la povertà alimentare e il degrado sanitario restano condizioni permanenti a detrimento dei bambini.

Tra i testimoni oculari della crisi umanitaria in Sierra Leone, che provano a mettere in campo un’alternativa sociale per i minori rimasti orfani dopo la guerra, o l’epidemia di ebola, o la pandemia di covid, c’è Dauda Bah, che è tornato a Mobongse, piccolo villaggio del distretto di Mombaya. All’Unicef  ha spiegato che spesso si incontrano anche bambini abbandonati a causa della povertà, perché i genitori non possono occuparsene economicamente: “questi bambini non avevano un posto in cui dormire e quindi abbiamo deciso di costruire delle piccole residenze dove potessero stabilirsi,” per condividere il tempo, lo spazio, e soprattutto i pasti.

Oggi, con più di otto milioni di abitanti, la Repubblica della Sierra Leone è posizionata tra gli ultimi posti della classifica per l’Indice di Sviluppo Umano. Secondo il report del 2021 sullo stato di salute alimentare, in Sierra Leone  4,7 milioni di persone sono in condizioni di insicurezza alimentare; oltre un quarto di queste vivono nelle aree rurali.

Dallo scoppio della pandemia da Covid-19, l’accessibilità al mercato dei cereali è stata gravemente compromessa, provocando una carenza di riso per l’89% della popolazione urbana. Gli agricoltori hanno lamentato grosse perdite economiche, soprattutto con il blocco delle esportazioni di manioca verso la Guinea. E si stima che solo il 2% dei produttori di cereali possa soddisfare le esigenze di fabbisogno familiare per un anno intero. Coloro che si trovano in maggiore difficoltà nelle stagioni di magra, sono costretti a dipendere dal mercato globale e a fare i conti con le oscillazioni dei prezzi per le materie e quelli per le importazioni. Rispetto al 2015, il costo del riso per i sierraleonesi è raddoppiato, e quello della manioca, di conseguenza, è quadruplicato. Carne e pesce hanno subito un aumento del costo del 12% e 22% l’anno.

Solo l’olio di palma è il prodotto a cui possono accedere anche le famiglie più povere, perché è tra i fiori all’occhiello delle materie esportate in Liberia e Guinea. Ma per queste fragili famiglie, dove i componenti lavorano nelle miniere, nell’estrazione del sale, e nel commercio del cibo selvatico, la malnutrizione acuta miete tante vittime, e i genitori dei minori scelgono di abbandonare i bambini nella speranza che qualcun altro possa garantirgli più proteine. Rischiano la vita anche le donne, soprattutto quando portano avanti una gravidanza non potendo alternare il riso e le pochissime verdure a disposizione con frutta, carne e latte alla loro alimentazione settimanale. Spesso non sopravvivono agli sforzi del parto.

Nel 2015 il Ministero della salute sierraleonese registrava una diminuzione della mortalità per carenza alimentare, senza tenere conto del numero della mortalità che in quell’anno l’epidemia di ebola stava contribuendo ad aumentare. Secondo il punteggio calcolato dall’Indice Globale della fame, ci sono stati dei miglioramenti dal 2015 al 2020, eppure, il paese non è ancora escluso dal livello di “gravità” che riguarda il rischio di denutrizione, deperimento infantile, arresto della crescita e mortalità infantile. Nel 2000, quando vi era ancora la guerra civile per il traffico dei diamanti, la dieta alimentare in Sierra Leone veniva classificata “estremamente allarmante”. Ad oggi il tasso di mortalità infantile è di 74 bambini su 1000; e dei bambini al di sotto dei cinque anni, il 10,5%  muore di fame.

Ma la carenza di un pasto ricco di ferro e vitamine non è la sola causa, tra le principali, degli innumerevoli decessi per malnutrizione. Nel 2020 la CFSVA (Comprehensive Food Security & Vulnerability Analysis) ha rilevato che “le tradizionali latrine a fossa sono la forma più comune di sanificazione, sia nelle aree urbane che rurali, mentre circa il 16 per cento delle famiglie non ne hanno affatto”. Di conseguenza laddove il bisogno di defecazione dei bambini viene svolto all’area aperta, è più facile contrarre infezioni che portano a diarrea e virus intestinali, e che espone a ulteriori perdite di nutrienti. Malattie possono trasmettersi dall’acqua non potabile dei fiumi e dei ruscelli, che viene utilizzata per bere, per cuocere e conservare gli alimenti, e più scarsamente anche come fonte primaria di igiene personale dal 36% della popolazione. Nel 2017, Il Manifesto denunciava addirittura che la produzione di sapone fatto in casa – attività redditizia per molte donne disoccupate –  stava diventando un motivo di ricovero dei bambini tra i più frequenti, che ingerivano la soda scambiandola per acqua o zucchero.

Nel 2021 il Regno Unito, gli Stati Uniti e il Giappone, hanno finanziato un progetto dell’UNICEF per la riabilitazione di 37.570 bambini gravemente sottonutriti che terminerà a luglio 2022. 

Con l’espandersi dell’epidemia di febbre emorragica di ebola del 2014-2016, neanche le migliaia di morti in Sierra Leone hanno convinto il governo a investire tempestivamente nella spesa pubblica per la salute della popolazione. Solo agli inizi di maggio 2022 sarebbe entrato in azione un Servizio Nazionale di Emergenza Medica, mentre gli ospedali di pediatria e chirurgia più importanti sono ad opera di organizzazioni non-governative come Emergency. Nel 2021 il Regno Unito, gli Stati Uniti e il Giappone, hanno finanziato un progetto dell’UNICEF per la riabilitazione di 37.570 bambini gravemente sottonutriti che terminerà a luglio 2022.

Malnutrizione, malasanità, disoccupazione e violenza per le strade dei villaggi fanno da sfondo alle vite di minori, uomini e donne. Due anni fa, nella città di Makeni, ci fu una protesta per la garanzia dell’elettricità, dopo lo spostamento di un generatore di corrente in una località distante. Gli agenti e i militari spararono ad altezza uomo uccidendo tra i manifestanti anche uno studente di 15 anni.

A dare un’alternativa all’assenza di prospettive generali, c’è anche Imma Kamara, che dal 2016 gestisce un centro per bambini orfani e abbandonati collaborando col Ministero del welfare e dei servizi sociali. Oggi rientrano nel suo progetto 22 bambini e bambine, di diverse età, e con il suo staff  prova a offrire un rifugio, del cibo, cure mediche e lezioni scolastiche di livello elementare e medie, riconosciute dal Ministero dell’istruzione, anche se “il tasso di alfabetizzazione in Sierra Leone non raggiunge appena il 40%”. Azioni del genere vengono riconosciute indispensabili per attuare un processo di cambiamento che ispiri speranza, per tutti quei minori che “sono costretti a lavorare, anche nella prostituzione” – come dichiarato da Kamara alla stampa.

Anche se per ora, l’Unicef parla di  3.300,000 di bambini che hanno bisogno di assistenza umanitaria, che sono a digiuno di diritti. Pagine Esteri

Fonti:

https://docs.wfp.org/api/documents/WFP-0000129312/download/?_ga=2.108742017.2007916722.1652548190-1424528584.1652548190

https://www.globalhungerindex.org/pdf/it/2020.pdf

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