Foto: Alice Seeley Harris, Congo 1904
di Franco Ferioli –
Pagine Esteri, 23 giugno 2022 – Durante un fugace periodo di circa cinquant’anni, fra la fine del secolo decimonono e il principio del ventesimo, l’affermazione della moderna civiltà delle macchine e l’incremento della produzione industriale aveva alzato il livello di vita dell’uomo medio europeo in modo abbagliante.
Le conquiste della scienza e della tecnica progredivano a tale velocità, rinnovandosi continuamente, che pareva naturale pensare che avrebbero continuato a svilupparsi sempre più formando società ricche, pacifiche, sane ed efficienti.
All’interno delle grandi città si determinò un sostanziale miglioramento della vita materiale, garantito da una serie di servizi innovativi. Basti pensare all’energia elettrica e alle sue numerose applicazioni, alla radio, al telefono, all’automobile, all’aeroplano, al sistema fognario, alle strade asfaltate, ai trasporti pubblici, alle scuole per l’infanzia, alle scuole elementari, ai controlli medici sugli alimenti, ai vaccini, alle cure e ai centri di prevenzione sanitaria. Tutte cose che, nel giro di poche decine di anni, rivoluzionarono radicalmente la vita e le abitudini di milioni di cittadini e cittadine europee.
Parigi, più di altre, fu la città-vetrina di quel nuovo mondo moderno, la capitale del turismo e dei consumi, degli spettacoli e dell’arte, della cultura e della scienza, dello sport e della moda. Per questo fu anche la culla della Belle Époque con tutta la variegata gamma delle sue espressioni: dai fenomeni di costume sociale come i caffè concerto, le gare sportive, le corse automobilistiche, i voli in aeroplano, i grandi magazzini, a quelli dell’espressione artistica, come il teatro, l’opera, la fotografia, il cinema, la pittura. In questo grande quadro di sviluppo, e nonostante l’emigrazione in America di oltre trenta milioni di Europei avvenuta tra il 1870 e il 1910, si registrò un’eccezionale crescita demografica, passando da 290 a 435 milioni.
L’eccezionalità dello sviluppo civile, economico e culturale vissuto così intensamente dagli Europei in quel lasso di tempo di pace e prosperità era però destinato a concludersi tragicamente e precipitosamente, anticipando la crisi di valori ai quali siamo quotidianamente abituati.
L’Europa, in piena euforia da progresso, precipitò nel terribile baratro e nel grande spartiacque della storia moderna determinato dalla Prima Guerra Mondiale.
Sistemi politici e sociali, in piedi da secoli, si sgretolarono. Altri furono radicalmente trasformati. Andarono perdute illusorie certezze e iniziò l’inevitabile declino e l’inesorabile decadenza della neonata società dei consumi.
Il progresso stava presentando il proprio conto senza fare sconti a nessuno.
Dal momento che il benessere di alcuni si basava sulle fatiche, sul disagio e sullo sfruttamento di molti altri, la modernità apparve umanista da un punto di vista materiale e anti-umanista da un punto di vista spirituale.
Alcuni filosofi, come ad esempio Friedrich W. Nietzsche e Oswald Spengler, previdero profeticamente la catastrofe quando nulla la lasciava prevedere sul piano razionale. E, in effetti, tra la fine dell’800 e i primi decenni del ‘900, nel bel mezzo dell’esplosivo progresso scientifico e tecnico e mentre in Europa la gente comune viveva assaporando la spensieratezza della Belle Époque, si diffuse tra molti intellettuali la coscienza dell’erosione dei valori tradizionali, la perdita di senso e la mancanza di scopo dell’esistenza insieme ad un pessimismo radicale: si trattò di uno stato d’animo di angosciosa attesa che si accompagnava nelle riflessioni filosofiche e nelle espressioni letterarie ed artistiche ad un nichilismo di cui si fecero interpreti vari filosofi, letterati ed artisti con varie modalità e sensibilità. Fu allora che si cominciò ad accusare le scienze, la tecnica e l’economia di rendere sì da un lato la vita più sicura e più comoda, ma di avere contemporaneamente provocato, dall’altro lato, una perdita spirituale ed etica ed un impoverimento dell’intera umanità.
La modernità, il progresso tecnico scientifico e la stessa democrazia furono messi sul banco degli imputati come responsabili delle deformazioni della cultura classica ed umanistica e per avere messo in crisi la nozione stessa di uomo e di civiltà.
Il rifiuto e la negazione della civiltà esistente diventò una vera fede: si parlava di infelicità universale nonostante i progressi, le comodità e i divertimenti che caratterizzavano la Belle Époque e lo stile di vita dei suoi fautori e protagonisti. Oltre che le correnti filosofiche, dal decadentismo nacquero, quasi tutte animate da uno spirito anti-borghese, anti-occidentale e in generale rivoluzionario, anche le avanguardie artistiche del ‘900 come l’Espressionismo, il Futurismo, il Dadaismo, il Surrealismo”: “Dovunque regna la civiltà occidentale è cessato qualsiasi rapporto umano, a eccezione di quei rapporti che hanno per ragion d’essere l’interesse, il duro pagamento in contanti. Da più di un secolo la dignità umana è ridotta al rango di valore di scambio. E’già una cosa ingiusta e mostruosa che il nullatenente sia schiavo del possidente, ma quando l’oppressione va al di là del semplice pagamento di un salario ed assume per esempio la forma di schiavitù che l’alta finanza fa pesare sui popoli, allora è un’infamia che nessun massacro riuscirà a far espiare. Noi non accettiamo le leggi dell’economia e dello scambio, non accettiamo la schiavitù del lavoro e, in un ambito più ampio, ci chiamiamo insorti contro la storia”. (tratto dal manifesto della “Revolution surrealiste” in M. Nadeau, Storia antologica del surrealismo, Mondadori, Milano 1972).
Cléopoldo.
E’ prima di tutto all’interno di questo quadro analitico che andrebbe misurato il consenso riscontrato dalla petizione lanciata dal primo al 30 giugno 2020 (data del 60esimo anniversario dell’indipendenza del Congo) dalla adolescente belga Noah N.L. tramite l’account Instagram @ statues_leopold2_bxl: oltre 44.000 firme (84.418 al 01/06/2022), per chiedere la rimozione di tutte le statue del re Leopoldo II prese di mira in Belgio in seguito al diffondersi in Europa delle rivolte del Black Lives Matter Movement scatenate dall’omicidio di George Floyd da parte della polizia di Minneapolis il 25 maggio 2020.
Il principe Laurent, fratello minore del re Filippo del Belgio, ha accusato i firmatari di essere stati fuorviati, sulla base del fatto che il suo antenato non ha mai messo piede in Congo. E’ vero: re Leopoldo II, riconosciuto come “re costruttore” e non come “re sterminatore”, pur evitando di recarsi in Africa, ha provveduto a costruirsi un impero coloniale privato, a suo nome e titolo personale, al di là della qualifica di regnante e di monarca, alla faccia del proprio popolo e in barba alla propria carica, rappresentando in tal modo una delle più straordinarie e controverse figure di grande colonizzatore e riassumendo in sé tutta la parabola discendente del miraggio collettivo offerto dalla Belle Époque.
Come risultato dell’opera di colonizzazione del Congo, iniziata alla fine del 1800 da Leopoldo II (soprannominato “Cléopoldo” dal jet set delle aristocrazie e delle nobiltà mitteleuropee per via di una scandalosa relazione sentimentale avuta con la ballerina e modella Cléopâtre de Mérode, reginetta di bellezza di quarant’anni più giovane di lui)- i sudditi belgi hanno ridotto in schiavitù, mutilato, ucciso e provocato la morte di milioni di persone conquistando per il loro re una delle regioni africane più vaste e ricche di risorse naturali.
Giusto quindi tentare di accusare i manifestanti di vandalismo e denunciare le loro rivendicazioni come illegittime e irriverenti forme censoree di quel dilagante fenomeno definito Cancel Culture?
Giusto criticare la decisione assunta dai partiti di maggioranza in Parlamento di istituire una commissione per “decolonizzare” gli spazi pubblici nazionali, rivedere ed eliminare i nomi di strade e piazze che contengono riferimenti alla storia coloniale di un Paese e di una capitale come Bruxelles che con i suoi 118 distretti che accolgono quasi 200 nazionalità presenta e rappresenta il cuore civico e amministrativo dell’Unione Europea?
L’orrore.
Noto come il giornalista britannico che nel 1871 ritrovò il missionario scozzese David Livingstone, quando nel 1874 ripartì per l’Africa e 999 giorni più tardi ricomparve sulla costa atlantica dalla giungla dopo aver patito incredibili privazioni e aver perso oltre i due terzi dei membri originali della spedizione, sia lui sia i suoi editori poterono raccontare una delle grandi avventure del secolo: Sir James Rolands, che divenne famoso in tutto il mondo con il nome di Henry Morton Stanley, aveva percorso il bacino idrografico del fiume Congo in tutta la sua lunghezza.
Viaggiò sotto falso nome, compì manovre diversive per seminare chi lo spiava. Quei pochi che sapevano che si trovava nel cuore dell’Africa Nera potevano solo sospettare che avesse in mente qualche grande progetto commerciale.
In realtà e infatti, Stanley era finanziato da Leopoldo II che intendeva acquisire personalmente una bella fetta d’Africa: “Non si tratta di colonie belghe -scrisse Leopoldo a Stanley- si tratta di creare un nuovo stato il più grande possibile e di gestirlo. Il re, come privato cittadino, vuole avere delle proprietà in Africa. Il Belgio non ha bisogno né di una colonia né di territori, il signor Stanley deve dunque comprare terre o ottenerle in concessione”.
Questo inaudito progetto fu realizzato, grazie a un’abilissima campagna di pubbliche relazioni, nel nome della ricerca geografica e scientifica, della lotta ai mercanti di schiavi arabi, della diffusione della civiltà e del progresso, appena venne costituita una compagnia privata con finti scopi scientifici e filantropici, chiamata Società Africana Internazionale o Associazione Internazionale per l’Esplorazione e la Civilizzazione del Congo.
Per raggiungere tali scopi, venne pertanto reclutato il più celebre esploratore/affarista del tempo, che stipulò centinaia di contratti ingannevoli con capitribù locali gettando le basi per la costruzione di un sistema di stazioni che facessero da collettori delle ricchezze della foresta che attraverso il fiume potessero giungere ai porti sulla foce e da qui in Europa.
Nel 1878, sotto gli auspici di questa compagnia e sotto mandato del re belga, Henry Morton Stanley gettò le basi per una colonia su un’area geografica grande quanto Spagna, Francia, Italia, Germania e Inghilterra messe insieme, cioè settanta volte più grande del Belgio stesso, che venne istituita ufficialmente a partire dal 5 febbraio 1885 con la qualifica di Stato Libero del Congo nel corso della conferenza di Berlino, durante la quale le grandi potenze europee si spartirono una serie di aree geografiche africane non ancora sottoposte a dominio coloniale che Leopoldo fu libero di controllare come dominio personale dal quale trarre un’enorme fortuna, inizialmente con l’esportazione di avorio e legname, poi costringendo la popolazione locale a trarre gomma dalla resina delle piante di caucciù – ficus elastica.
Erano gli anni della seconda rivoluzione industriale, conosciuti in Europa come gli anni della Belle Époque e l’invenzione degli pneumatici per le automobili aveva reso l’estrazione e la vulcanizzazione della gomma un business a livello globale basato su un sistema di sfruttamento schiavista che causò la morte di un numero stimato di 10 milioni di abitanti, su una popolazione totale di 25 milioni di uomini, donne, bambini e bambine obbligati a vivere in baraccamenti insalubri, sottoposti a un regime spietato di lavori forzati e sottoposti alla criminale disciplina della milizia para-militare Force Publique.
A fare il lavoro sporco erano circa duemila agenti bianchi, disseminati nei punti strategici del regno di Leopoldo II. Ogni agente comandava truppe di mercenari (sedicimila in tutto) e un certo numero di nativi armati, arruolati da differenti etnie e dislocati nei singoli villaggi per assicurare che la gente facesse quanto loro ordinato. Se la quota era inferiore a quella stabilita, si ricorreva a fustigazioni, mutilazioni o alla fame, poichè un’altra forma di punizione per chi non riusciva a portare le quantità volute di caucciù era la distruzione dei raccolti. Portare la preziosa resina nelle quantità imposte diventò con il passare del tempo sempre più difficile, perché le piante utili, visto lo sfruttamento intensivo, si trovavano sempre più lontano dal corso del fiume e molti villaggi non riuscivano a onorare le richieste. Contro coloro che si ribellavano si ricorreva a spedizioni punitive, distruzioni di villaggi, stupro, presa in ostaggio delle donne e all’assassinio.
L’amministrazione del Congo da parte di Leopoldo II e del suo successore Baldovino I, viene ancora oggi ricordata come uno dei crimini internazionali più infamanti del XIX secolo e la stessa monarchia, dopo le accuse internazionali e le proteste da parte di liberali, progressisti, socialisti, letterati, artisti e personalità religiose, venne poi costretta a cedere la sovranità dello stato e la sua amministrazione al governo belga, che resse direttamente la colonia ancora per mezzo secolo a partire dal 15 novembre 1908, quando la colonia fu ribattezzata Congo Belga.
Nell’agosto di quello stesso anno, poco prima di trovarsi costretto a cedere ufficialmente la propria colonia personale al governo del Belgio, Leopoldo II, sommerso dai debiti contratti da uno stile di vita fastoso oltre ogni limite, fece bruciare per otto giorni consecutivi la maggior parte dei suoi archivi. «Regalerò ai belgi il mio Congo, ma non avranno diritto a sapere ciò che vi ho fatto», disse. E, oltre alle carte ridotte in cenere, ridusse drasticamente al silenzio i testimoni scomodi. Fu così che una parte importante della storia della dominazione europea in Africa Nera venne cancellata.
I re Leopoldo II e Baldovino I furono entrambi duramente criticati dai loro contemporanei: non solo quello che facevano era sbagliato, ma era ampiamente noto che era sbagliato nel momento in cui lo facevano. Resoconti di sfruttamento selvaggio e atroci violazioni dei diritti umani, (incluse mutilazioni con taglio delle mani, piedi, mammelle della popolazione nativa eseguite quando le produzioni della gomma non rispettavano i quantitativi richiesti), portarono alla nascita di un movimento internazionale di protesta già nei primi anni del Novecento.
A svelare agli occhi del mondo ciò che accadeva in Congo furono inizialmente un pugno di giornalisti, esploratori, missionari e diplomatici che fecero nascere il primo movimento mondiale per la difesa dei diritti umani: Edmund Morel, reporter e politico britannico che per primo indagò; René Claparède, giornalista svizzero che divenne presidente della Lega svizzera per la difesa degli indigeni e dell’Ufficio internazionale per la difesa dei diritti dei popoli; George Washington Williams e William Sheppard, due neri americani, il primo giornalista e il secondo predicatore cristiano, che smontarono la figura da filantropo ed evangelizzatore di re Leopoldo; Roger Casement, console britannico in Congo, che raccontò in patria ciò che vide “…un Attila in vesti moderne, che sarebbe stato meglio per il mondo che non fosse mai nato”; Alice Seeley Harris e suo marito John Harris, due missionari inglesi che all’inizio del Novecento si recarono nella foresta congolese con la Bibbia in una mano e la macchina fotografica nell’altra per documentare e denunciare crimini inenarrabili.
Sconvolgente è la foto di un padre, Nsala, che contempla il piede e la mano tagliati alla figlia Boali, di cinque anni. La bambina venne mutilata e uccisa insieme alla madre. Durante la giornata di lavoro forzato Boali non aveva raggiunto la quota del raccolto della gomma. Terminate le disumane punizioni, i mercenari si presentarono da Nsala per consegnargli la mano e il piede della figlia ormai morta.
Guglielmo II imperatore di Germania e re di Prussia giunse a descrivere il suo reale collega come un “uomo completamente cattivo”.
Molti importanti scrittori dell’epoca presero parte alla condanna internazionale.
Il poeta mistico americano Vachel Lindsay scrisse: “Listen to the yell of Leopold’s ghost / Burning in Hell for his hand-maimed host / Hear how the demons chuckle and yell / Cutting his hands off, down in Hell” (“Udite le urla dello spettro di Leopoldo / Che arde all’Inferno per il gran numero di mutilati / Sentite come i demoni sghignazzano e gridano / Tagliandogli le mani, giù all’Inferno”).
Edgar Rice Burroughs menzionò polemicamente Leopoldo II come responsabile delle crudeli atrocità commesse ai danni delle popolazioni indigene nel suo celebre Tarzan delle Scimmie.
Il Congo Belga di re Leopoldo fu descritto come un regime coloniale di lavoro schiavistico, stupri e mutilazioni da Arthur Conan Doyle, Booker T.Washington e da Joseph Conrad. «L’orrore! L’orrore!» sono le ultime parole di Kurtz, uno dei grandi personaggi letterari del Novecento uscito dalla sua magistrale penna nel libro Cuore di tenebra. Kurtz è uno spietato commerciante di avorio: sulla palizzata davanti alla sua base sul grande fiume aveva conficcato le teste di alcuni indigeni decapitati, eppure di fronte a ciò che accade nella giungla del Congo non può che mormorare, come l’ex colonnello Kurtz del film Apocalypse Now diretto da Francis Ford Coppola nella giungla del VietNam «L’orrore! L’orrore!».
Mark Twain fu il primo autore statunitense a denunciare la follia omicida del colonialismo di Leopoldo II in Congo scrivendo la prima opera antimperialista: una sarcastica satira politica, intitolata Il soliloquio di re Leopoldo, inedita in italiano ma che anche nell’edizione originale in lingua inglese apparsa negli USA e a Londra nel 1905, ebbe una circolazione talmente stentata da risultare praticamente sconosciuta e infatti le biografie e le bibliografie di Twain si limitano a darne cenni fugacissimi.
La cappa di silenzio su quest’opera vigorosa e appassionata, in cui Twain dà buona prova della sua verve polemica, era stata decisa dalla grande editoria americana, che prima cercò di impedirne la pubblicazione e poi, una volta che il libro fortunosamente vide la luce, in una edizione di pochi esemplari a cura della American Congo Reform Association, riuscì a non farne trapelare notizia sui giornali e sulle riviste più diffuse.
Il libro può considerarsi la prima documentata invettiva contro il movimento imperialista. Esso documenta, nella forma fantastica di un soliloquio del re del Belgio, la politica di genocidio e di spoliazione portata avanti in Congo dai colonizzatori europei e punta l’indice per smascherare gli ignobili interessi che in tutto ciò ebbe la monarchia belga nascondendosi dietro il “diritto”, “la civiltà”, la “fede”.
Adam Hochschild, autore nel 1999 di un’inchiesta dal titolo Les fantômes de roi Léopold oltre a descrivere il clima di terrore instaurato in Congo ha fatto riapparire i fantasmi di re Leopoldo II anche in riferimento al Museo Africano di Tervuren, conosciuto come Museo reale dell’Africa Centrale, da lui voluto come mezzo autocelebrativo di propaganda. Per la mostra pre inaugurale del 1897 Leopoldo fece allestire uno zoo umano: una fedele copia di un tipico villaggio abitato da 270 congolesi. Tra loro, tre donne e quattro uomini morirono di freddo o di malattia. Fu questa mostra temporanea sulle colonie che diede poi origine alla costituzione del Museo del Congo Belga, inaugurato nel 1910.
I cosiddetti zoo umani, in Francia chiamati “giardini zoologici di acclimatazione” o presentati come “parchi etnologici” furono una delle peggiori aberrazioni dellʼOccidente proposti in Europa, (Italia inclusa, per la prima volta nei Giardini del Papa in Vaticano nel XVI secolo poi nel 1884 a Torino, tra i viali del Parco del Valentino per l’Esposizione Generale Italiana e infine a Napoli nel 1940 per la prima Mostra triennale delle terre italiane d’oltremare), fino allo scoppio della guerra mondiale del 1940: luoghi dove i deportati da quelle terre esotiche e primitive, conquistate per essere civilizzate ed evangelizzate, venivano messi in mostra dentro gabbie, recinti o scenografie per essere esposti come bestie, dietro pagamento del biglietto, agli occhi del grande pubblico. Nel corso del 1877 e nell’ambito di due “spettacoli etnologici” di tal genere, la biglietteria del Jardin zoologique d’acclimatation di Parigi registrò un milione di entrate a pagamento.
Bottini coloniali.
Oggigiorno la Repubblica Democratica del Congo ex Zaire, ex Congo Belga, ex Stato Libero del Congo, continua ad essere un paese devastato dall’imperialismo. E non potrebbe essere diversamente per un paese talmente centrale e strategicamente importante che «se l’Africa fosse raffigurata come una pistola, il grilletto si troverebbe in Congo», scriveva Frantz Fanon, intellettuale francese di origini caraibiche, rappresentante del movimento terzomondista per la decolonizzazione, autore del saggio ‘I dannati della terra’.
Un Paese così scandalosamente ricco di risorse naturali da possedere il 33% dei giacimenti mondiali di cobalto, il 10% delle riserve mondiali di rame, un terzo delle riserve di diamanti, tre quarti delle risorse mondiali di coltan (colombo-tantalite indispensabile per la fabbricazione di computer, smartphone e altri strumenti elettronici), estesi giacimenti di uranio, oro, zinco, stagno, manganese, tungsteno, petrolio.
L’area di confine a cavallo tra Uganda e Ruanda, che si estende dagli altopiani fino alla Valle del Rift, è considerata dai geologi come uno dei principali serbatoi di minerali dell’intero pianeta.
Nel gennaio 1979, deponendo dinnanzi alla sottocommissione per le forze armate del senato statunitense, il generale Franklin F. Martin, del progetto Defense Advanced Research Projects Agency ( DARPA ) -un’agenzia di ricerca e sviluppo del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti responsabile dello sviluppo di tecnologie emergenti per uso militare- dichiarò che nel 1939, allo scoppio della seconda guerra mondiale, il paese più importante nel mondo per lo sforzo militare americano era lo Zaire ex Congo Belga. E aggiunse che, per una sorta di “accidente geografico” il Congo aveva mantenuto per quarant’anni un’importanza essenziale per gli interessi statunitensi e avrebbe acquisito in futuro un’importanza ancora maggiore. (Disse apertamente che “questo paese farà la guerra per lo Zaire prima di battersi per qualunque stato petrolifero arabo”.)
Durante la seconda guerra mondiale, con tre spedizioni supersegrete, il Congo fornì agli Stati Uniti l’uranio impiegato per fabbricare le bombe atomiche fatte esplodere in Giappone.
Nel 1960 gli USA non avevano più bisogno di uranio, ma erano divenuti strategicamente importanti il rame e il cobalto. Negli anni Settanta erano passate in primo piano le riserve di tantalo, volframite, germanio e silicio, sostanze in dispensabili per l’elettronica dei microprocessori.
Dagli anni Ottanta al Duemila non c’è stata migliorìa tecnologica civile e militare, ad esempio sotto forma di maggior durata delle batterie dei telefoni cellulari o di massima efficienza microelettronica dei sistemi teleguidati di bombardamento con armamenti definiti “intelligenti”, che non abbia attinto le proprie materie prime dalla riscoperta dell’infinita ricchezza del sottosuolo di questa regione equatoriale.
Ma il colonialismo nell’attuale Repubblica Democratica del Congo ha cancellato anche e soprattutto una cultura millenaria e ancestrale. Oggi nel Paese africano la tradizione popolare è misconosciuta e bistrattata come stregoneria dalle stesse comunità urbane e metropolitane. Un immenso fossato separa le nuove società dalla civiltà tradizionale.
Nel vuoto, il modello di massa vincente è inevitabilmente quello imposto con il controllo, la violenza e lo sfruttamento, cioè quello europeo.
Ritorno al futuro.
Nel dicembre 2018, nel bel mezzo del dibattito sulla restituzione dei beni e delle opere d’arte africane saccheggiate durante l’epoca coloniale, il Museo Africano di Tervuren è stato riaperto dopo un rinnovamento costato 75 milioni di euro, cinque anni di lavori e il raddoppio dell’area espositiva che ha cancellato i riferimenti alle vestigia del periodo coloniale per rivendicare “uno sguardo critico” sul passato e sull’infinità di oggetti raccolti nella collezione privata di Leopoldo II: 10.000.000 animali e insetti, 250.000 minerali e pietre, 120.000 oggetti etnografici, 20.000 mappe, 56.000 oggetti in legno, 8.000 strumenti musicali, 350 archivi differenti, tra cui il diario originale di Henry Morton Stanley.
Con l’obiettivo di fare del museo del colonialismo non più motivo di vanto ma di riflessione e presa di coscienza, sono sparite le statue ritenute caricaturali e ridicolizzanti per gli africani, quelle che glorificano i coloni belgi e sono state aperte nuove sale dedicate ai paesaggi, ai minerali, ai linguaggi e alla musica dell’Africa Nera.
Finora parlare di restituzione è stato una sorta di tabù, ma associazioni africane, intellettuali e alcuni capi di Stato, come il presidente della Repubblica Democratica del Congo Joseph Kabila, del Ruanda Paul Kagame, del Benin Patrice Talon, che ha creato un Comitato per la restituzione delle opere saccheggiate dall’antico regno di Dahomey, continuano a chiedere che quell’inestimabile patrimonio torni nelle terre africane di appartenenza.
“Si apre così un nuovo capitolo nel rapporto tra Belgio e Africa” ha detto il primo ministro belga Alexander De Croo presente all’inaugurazione. “Il nostro veniva spesso definito come l’ultimo museo coloniale del mondo, quindi volevamo cambiarlo, ha ribadito il direttore generale Guido Gryseels.
Leopoldo II è ancora oggi una figura controversa nella Repubblica Democratica del Congo; nel 2005 la sua statua fu abbattuta solo poche ore dopo essere stata ri eretta nella capitale Kinshasa (ex Leopoldville).
Il ministro della cultura congolese, Christoph Muzungu, aveva deciso di fare reinstallare la statua, sostenendo che la gente dovrebbe vedere anche gli aspetti positivi del re oltre a quelli negativi. Ma poche ore dopo essere stata eretta al centro di una rotatoria vicino alla stazione centrale, la statua alta sei metri fu buttata giù di nuovo e definitivamente.
Nel giugno 2020, in occasione del sessantesimo anniversario dell’indipendenza della Repubblica Democratica del Congo, e nel pieno dell’ascesa delle dimostrazioni di protesta del Black Lives Matter, il re del Belgio Filippo, con una lettera indirizzata al presidente Félix Tshisekedi, ha espresso per la prima volta nella storia il suo rammarico per le azioni di Leopoldo II.
Il 6 giugno 2022 la Repubblica Democratica del Congo e il suo presidente hanno accolto a Kinshasa il re del Belgio Filippo in quella che viene considerata una visita storica di riconciliazione tra un grande Paese dell’Africa centrale brutalmente colonizzato da un piccolo Stato europeo. Il portavoce del governo congolese Patrick Muyaya ha detto ai giornalisti che il Belgio e la Repubblica Democratica del Congo stanno avviando una nuova partnership. “Non dimentichiamo il passato ma guardiamo al futuro”, ha aggiunto.
È in questa prospettiva riparativa che possono essere inquadrate analoghe decisioni da parte della Francia di restituire al Benin un primo lotto del proprio bottino coloniale composto da ventisei degli oltre trecentomila oggetti culturali e manufatti artistici africani dopo centoventinove anni trascorsi nel museo Quai Branly o nel Musée de l’Homme di Parigi e da parte della Germania di restituire entro il 2022 oltre mille dei famossisimi Bronzi del Benin: una parte della collezione di sculture e bassorilievi trafugati e ospitati in oltre centosessanta musei sparsi in tutto il mondo: novecentoventotto pezzi si trovano nel British Museum di Londra; cinquecentosedici nel Museo Etnologico di Berlino; centosessanta sia nel Weltmuseum di Vienna che nelle sale del Metropolitan Museum of Art di New York.
Nel frattempo, mentre si ritiene che circa il 90% del patrimonio culturale africano si trovi nel Vecchio Continente e mentre nella Repubblica Democratica del Congo, nel Benin, in Ghana, Nigeria e Costa d’Avorio si stanno avviando grandi progetti finanziari per costruire grandi musei, non si può rinunciare di ricordare come e perchè sia stato con la morte dell’afroamericano George Floyd negli Stati Uniti, vale a dire con un ennesimo tributo di sangue versato, che il processo di ridefinizione della memoria imperialista e coloniale occidentale, così come il rimpatrio dei manufatti africani sottratti, abbiano acquisito uno slancio mondiale e siano divenuti parte di un dibattito permanente sull’affermazione dei princìpi della giustizia sociale, dell’eguaglianza interrazziale e della cultura della pace.