di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 17 settembre 2022 – La settimana che si chiude ha visto una nuova escalation nello scontro bellico infinito tra Armenia e Azerbaigian; in contemporanea, alla frontiera tra Kirghizistan e Tagikistan, si è riacceso l’annoso conflitto tra le due ex repubbliche sovietiche. Il Caucaso e l’Asia Centrale rischiano seriamente di esplodere e di trascinare con sé le varie potenze regionali e internazionali che manovrano nella regione.
Dopo la cocente sconfitta dell’autunno 2020, l’Armenia si lecca nuovamente le ferite, scioccata dall’isolamento internazionale riscontrato dopo l’aggressione militare da parte azera.
Mentre Baku denuncia 77 perdite, ieri il primo ministro di Erevan, Nikol Pashinyan, ha elevato a 135 il bilancio delle vittime – in gran parte militari – provocate dalle incursioni e dai bombardamenti delle truppe azere contro numerose località nel sud-est del paese. «Sappiamo che questa cifra è destinata a crescere perché ci sono molti feriti, anche gravi» ha detto il premier. Numerosi militari armeni, inoltre, sarebbero stati catturati dalle truppe nemiche nel corso delle incursioni compiute dagli azeri.
Grazie ai droni da bombardamento “Bayraktar TB2” forniti da Ankara, gli azeri hanno di nuovo avuto velocemente la meglio sulle deboli difese armene. L’esercito di Erevan, rifornito principalmente da Mosca, può contare infatti su armi obsolete, mentre le truppe azere da tempo dispongono di armi pesanti e dispositivi di ultima generazione acquistati dalla Turchia e da Israele (oltre che dalla stessa Russia) grazie ai rilevanti introiti dell’industria petrolifera.
L’assalto di Baku non si è fermato neanche dopo il raggiungimento, mercoledì mattina, di un primo cessate il fuoco mediato da Mosca. Bombardamenti e incursioni sono continuate fino a giovedì mattina finché Russia, Stati Uniti, Francia e Turchia non hanno aumentato la pressione sui contendenti ottenendo la sospensione dei violenti combattimenti.
La “resa” di Pashinyan e le proteste
Mercoledì sera, dopo aver preso atto che né Mosca né l’Unione Europea erano disponibili ad intervenire fattivamente a favore di Erevan, il primo ministro armeno ha reso delle dichiarazioni che hanno provocato un terremoto.
In un intervento, infatti, Pashinyan ha annunciato di essere pronto ad adottare quella che ha definito «una decisione dolorosa ma necessaria» in cambio di una pace duratura con Baku che salvaguardi l’integrità del paese. La dichiarazione ha scatenato lo sconcerto di molti armeni, in patria e all’estero, oltre che la rabbia delle opposizioni nazionaliste – “Alleanza Armena” e “Onore” – che hanno presentato una mozione di sfiducia. Nella notte, migliaia di persone hanno manifestato davanti al palazzo del governo chiedendo le dimissioni di Pashinyan, accusato di volersi arrendere al nemico. I manifestanti hanno divelto i cancelli dell’edificio e tentato di penetrare al suo interno, e le proteste sono riprese il giorno seguente anche a Stepanakert, la capitale del territorio a maggioranza armena assegnato nel 1923 all’Azerbaigian dalla dirigenza sovietica.
La sconfitta del 2020 ha già causato la perdita di una parte importante dell’autoproclamata Repubblica di Artsakh, l’entità costituita dagli armeni dell’Alto Karabakh e mai riconosciuta dall’Azerbaigian che ne pretende la restituzione. Per non parlare della riconquista da parte di Baku di numerose province azere attorno al Nagorno Karabakh che le truppe armene avevano occupato tra il 1991 e il 1994.
Le parole di Pashinyan hanno manifestato la volontà, da parte del governo armeno, di abbandonare alla loro sorte i circa centomila armeni dell’Artsakh pur di salvare Erevan. Molti, però, temono che ulteriori concessioni territoriali possano indebolire a tal punto l’Armenia da metterne in dubbio la sopravvivenza, e non siano comunque sufficienti a evitare nuove pretese da parte del dittatore azero Ilham Aliyev.
Mosca nicchia
È però indubbio che la situazione, per Erevan, si stia facendo sempre più difficile. Mentre due anni fa gli scontri tra le truppe armene e quelle azere erano avvenuti nei territori dell’Artsakh, la recente aggressione azera ha preso di mira direttamente la Repubblica Armena. Ieri Erevan ha denunciato che al momento dell’entrata in vigore della tregua, le truppe azere si erano impossessate di circa 130 km quadrati di territorio armeno.
L’aggressione diretta ha stavolta consentito a Pashinyan – salito paradossalmente al potere nel 2018 in seguito ad un’ondata di manifestazioni antirusse e filoccidentali – di chiedere l’assistenza militare delle truppe russe e di quelle di Kazakistan, Tagikistan, Kirghizistan e Bielorussia. L’articolo 4 dell’Organizzazione del trattato sulla sicurezza collettiva (CSTO) al quale l’Armenia aderisce insieme alle altre repubbliche ex sovietiche, infatti, prevede che se un membro viene aggredito può invocare l’aiuto degli altri contraenti.
Ma la risposta dei propri “alleati” è stata contraddittoria e molto tiepida. La Russia, già alle prese con un’invasione dell’Ucraina che si sta rivelando militarmente più complessa e più costosa del previsto, non può sbilanciarsi troppo a favore dell’Armenia. Mosca non vuole inimicarsi l’Azerbaigian, col quale intrattiene feconde relazioni economiche, politiche e militari; soprattutto, non vuole rompere con la Turchia, grande sponsor di Baku, con la quale Putin ha cercato di rafforzare la collaborazione nel corso del recente vertice di Samarcanda dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai. Anche se negli ultimi mesi Ankara ha avviato un timido processo di distensione con l’Armenia, questa settimana i dirigenti turchi hanno ripetuto come un mantra il proprio sostegno incondizionato alla “nazione sorella dell’Azerbaigian” e avvisato Erevan che la pace potrà venire solo dalla restituzione a Baku di tutto il Nagorno Karabakh.
La CSTO scricchiola
Il segretario della CSTO, Stanislav Sas, ha escluso un intervento militare a sostegno di Erevan e anche solo la possibilità di inviare un contingente di peace-keeping che monitori il rispetto della tregua al confine tra Armenia e Azerbaigian (dove stazionano comunque alcune centinaia di militari russi dei 2000 schierati nel 2020). Tutto ciò che Pashinyan ha ottenuto è l’invio, da parte dell’alleanza, di una missione incaricata di raccogliere informazioni sugli ultimi combattimenti.
Da parte sua, poi, un altro importante socio dell’alleanza militare capeggiata da Mosca, il Kazakistan, ha esplicitamente rifiutato l’intervento delle sue truppe a difesa del territorio armeno. A gennaio il presidente kazako Qasym Jomart Tokaev aveva chiesto e ottenuto l’intervento delle truppe dei suoi alleati per reprimere nel sangue le proteste interne contro il suo regime; ma nei giorni scorsi il suo Ministro degli Esteri Mukhtar Tleuberdi ha addirittura prefigurato l’abbandono del Trattato sulla sicurezza collettiva, confermando il varo di sanzioni commerciali contro la Russia “per evitare le ritorsioni dell’UE e della Nato”. Tokaev si è affrettato a smentire l’uscita dal CSTO, ma appare evidente l’allontanamento da Mosca del presidente che proprio nei giorni scorsi ha stretto con il leader cinese Xi Jinping una serie di nuovi accordi su diversi fronti.
Duri scontri tra Tagikistan e Kirghizistan
I grattacapi nell’area per Mosca – e a maggior ragione per l’Armenia – non finiscono qui. Infatti due degli altri soci del Trattato sulla Sicurezza Collettiva proprio nei giorni scorsi sono tornati a scontrarsi militarmente.
Le forze armate del Tagikistan e del Kirghizistan si stanno combattendo lungo tutto il confine tra i due paesi, oggetto di una contesa che dura da decenni. Già lo scorso anno, ad aprile, i due paesi si erano affrontati militarmente con un bilancio di 31 morti.
Il Tagikistan, in particolare, ha utilizzato non solo l’artiglieria ma anche i missili Grad e l’aviazione per colpire il territorio e le postazioni avversarie. Il bilancio alla fine è stato consistente, soprattutto sul lato kirghiso, con parecchie decine di morti e feriti e decine di migliaia di abitanti sfollati a scopo precauzionale. Anche in questo caso, un primo cessate il fuoco raggiunto dopo alcune ore dall’inizio degli scontri è stato ben presto violato e i combattimenti sono ripresi con maggiore foga fino a ieri sera.
Non stupisce che in un quadro simile, in cui le alleanze di Mosca nell’Asia centrale sembrano seriamente a rischio e la stessa tenuta del CSTO scricchiola, l’Azerbaigian abbia deciso di passare all’offensiva con la volontà di umiliare l’Armenia e incassare nuove conquiste territoriali.
D’altronde Baku non ha nulla da temere neanche dall’Unione Europea, assai meno sensibile agli appelli di Erevan – l’Armenia è un paese sovrano aggredito da un paese vicino governato da una feroce dittatura – di quanto non lo sia stata nei confronti dell’Ucraina. In ballo ci sono le forniture di gas azero quantomai necessarie a sostituire quelle russe (alla faccia dell’autosufficienza energetica tanto sbandierata da Bruxelles).
Nancy Pelosi a Erevan
Non stupisce neanche che altri attori internazionali, che negli anni scorsi hanno dovuto sopportare una parziale estromissione dall’area a causa dell’affermazione di Mosca e di Ankara, tentino di recuperare posizioni sfruttando le difficoltà di Mosca e l’immobilismo dell’UE.
In particolare l’amministrazione statunitense sembra cercare un certo protagonismo nel sostegno – di natura esclusivamente diplomatica – al governo Pashinyan. Mentre scriviamo, infatti, la speaker della Camera dei Rappresentanti di Washington è arrivata a Erevan per incontrare le autorità del paese. «Siamo molto contenti e fieri di poter fare questo viaggio e di poter riconoscere che quello che c’è stato più di 100 anni fa in Armenia è stato un genocidio» ha detto ieri Pelosi a Berlino, dove stava partecipando ad una riunione del G7.
Washington vuole evidentemente sondare la possibilità di contrastare il ruolo turco nell’area – a costo di sostenere un paese, come l’Armenia, formalmente alleato con la Russia e con l’Iran – e di rinsaldare i legami con il premier Pashinyan, eletto a capo di una coalizione filoccidentale arresasi poi al rapporto con Mosca per necessità. Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e del Nord Africa. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale.