di Patrizia Zanelli*
Pagine Esteri, 27 dicembre 2022 – Un tratto molto suggestivo di “Umm Saad” è la presenza dell’autore nella storia, in cui è presente anche sua moglie. Kanafani aveva incontrato l’attivista danese Anni Høver a Beirut, nel 1961, e fu amore a prima vista. Dopo due mesi erano già sposati; ebbero Fayiz, nel 1963, e Laila nel 1966. Nell’incipit di “Umm Saad”, l’autore è a casa, dove ci sono appunto anche la moglie e i bambini.
Kanafani voleva che il romanzo fosse realistico, ma allo stesso tempo cercò di nascondere il più possibile la propria presenza nella storia, da cui in effetti è perlopiù assente e nella quale svolge una funzione simile a quella di Shahrazàd, la narratrice dei racconti inclusi in Le mille è una notte. Umm Saad, la donna che lui conosceva gli riferiva fatti veri della sua vita personale; il realismo gli interessava per storicizzare la realtà contemporanea palestinese.
Nel 1954, Kanafani, allora diciottenne e con una formazione francofona alle spalle, si era rotto una gamba e, durante i sei mesi di convalescenza, si mise a leggere opere della letteratura araba classica, perché voleva migliorare le proprie competenze nella lingua in cui stava scrivendo i suoi primi racconti e dipendere meno dalle innovazioni letterarie occidentali, di cui intendeva servirsi. L’influenza di queste letture giovanili dello scrittore non è chiara nei suoi testi, poiché stilisticamente sono improntati al modernismo, nato appunto in America Latina ed Europa.
In “Umm Saad”, l’autore è sempre a casa, dove la protagonista va a trovarlo; ogni volta parlano della guerra appena finita e delle gravi conseguenze di quella seconda sconfitta che sono riassunte in questo breve enunciato: “sfilavano colonne di nuovi esuli”. Oltre trecentomila palestinesi, che abitavano nei territori invasi dall’esercito israeliano nel ’67, furono infatti costretti a fuggire all’estero; quasi la metà di loro erano già profughi sin dal ’48.
Nell’anno in cui pubblicò questo romanzo, cioè il 1969, Kanafani fondò e iniziò a dirigere la rivista politico-culturale al-Hadaf (L’obiettivo), organo ufficiale del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, organizzazione marxista-leninista nata all’indomani della Naksa. A quel punto l’autore si mise a scrivere a ritmo frenetico, di giorno scriveva articoli nell’ufficio del settimanale, e di sera a casa opere letterarie.
Durante un’intervista radiofonica rilasciata poco prima di morire – e pubblicata su al-Hadaf nel 1973 -, Kanafani espresse la propria ammirazione per The Sound and the Fury, dichiarando di esserne stato molto influenzato, di avere sfruttato gli espedienti artistici di Faulkner per creare i suoi stessi romanzi, i quali – va precisato – sono tutti brevi. Lo scrittore palestinese cercò man mano nuove modalità per rielaborare, e non replicare, il modello faulkneriano in base alle proprie esigenze espressive legate anche al contesto storico-culturale a cui si riferiva in ogni testo. Dopo averlo rielaborato per scrivere “Uomini sotto il sole” e “Tutto ciò che vi resta” – intenzionalmente un omaggio all’arte di Faulkner -, nella fase post-Naksa lo semplificò in “Ritorno a Haifa” e poi cominciò ad abbinarlo in modo più evidente a elementi del patrimonio letterario arabo, come fece in “Umm Saad”, che forse rappresenta un altro punto di svolta nella produzione narrativa dell’autore.
Questa tendenza postmoderna a unire modernità e tradizione emerge infatti anche negli ultimi due romanzi di Kanafani, entrambi rimasti incompiuti e pubblicati postumi sulla rivista Shu’ūn filastiniyya (Affari palestinesi) nel settembre del 1972. L’influenza della poesia araba preislamica (V-VI secolo d.C.) si coglie, in “L’Innamorato” ; il titolo dell’opera è il soprannome dato dagli abitanti di un villaggio al protagonista, una sorta di bandito leggendario in grado di sfuggire alla legge, presentandosi con un nome falso diverso ogni volta che si nasconde in un posto nuovo; così ‘Abd al-Karìm diventa Qasim e poi Hasanayn. Il racconto è ambientato nelle aree rurali dell’Alta Galilea all’epoca del mandato britannico sulla Palestina. Il capitano Black insegue per tre anni il giovane protagonista, che in passato ha compiuto un crimine misterioso. Lo pseudonimo Qasim, come spiega Hilary Kilpatrick in un articolo pubblicato nel 1976 sul Journal of Arabic Literature, è probabilmente un riferimento al riformatore musulmano siriano ‘Izz al-Din al-Qassām (1882-1935), che, dopo gli studi all’Università al-Azhar del Cairo, divenne un sostenitore delle lotte anticolonialiste in Libia e poi nel Levante. Agli inizi degli anni ’30 viveva in Palestina, dove formò gruppi di partigiani palestinesi e organizzò attacchi contro obiettivi sionisti e britannici. Accusato di complicità nell’omicidio di un poliziotto inglese, fu ucciso durante una caccia all’uomo.
L’attivismo e l’uccisione di al-Qassām furono fattori scatenanti della Grande Rivolta del 1936-1939, analizzata proprio da Kanafani in un saggio del 1972 , in cui sottolinea che, nella Palestina mandataria, la lotta anti-colonialista era assolutamente indispensabile per la società palestinese, nell’ambito della quale, tuttavia, il nazionalismo stesso, guidato da “dirigenti reazionari feudo-clericali locali”, frenò lo sviluppo dei movimenti progressisti, sostenitori delle masse contadine e operaie che erano maggiormente coinvolte nella resistenza armata contro la colonizzazione sionista. Il protagonista del romanzo ama i cavalli, tra cui una puledra, Samra’; perciò viene soprannominato l’Innamorato. La celebrazione delle virtù di queste cavalcature eleganti, veloci e d’importanza vitale durante i viaggi nel deserto è frequente nella poesia preislamica, soprattutto nei poemi dei poeti definiti ṣa‘ālīk, “vagabondi”, espulsi dalle loro tribù di solito per avere commesso un crimine disonorevole. Pagine Esteri
In “L’Innamorato”, il protagonista vive sempre in compagnia di un cavallo, maschio o femmina che sia, l’animale condivide e rappresenta la voglia di libertà del giovane fuggiasco, la sua forza e imponenza fisica, la capacità di resistere, la vera amicizia di cui ha bisogno nella vita solitaria che conduce, essendo braccato o tradito da altri esseri umani. Lui riesce a fare cose prodigiose, come camminare a piedi nudi su un campo coperto dalla cenere di braci ardenti, lasciando a bocca aperta l’anziano Shaykh Salman, un latifondista che poi racconta quel fatto straordinario agli abitanti di al-Ghabasia. E così nasce la leggenda di Qasim, che dovrà fuggire a Tarshiha, dove diventa Hasanayn e sarà assunto come bracciante dal venerando Hagg Abbas, il quale vorrebbe anche fargli sposare Zaynab, che viveva a casa sua sin da quand’era bambina. La ragazza, rimasta orfana del padre, un contadino morto combattendo durante la rivolta, e allontanata dalla madre, una cameriera originaria di Harwan, in Siria, svanita nel nulla dopo essere stata arrestata dai militari inglesi, si innamora a prima vista del giovane protagonista che è attratto da lei. Un altro mistero del passato sembra legare Zaynab a Hasanayn, la cui nascente storia d’amore non è subito incoronata dal matrimonio, come sperava Hagg Abbas, un uomo che sgrana il rosario in continuazione e di fatto vuole semplicemente disfarsi delle proprie responsabilità verso la figlia di genitori di umili condizioni sociali. Soltanto il capitano Black conosce la vera identità del protagonista, catturarlo è l’ossessione della sua vita e in effetti riesce ad arrestarlo per poi rinchiuderlo nella prigione di Acri. E così ‘Abd al-Karìm diventa il Detenuto numero 362.
Ma non è questa la parte conclusiva del racconto che si snoda in “L’Innamorato”, romanzo storico e d’avventura insieme, pieno di colpi di scena e di suspense, costruito magnificamente dall’autore tramite un susseguirsi di analessi. Kanafani ancora una volta racconta la storia del popolo palestinese, affrontando temi di valenza universale, come l’amicizia, l’amore per la natura, per la vita e la libertà, nonché quello sbocciato tra due giovani, vittime del classismo; Zaynab, inoltre, è discriminata anche perché è una donna.
L’ingiustizia che regnava nella Palestina mandataria è denunciata in questo romanzo, in cui la voce del protagonista si alterna man mano a quella di ognuno dei suoi antagonisti, potenti e autoritari, e a quella di un narratore esterno. Tecnicamente, Kanafani rielaborò e semplificò “Tutto ciò che vi resta”, per scrivere “L’Innamorato”; le linee narrative che compongono la trama del racconto frammentato sono infatti più distinguibili in quest’ultimo testo di facile lettura, suggestivo per la poeticità – non lirismo – del linguaggio, per le descrizioni dei paesaggi e per il filo sottile d’ironia da cui è percorsa l’intera narrazione, che si sviluppa quasi come un dialogo tra i monologhi dei personaggi. L’autore scriveva anche opere teatrali forse influenzate dall’assurdismo, ma più probabilmente soltanto espressive del suo stesso senso dell’assurdo. Kanafani non idealizzava il suo popolo; in “L’Innamorato”, infatti, condanna e ridicolizza i latifondisti palestinesi tanto quanto i rappresentanti del mandato britannico. Leggendo questo testo purtroppo rimasto incompiuto, si ha l’impressione che l’autore lo stesse scrivendo per spiegare le cause della Nakba. Il fallimento della Grande Rivolta, guidata da dirigenti palestinesi reazionari e duramente repressa dai militari inglesi e da miliziani sionisti, era infatti stato il preludio della Catastrofe del ’48. Il villaggio di al-Ghabasia, menzionato in “L’Innamorato” – e anche in “Umm Saad” -, è uno dei tanti altri che furono distrutti dopo la fondazione d’Israele. Il protagonista del racconto e il padre di Zaynab, invece, rappresentano chiaramente i numerosi contadini che combatterono nella resistenza palestinese ai tempi del mandato.
L’ultimo romanzo di Kanafani è “Il sordo e il cieco” , che per contenuto e forma è d’una bellezza sorprendente, perché è tragicomico, ma la satira sociale è attenuata dalla poeticità del linguaggio e delle immagini evocate da diversi segmenti testuali. L’autore lo scrisse poco prima di morire dando nuovamente libero sfogo alla propria creatività, abbinando lo sperimentalismo alla trattazione di nuove tematiche, come la religiosità popolare musulmana che ha talune affinità con il cristianesimo. Nell’Islam la parola wālī, “amico di Dio”, è usata per indicare un uomo pio ritenuto in grado di compiere miracoli, quindi è paragonabile a un santo ed è spesso così definito. Il tema principale del romanzo è, però, la solidarietà tra i più sfortunati in una società di per sé messa male. I due protagonisti, Amer, un cieco, e Abu Qays, un sordo, entrambi profughi palestinesi, si incontrano per caso di notte in campagna davanti alla tomba di ‘Abd al-Ati, un santo la cui testa è nascosta tra i rami di un albero. È molto famoso a livello popolare e perfino i giornali parlano dei suoi miracoli. Dopo avere supplicato invano il santo di restituire, rispettivamente la vista all’uno e l’udito all’altro, i due pellegrini ormai sfiduciati si organizzano per sciogliere il mistero che ruota intorno alla figura di ‘Abd al-Ati. Amer sale sull’albero con l’aiuto di Abu Qays che lo regge sulle spalle e gli dice come muoversi. Il cieco sfrutta il tatto infallibile delle proprie dita per scoprire alla fine che la testa del santo in realtà non è altro che un enorme fungo.
Alla delusione si aggiunge la rabbia per essere stati ingannati e la voglia di raccontare la verità per evitare ad altri di subire lo stesso inganno. Ma, quando tornano in città, Amer e Abu Qays, rimangono inascoltati, perché quella credenza è troppo forte, la gente infelice vuole credere nei miracoli. Allora i due protagonisti decidono di distruggere la tomba del santo e il suo albero. Abu Qays va a trovare Amer nella panetteria dove lavora e, parlando con lui, scopre di essere originario dello stesso villaggio, Tirat Haifa, e da lì nasce una grande amicizia. Un giovane garzone sente i loro discorsi, si indigna e li minaccia, dicendo che li avrebbe denunciati alla polizia, se avessero cercato di distruggere la tomba del santo e il suo albero. I due amici, invece, realizzano il loro piano; poi affrontano altri problemi che, però, sembrano destinati a risolversi. È un gran peccato che questo testo sia rimasto incompiuto; è più che altro un romanzo filosofico, i monologhi hanno un sapore antico o atemporale che, accostato alle tecniche moderniste, diventa particolarmente affascinante. La storia è raccontata in prima persona da ognuno dei due protagonisti, le cui voci quindi si alternano; il cieco spiega cosa significhi la cecità, e il sordo la sordità; si compensano l’un l’altro sia nelle azioni sia nelle riflessioni al punto da sembrare una sola persona. È un bellissimo modo per dire che l’unione fa la forza. L’unico toponimo menzionato nel testo è Tirat Haifa, un altro villaggio palestinese distrutto durante la Nakba. Molti degli abitanti si rifugiarono in Giordania, dove quindi potrebbe essere ambientato il racconto.
In “Il cieco e il sordo”, Kanafani denuncia certe credenze, quasi delle superstizioni, considerate come una fonte di guadagno da coloro che sfruttano l’ingenuità e la disperazione di chi soffre per una disabilità o un altro problema incurabile. I pellegrinaggi alle tombe dei santi, che molti infelici credono in grado di fare miracoli, sono infatti perlopiù organizzati a mero scopo di lucro. L’autore vuole distruggere con il raziocinio l’inganno, non la speranza di poter cambiare la situazione; la solidarietà tra il cieco e il sordo, che di per sé è segno d’intelligenza, li rende rivoluzionari. I dialoghi tra i personaggi del racconto sono spesso divertenti, un misto di comicità e saggezza popolare, che attenua la tristezza delle tribolazioni e delusioni vissute dai due protagonisti e dalle loro famiglie, soprattutto le madri, sin da quand’erano bambini per colpa di sfruttatori delle sofferenze altrui. Ancora una volta l’autore descrive la situazione drammatica del suo popolo, e specialmente dei profughi palestinesi, affrontando temi che riguardano qualsiasi società per suggerire la necessità di rispettare la vita, la libertà e la dignità della persona.
La volontà di usare l’arte verbale per esprimere un messaggio umanista e di farlo tramite la concentrazione sull’individuo e lo sperimentalismo artistico sono tratti comuni di Kanafani e Faulkner che, in The Sound and the Fury, denuncia ogni forma di discriminazione, lancia un j’accuse a 360 gradi, accompagnato però da un senso di speranza nella salvezza dell’umanità. È per l’umanismo e l’avanguardismo, per la coerenza di contenuto e forma che questo testo, nato negli anni ’20 nel profondo Sud degli Stati Uniti, ispirò e probabilmente continuerà a ispirare autori di tutto il mondo. Soltanto tra il 1967 e il 1975, romanzi arabi famosi improntati al modello faulkneriano furono pubblicati dagli egiziani Nagib Mahfuz (1911-2006) – futuro vincitore del Nobel per la Letteratura 1988 -, Sulayman Fayyad (1929-2015) e Yahya al-Taher Abdallah (1938-1981); e dal saudita ‘Abd al-Rahman Munif (1933-2004).
Kanafani fu in tal senso l’anticipatore di tutti loro e anche il più avanguardista. Lo scrittore palestinese aveva capacità tecniche straordinarie; si dice sempre che, se non fosse morto ad appena trentasei anni, avrebbe sicuramente creato ancora molte altre opere belle e originali. Sì, perché avrebbe continuato a sperimentare, a cercare di dire una cosa come nessun altro l’avesse mai detta, per sorprendere un pubblico indefinito, descrivendo le sofferenze, le debolezze e gli errori del suo popolo oppresso, ma anche la forza, la speranza, la gioia di vivere da cui era ed è animato. È perciò che Kanafani è tuttora amato da un’infinità di palestinesi e di persone d’ogni parte del mondo. E continua a ispirare. Pagine Esteri
LA PRIMA E LA SECONDA PARTE DELL’ARTICOLO
CULTURA. William Faulkner e i romanzi dello scrittore palestinese Ghassan Kanafani (1a parte)
William Faulkner e i romanzi dello scrittore palestinese Ghassan Kanafani (2a parte)
*Patrizia Zanelli insegna Lingua e Letteratura Araba all’Università Ca’ Foscari di Venezia. È socia dell’EURAMAL (European Association for Modern Arabic Literature). Ha scritto L’arabo colloquiale egiziano (Cafoscarina, 2016); ed è coautrice con Paolo Branca e Barbara De Poli di Il sorriso della mezzaluna: satira, ironia e umorismo nella cultura araba (Carocci, 2011). Ha tradotto diverse opere letterarie, tra cui il romanzo Memorie di una gallina (Istituto per l’Oriente “C.A. Nallino”, 2021) dello scrittore palestinese Isḥāq Mūsà al-Ḥusaynī.