di Michele Giorgio
Pagine Esteri, 11 aprile 2023 – «Questa dichiarazione, che siamo qui e stiamo marciando verso il futuro, è una dichiarazione chiara. Spero che l’intero Stato di Israele lo capisca». Parla come sempre senza peli sulla lingua il ministro israeliano della sicurezza Itamar Ben Gvir. Ha ragione, con la marcia dei ventimila, fra cui sette ministri e 20 deputati, ieri verso Evyatar, sul monte Sabih, nel cuore della Cisgiordania palestinese occupata, l’estrema destra religiosa non ha solo chiesto il riconoscimento di quell’avamposto coloniale – evacuato nel 2021 e che attende di essere «legalizzato» – contro cui si batte da anni, pagando un alto prezzo di sangue, la popolazione della cittadina palestinese di Beita (Nablus). La destra estremista e suprematista ha mandato un segnale inequivocabile al premier Netanyahu: comandiamo noi, siamo noi che decidiamo la politica del governo. Non che Netanyahu sia moderato, le sue politiche, anche interne, come la riforma giudiziaria, esprimono bene la sua linea radicale. Ma il primo ministro deve fare i conti con l’emorragia di consensi che vede il suo partito, il Likud, in caduta libera nei sondaggi e forse medita un approccio più morbido. Eppure non può e, soprattutto, non vuole rinunciare a Ben Gvir che detta il ritmo dell’azione di governo e al ministro delle finanze Bezalel Smotrich che i palestinesi non li riconosce neppure come popolo. Si aggrappa a loro per sopravvivere politicamente e risolvere i suoi guai con la giustizia.
Per consentire la marcia verso Evyatar, in una delle zone di maggiore tensione in Cisgiordania, l’esercito ha dispiegato un battaglione di mille soldati a protezione dei coloni, ministri e deputati. Il decesso per le gravi ferite subite, di Lea Lucy Dee, 48 anni, la madre delle due giovani colone uccise venerdì in un agguato palestinese allo svincolo di Hamra, nella valle del Giordano, ha accresciuto l’urgenza dei coloni di ottenere subito da Netanyahu il riconoscimento definitivo dell’avamposto a ridosso di Beita. Una leader dei coloni, Daniela Weiss, si è scagliata contro il premier e ha intimato al governo «di liberarsi una volta per tutte dai diktat che giungono dagli Stati uniti e dall’Europa» finalizzati, secondo lei, a congelare la colonizzazione. Simili le dichiarazioni di altri coloni. Gli abitanti di Beita non si sono tirati indietro e hanno protestato, come fanno da anni, contro Evyatar: 50 case mobili e caravan su terra palestinese nel monte Sabih. «Andate via, questa è la nostra terra» hanno urlato assieme a «Dio è grande». Dei ragazzi hanno lanciato sassi. E quando hanno provato ad avvicinarsi al lungo corteo dei coloni, sono arrivate a tutta velocità le jeep dell’esercito attrezzate con tubi di lancio per i candelotti lacrimogeni. Tiri incessanti, accompagnati da spari di proiettili di gomma. Una nuvola di fumo denso e bianco ha avvolto quelli che protestavano. Poi è scattata la caccia dei soldati ai palestinesi che scappavano nei campi, tra gli ulivi piantati dai loro genitori, dai loro nonni e sempre più minacciati dall’espansione incessante della colonizzazione.
Alla fine di questa ennesima giornata di tensione e sangue, i feriti palestinesi soccorsi dalla Mezzaluna rossa sono stati 191 in gran parte intossicati dai lacrimogeni ma anche 17 da proiettili di gomma, di cui tre sono stati portati all’ospedale. Giornalisti della troupe di Al Araby Press sono stati investiti da una pioggia di lacrimogeni. Un altro reporter, Mahmoud Fawzy, è stato ferito a una gamba da un proiettile di gomma. Al bilancio di Beita si è aggiunto quello giunto dal campo profughi di Aqbet Jaber, all’ingresso della città di Gerico. Un ragazzino, 15 anni, Mohamed Balhan, è stato ucciso quando forze israeliane hanno fatto irruzione nel campo per effettuare degli arresti. Almeno altre tre persone sono rimaste ferite, due da proiettili veri. Almeno 96 palestinesi (tra cui 17 minori e una donna) e 19 israeliani sono stati uccisi dall’inizio dell’anno coinciso con l’insediamento al potere del governo Netanyahu.
Da venerdì i coloni e la destra estrema invocano l’invasione o la rioccupazione per settimane o mesi, di alcune città autonome palestinesi in Cisgiordania. In particolare Jenin, roccaforte storica della militanza armata, e Nablus dove è stata ritrovata l’automobile usata dai responsabili dell’agguato ad Hamra alle tre donne israeliane uccise. L’opzione militare si è fatta più concreta in queste ultime settimane considerando il sostegno massiccio a queste invocazioni e l’ideologia che anima il governo Netanyahu. Qualche analista avverte che il crollo, nei sondaggi, del Likud di Netanyahu, potrebbe spingere il premier a tentare di recuperare consensi attraverso la forza militare. L’ultimo sondaggio svolto dalla tv Canale 13 rivela che il 71 per cento degli israeliani giudica negativamente il comportamento mantenuto dal premier Benyamin Netanyahu nei primi 100 giorni del suo governo. Se Israele andasse ora al voto il Likud otterrebbe 20 seggi rispetto ai 32 che ha avuto a novembre. In testa è il partito dell’ex capo di stato maggiore Benny Gantz, al secondo posto c’è Yesh Atid dell’ex premier Lapid con 21 seggi. Risultati che sono la conseguenza della contestata riforma giudiziaria, quindi non legati alle politiche di Netanyahu nei confronti dei palestinesi o sulla Spianata delle moschee di Gerusalemme. Pagine Esteri
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