di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 15 maggio 2023 – Ha vinto a Istanbul, Ankara e Izmir, è stato il più votato in tutte le regioni della Tracia, dell’Egeo e del Mediterraneo e in quelle curde, ma alla fine Kemal Kılıçdaroğlu non ce l’ha fatta a battere il “sultano” Erdogan.
Nonostante i sondaggi favorevoli della vigilia e un’alleanza composta da praticamente tutte le opposizioni – dal centrodestra nazionalista del Buon Partito passando per il suo Partito Repubblicano Popolare (Chp) di centrosinistra fino al Partito della Sinistra Verde (ombrello elettorale dei curdi dell’Hdp, partito che rischia la messa fuori legge), senza dimenticare alcune formazioni guidate da ex stretti collaboratori dell’attuale presidente – Kılıçdaroğlu si è piazzato in seconda posizione con il 44,9% dei voti.
Neanche il ritiro, pochi giorni prima delle elezioni, del candidato indipendente di centrosinistra Muharrem Ince, ex leader del Chp e poi fondatore del Partito della Patria, è riuscito a dare a Kılıçdaroğlu la spinta necessaria a superare il padre-padrone della politica turca. E questo nonostante la lunghissima crisi economica che ha impoverito milioni di persone, l’inflazione galoppante, e la tragedia del terremoto che lo scorso 6 febbraio ha devastato 11 province turche, uccidendo più di 50 mila persone e creando milioni di sfollati (molti dei quali non hanno potuto votare ieri), le cui conseguenze sono state amplificate dalla speculazione edilizia e dal mancato rispetto, da parte delle autorità, delle misure di prevenzione.
Erdogan ha vinto, anche nettamente, in molte delle zone terremotate, ed anche tra gli emigrati in Germania, in Austria, in Francia, in Belgio e in Olanda.
Comunque per la prima volta dopo più di venti anni di potere, Recep Tayyip Erdogan sarà costretto ad andare al ballottaggio con il rappresentante delle opposizioni, il 28 maggio.
La già lunga e aspra campagna elettorale avrà quindi una coda di altre due settimane, che si preannuncia tesissima. Già ieri, durante il lungo e travagliato spoglio delle schede elettorali, i due schieramenti si sono scambiati pesanti accuse di brogli e manipolazioni. Irregolarità, anche gravi, sono state segnalate sia dai partiti di opposizione sia dagli osservatori dell’OSCE sia durante le operazioni di voto sia durante il conteggio: schede già votate consegnate agli elettori, elettori che non hanno potuto votare, risultati di intere sezioni trascritti erroneamente…
Nelle prime ore sembrava che il leader del Partito Giustizia e Sviluppo dovesse prevalere con quasi il 20% di distacco sul principale sfidante, ma poi il conteggio dei voti provenienti da Istanbul e Ankara ha accorciato sempre più il suo vantaggio. Poi, in serata, la quota di consensi incassata dall’attuale presidente è scesa sotto il 50%, fino a fissarsi al 49,5% che lo obbliga al secondo turno.
Uno smacco per il “sultano”, che però tra due settimane partirà da 2,5 milioni di voti di vantaggio sullo sfidante, e potrà probabilmente attingere almeno a parte di quel 5,2% raggranellato da Sinan Oğan, leader di uno schieramento nazionalista di estrema destra indipendente.
Alle precedenti elezioni presidenziali del 2018, Erdogan era passato al primo turno con il 52,6%, mentre Muharren Ince – che all’epoca guidava i socialdemocratici kemalisti del Partito Repubblicano Popolare – si era fermato al 30,6%. In terza posizione era arrivato – nonostante fosse in carcere per motivi politici – il curdo Selahattin Demirtaş per il Partito Democratico dei Popoli con l’8,4%. Meral Akşener, ex ministra dell’Interno che nel 2017 aveva abbandonato il braccio politico dei Lupi grigi (Mhp) per fondare il Buon Partito insieme ad alcuni transfughi di destra del Partito Repubblicano, si era piazzata al quarto posto con il 7,3%.
I quasi 56 milioni di elettori che si sono recati alle urne – ieri il tasso di affluenza è stato quasi dell’89%, superiore di due punti e mezzo rispetto al 2018 – hanno espresso la propria preferenza anche per la composizione della Grande Assemblea Nazionale Turca, composta da 600 deputati.
Anche in questo caso lo schieramento di Erdogan – l’Alleanza della Repubblica – si è imposto sfiorando la maggioranza assoluta dei voti, ma fermandosi al 49,4% e ottenendo 322 deputati; nel 2018 aveva preso invece il 53,6% e 344 rappresentanti, ma Erdogan potrà comunque controllare il parlamento abbastanza agevolmente anche se non potrà intervenire con riforme della Costituzione che richiedono una maggioranza più ampia.
L’AKP ha guadagnato il 35,6% e 267 rappresentanti (alla tornata precedente il 42,56 e 295 deputati) mentre il Partito del Movimento Nazionalista (Mhp), formazione nazionalista di estrema destra legata ai Lupi Grigi, si è attestata al 10,1 con 50 eletti (nel 2018 aveva preso l’11,1 e 49 deputati). Il Nuovo Partito del Benessere, formazione fondamentalista religiosa di destra, ha conquistato 5 seggi.
L’Alleanza della Nazione rappresentata invece dal 74enne economista Kılıçdaroğlu ha incassato invece il 35% e 213 deputati. Al suo interno, il Chp ha totalizzato il 25,3 e 169 eletti (contro il 22,6 e 146 deputati del 2018) e il Buon Partito ha ottenuto il 9,7% e 44 rappresentanti (contro il 10 e 43 eletti del 2018). Le altre 4 formazioni incluse nella coalizione non hanno ottenuto invece rappresentanza parlamentare.
L’Alleanza del Lavoro e della Libertà ha invece ottenuto il 10,54% e 65 rappresentanti divisi tra il Partito della Sinistra Verde che ha preso l’8,8% e 61 eletti e il Partito dei Lavoratori che è riuscito a entrare in parlamento con 4 eletti nonostante l’1,73% conquistato. Alle scorse parlamentari il Partito Democratico dei Popoli aveva ottenuto l’11,7% e 67 deputati.
Nessun eletto ha conquistato la coalizione di Sinan Oğan, che nel voto per le legislative si è fermata al 2,4% e neanche per la coalizione dell’estrema sinistra – che includeva il Partito Comunista Turco – che ha raggiunto appena lo 0,3% dei consensi.
Come detto, la campagna elettorale è stata molto tesa e le opposizioni l’hanno dovuta condurre in una condizione di fortissimo svantaggio. Le tv pubbliche hanno concesso a Erdogan dieci volte il tempo accordato al leader delle opposizioni, e vari candidati dissidenti hanno dovuto subire aggressioni da parte di estremisti nazionalisti e fanatici religiosi riconducibili allo schieramento governativo. Sia Kilicdaroglu che il sindaco di Istanbul e possibile vicepresidente, Ekrem Imamoglu, sono stati aggrediti pubblicamente a pochi giorni dal voto.
Erdogan ha lanciato pesanti accuse contro l’opposizione, contribuendo a esacerbare gli animi, accusando Kılıçdaroğlu di essere sostenuto dai “terroristi” del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) e di voler mettere quindi a rischio l’integrità territoriale della Turchia. Nei suoi interventi elettorali il “sultano” ha tentato di galvanizzare e fomentare i settori tradizionalisti e religiosi della società turca, additando le opposizioni come un pericolo per i valori conservatori.
Inoltre Erdogan si è proposto come mediatore nella guerra civile in atto in Sudan ed ha annuciato la scoperta di “ingenti riserve di petrolio” nel sudest del paese. All’inizio della scorsa settimana, poi, ha annunciato l’aumento dei salari del 45% per circa 700 mila impiegati nel settore pubblico.
Come se non bastasse, alcune settimane fa polizia e magistratura hanno inferto un altro duro colpo alle organizzazioni della sinistra curda. Una maxi retata ha infatti condotto a 126 arresti nelle regioni del sud e dell’est del paese; in manette sono finiti non solo giornalisti e militanti politici, ma anche 25 avvocati e una decina di artisti. L’accusa è sempre la stessa: collaborazione con il Partito dei Lavoratori del Kurdistan.
In soccorso di Erdogan, poi, sono andate negli ultimi mesi le petromonarchie del Golfo. Mentre a marzo l’Arabia Saudita ha iniettato liquidità nella Banca centrale turca per 5 miliardi di dollari, gli Emirati Arabi Uniti hanno firmato un accordo con la Turchia per aumentare il volume degli scambi commerciali tra i due Paesi portandolo a 40 miliardi di dollari entro il 2028.
Dopo la diffusione di un video con contenuti sessuali che comprometteva il candidato Muharrem Ince costringendolo al ritiro (risultato poi falso) il candidato kemalista Kılıçdaroğlu (che comunque afferma di voler preservare le buone relazioni con Mosca e con Pechino, riportando però la Turchia nell’alveo della Nato) ha esplicitamente accusato la Russia di ingerenze nella campagna elettorale allo scopo di favorire Erdogan. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.