(Foto: Gerusalemme, alcune delle oltre 200 delegate palestinesi del primo Congresso delle Donne Arabe (1929) che organizzano una spettacolare manifestazione a bordo di una serie di automobili per farsi portare in giro per la città a consegnare le loro risoluzioni sulla causa nazionale a vari consolati stranieri, ovvero per chiedere l’indipendenza della Palestina).
di Patrizia Zanelli*
Pagine Esteri, 9 giugno 2023. In The Nation and Its “New” Women [1], Ellen Fleischmann nota che i discorsi femministi, legati al triplice concetto di “modernità, nazione e autodeterminazione nazionale”, formulati in Egitto nella seconda metà dell’Ottocento, nell’ambito del movimento arabo di modernizzazione culturale [2], di solito definito Nahḍa (Rinascita), giunsero presto in Palestina, dove si intrecciarono con gli importanti cambiamenti sociali che stavano già avvenendo allora nel paese. A cavallo tra il XIX e il XX secolo, infatti, si manifestò nella società palestinese una tendenza a liberarsi dalle tradizioni oscurantiste, dovuta all’influenza delle idee di riformatori musulmani modernisti egiziani, come Rifa‘a al-Tahtawi (1801-1873), Muhammad Abduh (1849-1905) e il controverso Qasim Amin (1863-1908), autore di “La liberazione della donna” (1898) e di “La nuova donna” (1900), giudicato o come un rivoluzionario, o come un paternalista emulatore degli stereotipi sulle società islamiche, inventati dal colonizzatore europeo.
Fleischmann confuta questi preconcetti occidentali, ispirandosi alla critica dell’orientalismo formulata da Edward Said (1935-2003) nel famoso saggio del 1978, divenuto un testo fondamentale per gli studi culturali postcoloniali [3]. L’accademica esamina l’evoluzione del movimento femminile palestinese nella Palestina mandataria (1920-1948), spiegando l’inestricabile legame tra femminismo e nazionalismo emerso nel paese, dapprima sotto dominazione ottomana, invaso dall’Inghilterra durante la I Guerra Mondiale a partire da Gaza e poi interamente occupato dalle truppe inglesi con la presa di Gerusalemme l’11 dicembre 1917, e dove le rivendicazioni femministe apparentemente rimasero in secondo piano rispetto alla causa nazionale.
Consapevoli che il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione era una necessità urgente per la loro nazione, le donne palestinesi dell’alta borghesia e del ceto medio dei centri urbani vollero subito affermare il proprio patriottismo, e comunicarlo tramite la stampa, lottando contemporaneamente contro il patriarcato, il mandato britannico e la crescente colonizzazione sionista, iniziata nel 1882 e favorita esplicitamente da Londra nella Dichiarazione Balfour (2 novembre 1917). Dicendo e dimostrando con i fatti di essere patriote, riuscirono a partecipare alla vita politica da cui inizialmente gli uomini delle loro famiglie le volevano escludere. Alcune palestinesi avevano in realtà denunciato pubblicamente l’ingiustizia e la pericolosità della Dichiarazione Balfour, appena era stata rilasciata, avendo capito che l’ambiguità terminologica del testo inglese era chiaramente volta a occultare/negare l’esistenza del loro popolo, fungendo da supporto alle narrazioni mistificanti inventate dai padri del sionismo per avanzare l’idea di trasformare la Palestina in uno stato esclusivamente ebraico. Le contadine del villaggio di Affula, vicino a Nazareth, stavano addirittura partecipando insieme agli uomini alla resistenza contro la colonizzazione sionista della loro terra sin dal 1884.
I nazionalisti modernisti palestinesi chiedevano alle donne di essere moderne e realizzare una Nahḍa femminile per il bene collettivo della nazione, ma di rimandare le rivendicazioni femministe riguardanti la sfera personale a dopo l’ottenimento dell’indipendenza della Palestina, onde evitare problemi con i conservatori loro connazionali in un momento così cruciale per il futuro della loro patria. Questa richiesta era ispirata alle controverse teorie di Qasim Amin, secondo il quale “la nuova donna” egiziana serviva a dimostrare alla comunità internazionale che la sua era una nazione progredita a cui andava perciò riconosciuto il diritto all’autodeterminazione. In seguito all’insurrezione antibritannica del 1919, inoltre, i nazionalisti modernisti egiziani del Partito Wafd stavano ugualmente chiedendo alle attiviste del Comitato delle Donne Wafdiste, formato nel 1920 e presieduto da Hoda Shaarawi (1879-1947), di rimandare le rivendicazioni femministe riguardanti la sfera personale, come l’abbandono del velo, a dopo l’indipendenza dell’Egitto (poi formalmente ottenuta in base a una dichiarazione unilaterale rilasciata da Londra nel 1922).
Le élite politiche e intellettuali palestinesi stavano dispiegando tutti gli sforzi possibili per liberare subito la propria patria dal giogo britannico, sapendo che l’Inghilterra aveva stretto un’alleanza con il sionismo internazionale, movimento nazionalista secolare fondato nell’Europa centrale, il cui scopo non era di costituire “un focolare domestico nazionale per il popolo ebraico” (cit. Balfour), in Palestina, bensì di trasformarla interamente appunto in uno Stato-nazione ebraico, tramite una sostituzione etnica volta a cancellare l’esistenza del loro stesso popolo palestinese dalla propria terra e dalla memoria storica dell’umanità.
Durante una visita effettuata in Palestina nel 1917, il magnate e arabista americano Charles Crane (1858-1939) aveva personalmente constatato la situazione pericolosa provocata nel paese dal lancio del progetto sionista nel 1897. Descrisse quella realtà allarmante a più persone, tra cui l’amico palestinese George Antonius (1891-1942), autore del saggio The Arab Awakening, del 1919 [4], e poi nel 1925 proprio a Hoda Shaarawi, divenuta presidente dell’Unione Femminista Egiziana (UFE) e famosa a livello panarabo e internazionale per essersi liberata del velo, nel 1923. Crane la incontrò a New York, e ci tenne ad avvisarla della pericolosità del progetto sionista che lei non aveva ancora colto; le spiegò che i palestinesi rischiavano concretamente di essere espulsi dalla loro stessa terra. Le parlò anche della relazione che lui e il teologo e filosofo americano Henry Churchill King (1858-1934) avevano scritto, mettendo in dubbio l’opportunità di istituire uno stato ebraico in Palestina, anzi raccomandando vivamente alla Lega delle Nazioni di respingere tale ipotesi pericolosa per gli assetti geopolitici del Levante. Shaarawi rimase turbata da quel piano inquietante e dai rischi che avrebbe comportato per il popolo palestinese, ma non riusciva a capacitarsene. Sapeva che la coesistenza con gli ebrei era sempre stata pacifica nel mondo arabo-islamico; quell’ipotesi era inconcepibile per lei. Pensò che la Palestina fosse soltanto uno dei tanti paesi dell’emisfero orientale colonizzati dalle potenze occidentali e che si sarebbero presto liberati. Tornata al Cairo, infatti, continuò a concentrarsi sui problemi dell’Egitto, sotto occupazione britannica, a partecipare al movimento pacifista internazionale e a contrastare il colonialismo in generale. Soltanto dopo qualche anno Shaarawi si renderà conto della tragica realtà palestinese e sarà un trauma per lei [5].
Intanto, i dirigenti palestinesi di certo sapevano che, nel 1922, la Lega delle Nazioni aveva negato loro il diritto all’autodeterminazione nazionale e assegnato all’Inghilterra i mandati su Palestina, Transgiordania e Iraq, e alla Francia quelli su Libano e Siria, formalmente in base alle raccomandazioni contenute proprio nella relazione redatta dalla commissione King-Crane (1919) per il governo degli Stati Uniti, ma di fatto applicando l’accordo Sykes-Picot (1915-1916), siglato segretamente dalle stesse due potenze coloniali europee per spartirsi i territori dell’Impero Ottomano alla fine della I Guerra Mondiale. Oppositori del piano franco-britannico erano il Presidente americano Thomas Woodrow Wilson (1856-1924) e Re Faysal I (1885-1933) dell’allora Regno Arabo della Grande Siria.
È, però, chiaro che la consapevolezza anticolonialista accomunava e univa tutte le classi sociali della società palestinese ben prima della Dichiarazione Balfour, una conferma e ingiustizia aggravante della situazione realmente critica in Palestina. Le donne sapevano tanto quanto gli uomini che la lotta per la liberazione nazionale era d’importanza vitale nel vero senso del termine, perché serviva alla loro stessa sopravvivenza come popolo, minacciata concretamente dal sionismo e dall’insidiosa ambiguità politica di Londra.
In Palestina era nato così un femminismo patriottico abbracciato tuttora dalle figlie e nipoti delle palestinesi sopravvissute alla Nakba oppure uccise durante quell’evento catastrofico o da paramilitari sionisti nei sei mesi precedenti la fondazione dello Stato d’Israele, il 14 maggio 1948, o da militari dell’esercito israeliano nella lunga fase successiva della tragedia.
D’altro canto, Fleischmann analizza necessariamente anche la Nahḍa palestinese il cui inizio, come in tutti gli altri casi, precede l’incontro traumatico con l’Europa colonialista, avvenuto nel mondo arabo nell’Ottocento; i germogli della rinascita risalgono di fatto al Settecento.
In Palestine Across Millennia [6], Nur Masalha rileva, infatti, l’inclinazione modernizzante e indipendentista di Zahir al-Umar al-Zaydani (1689-1775) che, nel 1748, trasformò la Palestina settentrionale in un’entità politica semi-indipendente dell’Impero Ottomano. Da lì a poco lo stesso governatore o viceré, che godeva del sostegno popolare, riuscì a prendere il potere nell’intero paese, rendendolo un proto-stato, e dove adottò una politica della tolleranza e dell’inclusione; consolidò la propria autorità, garantendo la collaborazione tra contadini, beduini e mercanti, e mantenendo la convivenza pacifica tra la maggioranza musulmana della popolazione e le minoranze cristiane ed ebraiche. Creò così le condizioni propizie per lanciare la crescita economica della Palestina, aumentando in particolare la produzione di cotone e olio d’oliva da esportare in Europa; e per collegarsi all’economia di mercato europea e specialmente al capitalismo industriale inglese, fece ricostruire le antiche città portuali lungo la costa palestinese del Mediterraneo.
Masalha spiega che al-Umar aveva le capacità di uno statista e fu il padre delle modernità palestinesi; avviò lo sviluppo moderno di Acri – la sua capitale -, di Giaffa e Haifa, e, quindi, la nascita di varie nuove strutture e attività nei centri urbani, tra cui Nazareth. Benché fosse meno indipendente dalla Sublime Porta, il suo successore Ahmad al-Jazzar Pascià (1720-1804) continuò la modernizzazione e l’urbanizzazione della Palestina, dove si svilupparono ovunque sia le città che i villaggi. Novità importanti nel campo dell’istruzione avvennero soprattutto nella seconda metà dell’Ottocento, quando Gerusalemme che, con il declino di Acri aveva già riacquisito il suo status tradizionale di capitale del paese, fu ampliata e rinnovata, divenendo il centro principale della Nahḍa palestinese. Dunque, sottolinea Masalha, la modernità culturale della Palestina, oltre a essere la continuazione di una storia millenaria ricca di rivoluzioni educative, si deve anzitutto alle spinte innovatrici e alle esperienze di autogoverno locali, e non tanto a influenze europee.
Fleischmann esamina la Nahḍa palestinese in una prospettiva femminista, confutando il pregiudizio imperialista occidentale sulla “passività” delle società arabo-islamiche, contrapposta all’immagine di un Occidente intrinsecamente dinamico portatore di una civiltà superiore in un Oriente arretrato, da conquistare e civilizzare per “salvare” le donne orientali dalla prigionia dell’harem e del velo, due elementi tipici della vita delle famiglie appartenenti ai ceti medio-alti e alle tre fedi monoteiste. Questo femminismo orientalistico di fatto opprime le donne arabe sul piano fisico, psicologico e culturale; è etnicista e aggressivo; è suprematismo bianco sessista. Le contadine, che non portavano il velo, perché incompatibile con il lavoro nei campi, e le nomadi dedite alla pastorizia, che lo indossavano per condurre al pascolo il gregge in mezzo al deserto, erano le principali vittime del sessismo, della lussuria e della violenza degli uomini occidentali presenti nell’Oriente misterioso. I sedicenti civilizzatori cercavano, inoltre, di umiliare gli arabi “tiranni”, accusandoli di essere colpevoli dell’arretratezza della condizione femminile nei loro paesi arretrati che, perciò, andavano colonizzati, secondo le mistificanti narrazioni eurocentriche del colonialismo.
La Palestina era un paese normale, con tanto di contraddizioni interne, incluse le discriminazioni di genere; la società palestinese era pacifica ma divisa da forti sperequazioni socio-economiche. Le relazioni tra le persone di entrambi i sessi erano infatti comunque segnate da divisioni classiste e claniste, cioè tra le grandi famiglie di notabili tra cui coloro che vantavano una discendenza dal Profeta Muhammad, definiti “nobili” (ashrāf), e costituivano l’aristocrazia urbana del mondo arabo. Come spiega Ilan Pappé [7], il casato aristocratico degli al-Husayni di Gerusalemme svolse un ruolo determinante nell’ambito della vita politica, economica e delle istituzioni musulmane della Palestina, dal ‘700 fino al 1948. Il filantropismo, tipico della Nahḍa femminile, è comunque insito alle tre fedi monoteiste che, d’altro canto, come quasi tutte le altre religioni, fungono da supporto al sistema sociale patriarcale interamente attraversato dalle discriminazioni di genere.
In Palestina, la modernizzazione dell’istruzione, la cui acquisizione è per le donne il passo fondamentale verso l’emancipazione, avvenne però con dinamiche particolari rispetto al resto del mondo arabo, legate all’importanza religiosa del paese, specialmente in quanto culla del cristianesimo. Le famiglie palestinesi dell’alta borghesia e del ceto medio, e d’orientamento modernista, volevano permettere alle proprie figlie di istruirsi in istituti scolastici moderni, e non in quelli tradizionali già esistenti. Ebbero la possibilità di farlo nella seconda metà dell’Ottocento, quando innumerevoli nuove scuole missionarie europee di ogni rito cristiano, soprattutto anglicane e protestanti inglesi, e cattoliche francesi, furono gradualmente istituite in Palestina; erano frequentate da alunne e alunni anche di fede musulmana, ma furono create più che altro nelle città.
Molte figure note della Nahḍa palestinese si formarono nelle scuole ortodosse russe, impiantate in Terra Santa a partire dal 1853 e considerate le migliori per la modernità della loro metodologia didattica. In un istituto fondato dalla Società Ortodossa Russa furono inoltre lanciati i pionieristici studi linguistici sui dialetti palestinesi. I missionari russi, nota Masalha, contribuirono a diffondere una cultura moderna davvero umanista nel paese: furono gli unici a creare diverse scuole nei villaggi della Galilea per aiutare i bambini e le bambine delle numerose famiglie bisognose delle aree rurali. Fondarono anche due istituti superiori di formazione pedagogica per aspiranti docenti palestinesi; uno maschile a Nazareth, e l’altro femminile a Beit Jala, vicino a Betlemme; il curriculum modernista adottato serviva a fornire l’istruzione alle fasce economicamente più svantaggiate ed emarginate della popolazione.
Nel frattempo, le riforme ottomane del 1839-1876 (Tanẓīmāt) stavano generando altri importanti cambiamenti sociali in Palestina, abbinate sul piano politico all’ottomanismo, ideologia imperiale promossa dal Sultano Abdulhamid II (1842-1918) ma destinata ad avere soltanto un successo iniziale. La riforma dell’istruzione avviò, invece, la scolarizzazione di massa e la secolarizzazione del sistema scolastico; nacquero numerose scuole pubbliche primarie per bambine e bambini sia nei centri urbani che nei villaggi più abitati del paese. Altra novità rilevante risultata dal riformismo ottomano fu l’introduzione in Palestina della stampa moderna che, però, fiorì soprattutto dopo la Rivoluzione dei Giovani Turchi (1908) e il conseguente allentamento della censura.
A quel punto le palestinesi poterono sviluppare la loro Nahḍa femminile, agendo nella società, e perfino comunicare le loro idee tramite le nuove testate giornalistiche locali: nel 1908, nacquero a Haifa al-Karmil (Il Carmelo), e a Gerusalemme al-Quds, nome arabo della città santa per le tre fedi monoteiste e capitale politica, tenuta sotto stretto controllo dalla Turchia. Meno controllata era Giaffa, dove nel biennio 1910-1911, comparvero quattro giornali, tra cui al-Hurriya (La libertà) e Falastīn (Palestina), destinato a essere il più espressivo sia del contrasto alla colonizzazione sionista sia dell’affermazione dell’identità nazionale palestinese. I fondatori erano i cugini ‘Issa al-‘Issa (1878-1950) e Yusif al-‘Issa (1870-1948), intellettuali modernisti di fede cristiana greco-ortodossa, autori di articoli volti a diffondere il patriottismo. Il nome della testata riflette la pronuncia dialettale palestinese dello stesso toponimo in arabo standard: Filastīn. Questa scelta linguistica compiuta dai fondatori del giornale serviva ad attirare l’attenzione delle fasce popolari, per politicizzarle e realizzare nel paese una politicizzazione dal basso.
In effetti, a fine ‘800, erano già emersi nella società urbana palestinese un apprezzabile cosmopolitismo, un proto-femminismo e un altrettanto nascente nazionalismo territoriale, che non fu mai isolazionista nei confronti dei territori arabi circostanti. Entrambi i movimenti, stimolati anzitutto dall’imperialismo ottomano e occidentale, ebbero caratteristiche distinte locali, dovute al ruolo storico-religioso particolare della Palestina e alla correlata specificità della rivoluzione educativa lì avvenuta sin dagli anni 1850.
Proprio alla vigilia del XX secolo, notando l’accresciuta presenza nel loro paese di missionari e numerosi altri stranieri provenienti da varie parti del mondo, alcuni intellettuali palestinesi definirono la palestinesità a partire dalla consapevolezza secolare di essere la gente della Terra Santa del monoteismo e dall’analisi della propria cultura autoctona, cioè nata nel loro territorio storicamente unico per la sua sacralità. Inizialmente, spiega Elias Sanbar, assunsero infatti la tradizionale coesione interconfessionale tra le componenti ebraica, cristiana e musulmana della propria società come base principale per sancire la peculiarità dell’identità culturale palestinese [8].
Soltanto con il repentino aumento della colonizzazione sionista accaduto in Palestina ai primi del ‘900, le élite palestinesi percepirono concretamente la pericolosità del sionismo e iniziarono ad abbandonare l’ottomanismo, in risposta all’inasprimento del totalitarismo nazionalista ottomano e all’indifferenza di Istanbul verso questa minaccia concreta alla loro sopravvivenza come popolo nella propria patria. Poi definirono di più la palestinesità per indicare l’identità della loro nazione.
Fu la crisi nazionale, sottolinea Fleischmann, a portare le donne palestinesi musulmane e cristiane, pioniere della Nahḍa femminile, ad agire nella società e a politicizzarsi, senza la mediazione degli uomini, conducendo autonomamente una duplice battaglia femminista e patriottica.
[1] Ellen Fleischmann, The Nation and Its “New” Women. The Palestinian Women’s Movement 1920-1948, University of California Press, 2003.
[2] Definito anche Saḥwa (Risveglio) – spesso reso in inglese con “Arab Awakening” – o Tanwīr (Illuminismo), ma Nahḍa è il termine più usato.
[3] Edward Said, Orientalism, Pantheon Books, 1978 (Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, tr. Stefano Galli, Feltrinelli, 1999).
[4] George Antonius, The Arab Awakening, Lippincott, 1919.
[5] Sania Sharawi Lanfranchi, Casting off the Veil. The Life of Hoda Shaarawi, Egypt’s First Feminist, Tauris, 2012 (A volto scoperto. La vita di Huda Shaarawi, prima femminista d’Egitto, Rowayat, 2018).
[6] Nur Masalha, Palestine Across Millennia. A History of Literacy, Learning and Educational Revolutions, Bloomsbury, 2022.
[7] Ilan Pappé, The Rise and Fall of a Palestinian Dynasty. The Husaynis 1700-1948, Saqi, 2012.
[8] Elias Sanbar, Figures du Palestinien. Identité des origines, identité de devenir, Gallimard, 2004 (ll palestinese. Figure di un’identità: le orgini e il divenire, Jaca Book, 2005).
*Patrizia Zanelli insegna Lingua e Letteratura Araba all’Università Ca’ Foscari di Venezia. È socia dell’EURAMAL (European Association for Modern Arabic Literature). Ha scritto L’arabo colloquiale egiziano (Cafoscarina, 2016); ed è coautrice con Paolo Branca e Barbara De Poli di Il sorriso della mezzaluna: satira, ironia e umorismo nella cultura araba (Carocci, 2011). Ha tradotto diverse opere letterarie, tra cui i romanzi Memorie di una gallina (Ipocan, 2021) dello scrittore palestinese Isḥāq Mūsà al-Ḥusaynī, e Atyàf: Fantasmi dell’Egitto e della Palestina (Ilisso, 2008) della scrittrice egiziana Radwa Ashur, e la raccolta poetica Tūnis al-ān wa hunā – Diario della Rivoluzione (Lushir, 2011) del poeta tunisino Mohammed Sgaier Awlad Ahmad. Ha curato con Sobhi Boustani, Rasheed El-Enany e Monica Ruocco il volume Fiction and History: the Rebirth of the Historical Novel in Arabic. Proceedings of the 13th EURAMAL Conference, 28 May-1 June 2018, Naples/Italy (Ipocan, 2022).