di Alessandra Mincone – 

Pagine Esteri, 6 settembre 2023. L’incendio divampato giovedì 31 agosto in uno stabile occupato a Johannesburg è stato definito dalla stampa internazionale “uno dei peggiori roghi abitativi al mondo”. Il bilancio riportato dalle agenzie sudafricane è di 77 abitanti morti di cui 12 minori, e oltre 50 feriti. La palazzina di cinque piani dove da anni si riparavano centinaia di senza tetto, molti dei quali immigrati, si è trasformata in una prigione infernale: testimoni hanno giurato di aver visto bambini venire lanciati dalle finestre nella speranza di risparmiarli al fumo e al fuoco.

L’edificio di 80 Albert Street, di proprietà comunale, era già stato dichiarato inagibile – denuncia la Bbc, ma alcuni giornalisti locali parlano di un business sulle case a Johannesburg che non può smantellarsi facilmente, grazie ad una fitta rete clientelare che accomuna bande criminali e istituzioni.  Nel 2019, ci fu il tentativo di sgomberare l’edificio per arrestare più di cento immigrati irregolari ed una persona fu accusata di gestire il racket degli affitti. Il costo di uno spazio variava dai 19 agli 80 dollari al mese, rispetto all’ampiezza delle camere e alle condizioni di privacy richieste dagli inquilini. Ma nell’edificio non vi erano estintori né uscite di sicurezza, e molte porte erano blindate, cosa che ha limitato ulteriormente le vie di fuga la notte dell’incendio.

Gli impianti elettrici prevedibilmente abusivi, che non si esclude abbiano potuto generare la scintilla dell’incendio, purtroppo, sono una condizione abitativa accettata da migliaia di persone che, come accaduto per le famiglie dell’edificio finito sulla cronaca, sono disposti a tutto pur di ottenere un posto letto una volta approdati in Sudafrica, alla ricerca di un lavoro nel distretto più industrializzato della regione. Eppure la questione abitativa non è un’emergenza nuova per il Sudafrica, né affonda le sue radici con le più recenti migrazioni di lavoratori, quelli provenienti soprattutto da Mozambico, Botswana, Namibia e Zimbabwe.

Le politiche di segregazione razziale vigenti fino agli inizi degli anni ’90 si ripercuotono ancora nelle vite di migliaia di sudafricani a cui in passato erano state sottratte case, terre e documenti e che oggi vivono in condizioni di estrema povertà. Il risultato è che oggi, le migrazioni interne ed esterne generano insediamenti precari in città carenti di alloggi dignitosi, ma ricchi di strutture abbandonate e fatiscenti.

Nel marzo 2020, quando il governo sudafricano denunciava lo stato di emergenza per la pandemia da covid-19, il Dipartimento degli insediamenti, dell’acqua e della sanificazione attivava nelle aree più sovraffollate delle città di Johannesburg, Pretoria, Durban, Cape Town e Buffalo City un piano di ricollocazione abitativa con la costruzione di strutture prefabbricate in legno e componibili in una sola ora. Le alternative abitative fornite dalle autorità per ridurre il rischio di focolai di contagiati, però, non avevano convinto quasi nessuno a lasciare gli stabili occupati, in cambio di quelle soluzioni “temporanee”, sebbene queste risultassero migliori da un punto di vista igienico-sanitario. Un’inchiesta pubblicata sul “giornale dell’architettura” dimostra, in realtà, timidamente, quanto il ricordo dell’apartheid e della rimozione forzata dalle proprie case sia ancora vivo tra la popolazione sudafricana, tanto da influire psicologicamente nei processi dell’abitare sino ad oggi.

Proprio all’esterno dell’edificio di 80 Albert Street si leggeva ancora una targa per ricordare il periodo di suprematismo dei bianchi. Intorno agli anni ’60 era la sede del Dipartimento per gli affari non europei e lì vi si recavano i pretendenti al lavoro per sottoporsi a delle prove fisiche ed esami medici, nella speranza di ottenere un permesso che gli consentisse di trovare occupazione in quell’area, già all’epoca, costruita per confinare operai e minatori salariati.

Oggi le stime ufficiali riferiscono che l’emergenza abitativa in Sudafrica riguarda un numero compreso tra le 100mila e 200mila persone. C’è da dire che tali statistiche non differenziano le persone che vivono per strada o che non hanno una dimora fissa da quelle che vivono nei vari tipi di insediamenti illegali, come in stabili occupati o baracche.

Nel frattempo il livello di stigmatizzazione statale aumenta. A pochi giorni dalla tragedia, il Governo di Gauteng ha chiesto in Tribunale lo sfratto immediato di tutti gli alloggi attualmente occupati abusivamente, in contrapposizione alla legge sudafricana secondo la quale nessuno spostamento forzato può essere messo in atto senza un programma di ricollocamento per le persone in emergenza abitativa. Il presidente Cyril Ramaphosa ha definito l’incendio di Johannesburg un campanello d’allarme con l’intento di criminalizzarne gli aspetti: “l’edificio è di proprietà della città (…) Questi tipi di edifici vengono occupati da criminali che poi impongono l’affitto a famiglie disperate”.

E non si è fatto attendere il Ministro della presidenza Khumbudzo Ntshavheni che ha persino negato l’esistere di alcuna emergenza abitativa: “la maggior parte di quelle persone che soggiornano e risiedono in edifici dirottati non sono sudafricani e non sono in questo paese legalmente. Il governo non può fornire alloggi agli immigrati clandestini”, ha detto.

Secondo un saggio datato di una decina di anni, pubblicato per conto del Centro di consulenza tecnica del governo del Sudafrica, la posizione dei senza tetto è da considerarsi “continuativa”. Vale a dire che si definiscono tali, soggetti che non dispongono di un’autosufficienza economica per vivere in condizioni socialmente soddisfacenti e che compongono una percentuale di popolazione indesiderata nei centri urbani dove risiedono cittadini dal tenore di vita “adeguato” alle aspettative sociali generali. “I senzatetto sono spesso la fase finale di una serie permanente di crisi e opportunità mancate e di un graduale disimpegno dalle relazioni di supporto e da una rete sociale adeguata”.

Ma delle persone sopravvissute all’incendio di 80 Albert Street, e dei piani di ricollocazione e sostegno per il loro diritto ad una casa, dal Governo non c’è traccia di dichiarazione.