di Valeria Cagnazzo 

Pagine Esteri, 11 gennaio 2024Sono le 8.00 di mattina e S., l’infermiera capo turno, sta controllando sulla lavagna i numeri dei neonati ricoverati, prima dell’inizio di una nuova giornata. Otto in terapia intensiva, undici in quella sub-intensiva, quattro nell’isolamento per le malattie infettive, cinque in osservazione e cinque nella stanza di kangaroo mother care, dove i più piccoli crescono grazie al contatto pelle a pelle con le loro madri. Nella Neonatologia dell’ospedale di Emergency ad Anabah, nella valle del Panshir, trentatré su quarantaquattro posti letto sono occupati prima di iniziare il turno.

La maternità dell’ospedale nacque come una scommessa. Lo raccontava Gino Strada, il fondatore dell’ONG insieme alla moglie Teresa Sarti Strada, nel libro “Una persona alla volta” (Feltrinelli, 2022): “Ricordo le prime reazioni quando decidemmo di aprire un ospedale di maternità in Panshir, in una valle dove la mortalità materna e infantile era tra le più alte al mondo. (…) Le voci più preoccupate erano qui, in Europa: “Come potete pensare di aprire una maternità in Afghanistan? I mariti non permetteranno mai alle mogli di partorire in un ospedale gestito da occidentali. Vi aspetteranno con i kalashnikov ai cancelli, il Mullah vi maledirà”. (…) Oggi in quell’ospedale nascono venti bambini al giorno, le madri si sottopongono regolarmente ai controlli in attesa del parto, le ragazze studiano per diventare ostetriche e moglie e marito vengono normalmente a discutere di pianificazione familiare, affidandosi anche al consiglio di ostetriche e ginecologhe occidentali. Ho visto fallimenti peggiori”.

(Anabah, Emergency, credits Carlotta Marrucci)

Nato nel 1999 come ospedale per la chirurgia di guerra in una valle tra le montagne dell’Hindu Kush, a 200 km da Kabul, in una regione abitata da 250.000 persone, il centro nel 2003 fu predisposto per accogliere anche una maternità, che fornisse cure gratuite alle donne incinte e ai loro figli. L’altissimo tasso di natalità e l’affluenza di pazienti, resero necessario nel 2016 l’ampliamento del progetto, che adesso ospita quattro sale parto, due sale operatorie, una terapia intensiva per le donne che hanno avuto complicazioni durante il parto, un ambulatorio, un reparto di ginecologia, un’area per i follow-up, una per il travaglio, i reparti di neonatologia e l’ambulatorio neonatologico.

La mortalità materno-infantile in Afghanistan resta tra le più alte al mondo. Secondo una ricerca realizzata nel 2019 dalla UNFPA (United Nations Population Fund) in sei regioni afghane, il tasso di mortalità femminile in età riproduttiva supera del 50% quello maschile, circa una morte su due avviene al momento del parto. Secondo un altro studio nazionale, l’incidenza di mortalità materna sarebbe di una donna su 14. Non meno confortanti i numeri della mortalità infantile: circa un bambino su 18 non supera i 5 anni di età, con la maggior incidenza di esiti infausti nel periodo perinatale. Con i suoi 600 parti al mese, circa 5.000 ogni anno, l’ospedale di Emergency di Anabah cerca di sopperire con le sue cure gratuite a un bisogno abissale.

R. lavora come ostetrica da quattro anni. Sotto al velo si scorge una treccia di capelli neri che le avvolge il capo come una coroncina, un piercing rosa al naso è in pendant con l’uniforme lilla che indossano lei e le sue colleghe. Nella sala d’attesa degli ambulatori ginecologici, ci racconta dell’ultima IUFD, morte fetale intra-uterina, alla quale ha appena assistito. “La madre ha raccontato che non sentiva i movimenti del feto da almeno due giorni, ma il suocero, il suo capo-famiglia, si è rifiutato di accompagnarla in ospedale fino a oggi. Adesso, però, è troppo tardi”. I fattori culturali rappresentano, insieme a quelli socio-economici, i principali determinanti dell’aumentato rischio per le gravidanze in questo Paese.

Dare alla luce molti figli è un requisito spesso fondamentale per le donne per essere accettate dai mariti, dalle loro famiglie e dal tessuto sociale in cui vivono, ma ogni gravidanza rappresenta un pericolo ulteriore di complicazioni per le successive. Come per il suocero della sua paziente, l’ostetrica di guardia racconta che spesso per le famiglie far sottoporre le donne incinte agli screening di routine è facoltativo, spesso non necessario. “Quando arrivano qui, spesso hanno già le membrane rotte. Non hanno mai fatto una visita medica, hanno diverse gravidanze alle spalle, spesso alcune terminate con tagli cesarei, una pratica molto remunerativa negli ospedali privati nazionali. A volte non ci riferiscono di aver subito quei cesarei e il rischio di complicanze estreme durante il parto aumenta drammaticamente”.

Nella stanza dell’isolamento in neonatologia, l’unico suono che si sente ogni tanto è quello dei monitor, che si illuminano per segnalare una desaturazione o l’accelerazione improvvisa di una frequenza cardiaca. Attorno all’incubatore numero uno, i medici discutono del colore grigio-verde, così lo chiamano, del neonato. Nel suo sangue, gli antibiotici di terza linea trattengono a stento la forza replicativa del germe che continua a replicarsi da quando è nato. Le infezioni congenite sono un’altra conseguenza delle gravidanze non seguite. Spesso conducono a nascite premature, come quelle di B., nato nel mese di novembre a 27 settimane e 700 grammi di peso. Quando sua madre ci incontra, nelle corsie dell’ospedale, con il suo velo rosso e gli occhi nerissimi affilati come aghi, allarga le braccia per salutarci e sussurra ringraziamenti in farsi. Il suo piccolo continua a crescere, viene definito da tutti un piccolo miracolo.

(Anabah, Emergency, credits Carlotta Marrucci)

Lo scarso accesso alle cure è determinato anche dai costi e dalle distanze che le coppie devono coprire per raggiungere le strutture sanitarie. La scelta alla quale le donne si trovano di fronte se vogliono eseguire degli screening in gravidanza è tra le strutture private e quelle pubbliche. Negli ospedali privati, i costi delle prestazioni, dei medicinali, della degenza sono proibitivi per la maggioranza della popolazione afghana. La crisi economica in cui versa il Paese, d’altro canto, continua a svuotare la sanità pubblica di beni e servizi.

F. è l’infermiera della sala parto, ha almeno vent’anni di esperienza in quest’ospedale. Mentre avvolge un nuovo nato, il quindicesimo della giornata alle 17.00 del pomeriggio, in un telo asciutto e riscaldato, ci tiene a precisare che la sanità nazionale dovrebbe essere gratuita: “Spesso non ci sono le medicine, però, così i parenti devono andare a comprarle da fuori. Né le garze, né le siringhe. A volte mancano proprio i medici. Di notte, per esempio, nessuno resta di guardia. Al pomeriggio spesso si assentano per arrotondare facendo visite negli ambulatori privati. E quanti medici hanno già lasciato questo Paese, e quanti vogliono farlo”, sospira, aggiustandosi il velo. Secondo un rapporto pubblicato da Emergency e CRIDEMIM nel marzo 2023, un afghano su due non avrebbe accesso ai medicinali e oltre l’85% della popolazione avrebbe contratto dei debiti per potersi permettere le cure mediche.

La povertà continua a rappresentare in tutte le sue forme il più grave pericolo per la salute materno-infantile in Afghanistan. Secondo le Nazioni Unite, almeno 29 milioni di abitanti saranno dipendenti dagli aiuti umanitari nel 2024, la maggior parte di loro in condizioni di difficoltà “estrema”. A preoccupare le organizzazioni internazionali è la possibilità che dal prossimo anno la situazione in Afghanistan non sarà più considerata un’”emergenza”, con una conseguente contrazione dei finanziamenti per il terzo settore, nonostante il 4 dicembre scorso l’UNHCR, l’Agenzia Onu per i rifugiati, abbia definito quella nel Paese “un’emergenza per sempre”.

Alla fine della giornata, l’infermiera T. si lava le mani insaponandosi fino ai gomiti, poi è pronta per la notte, è lei la nuova capo turno. E’ orgogliosa del suo lavoro, nonostante avrebbe voluto continuare a studiare, per diventare un medico, ci dice. Come lei, sono tante le donne che hanno dovuto rinunciare agli studi, da quando, nel dicembre del 2022, il decreto del governo de facto ha vietato alle donne di frequentare l’università. Nella maternità, però, le infermiere, le ostetriche e le specializzande in ginecologia hanno ancora la possibilità di imparare e di diventare delle brave professioniste. T., per questo, sorride sempre, anche se a volte, racconta, “la situazione è davvero difficile”. E’ l’unica a portare uno stipendio a casa, nella sua famiglia numerosa, ma non è solo la sua situazione personale a preoccuparla. “Qui la gente ha fame, non ha niente. Io mi sento fortunata”. Come le sue colleghe, quando le si chiede come immagina il futuro, scrolla le spalle, dice che proprio non lo sa. Poi va verso la lavagnetta in corridoio, quella che tiene il conto dei neonati. Corregge il numero dei pazienti in terapia intensiva, ne aggiunge uno, ricoverato mezz’ora fa. Un altro nato prematuro da una gravidanza non seguita, una nuova incubatrice sulla quale vigilare con pazienza.