Di Eyal Lurie-Pardes* – + 972 Local Call
(traduzione di Federica Riccardi)
Negli ultimi mesi, le persone di tutto il mondo hanno seguito da vicino la continua brutalità della guerra a Gaza. Immagini di palestinesi in fuga verso sud e alla ricerca di parenti sotto le macerie, video di bambini alla ricerca di cibo e acqua, queste e altre ancora sono circolate sui social media e sulle reti di informazione ogni giorno dal 7 ottobre.
Ma queste immagini non si trovano praticamente da nessuna parte nei media israeliani. La maggior parte dei notiziari israeliani raramente aggiorna il numero di vittime palestinesi – che ha superato i 30.000 – né informa i propri spettatori che circa il 70% delle vittime dell’offensiva israeliana sono donne e bambini.
La meta-narrazione presentata dai media israeliani definisce l’attacco di Hamas al sud di Israele come la genesi e il cuore dell’attuale crisi geopolitica. Ogni giorno c’è una nuova angolazione sugli eventi del 7 ottobre: nuovi filmati delle incursioni di Hamas nei kibbutzim, testimonianze di soldati che hanno partecipato alle battaglie o interviste ai sopravvissuti. Inoltre, i giornalisti israeliani coprono gli eventi attuali a Gaza quasi interamente attraverso l’unica lente del 7 ottobre e dei suoi effetti a catena.
Si tratta di una decisione consapevole dei media israeliani. In un’intervista al New Yorker, Ilana Dayan, una delle più apprezzate giornaliste israeliane, ha spiegato: “Intervistiamo le persone sul 7 ottobre – siamo bloccati al 7 ottobre”. Oren Persico, collaboratore di The Seventh Eye, una rivista investigativa indipendente che si occupa di libertà di parola in Israele, ha dichiarato a +972: “C’è un circolo vizioso in cui i notiziari si astengono dal mettere il pubblico di fronte alla scomoda verità e, di conseguenza, il pubblico non la chiede”.
Questo circolo vizioso è comprensibile, in una certa misura. L’attacco del 7 ottobre è stato forse la più grande calamità della storia di Israele. Nel giorno più letale per il popolo ebraico dal 1945, più di 1.200 israeliani sono stati uccisi e 243 sono stati portati come ostaggi a Gaza, la maggior parte dei quali civili. Per la prima volta nella storia dello Stato, un nemico ha conquistato temporaneamente il territorio controllato da Israele. Gli ebrei israeliani continuano a elaborare questo trauma nazionale e, di conseguenza, non hanno ancora recuperato un senso di sicurezza. Le testate giornalistiche, quindi, non solo alimentano il pubblico con una particolare narrazione, ma riflettono anche oggettivamente il sentimento dominante.
Tuttavia, negli ultimi cinque mesi, i media israeliani hanno fatto molto di più che rispecchiare semplicemente la società israeliana. I media, e in particolare i notiziari televisivi, hanno intrapreso azioni per posizionarsi come incarnazione del patriottismo israeliano. Definiscono ciò che è di interesse pubblico, tracciano i confini del discorso politico legittimo e presentano solo una certa verità ai cittadini israeliani. Questa posizione serve sia i loro interessi commerciali sia gli interessi nazionali dichiarati dal governo e dalle forze armate. In questo modo, i notiziari televisivi si muovono costantemente su una linea sottile tra propaganda e giornalismo.
Per capire perché i media israeliani coprono la guerra di Gaza in questo modo, è fondamentale comprendere le tendenze storiche dei media e il loro ruolo nello spostare l’opinione pubblica israeliana verso destra. I media sono diventati parte indelebile di un ciclo in cui gli israeliani diventano sempre più nazionalisti e militaristi, il che li rende avidi di notizie che celebrano la guerra e oscurano o addirittura omettono la copertura dei suoi costi. Il pubblico riceve solo questa narrazione celebrativa e il circolo vizioso continua.
Per analizzare questa realtà, l’analisi che segue si concentra principalmente sui notiziari televisivi, che sono il mezzo predominante attraverso il quale gli israeliani fruiscono delle notizie. Ma lo stesso schema si manifesta in tutte le altre forme dei media, rendendo il ciclo pervasivo.
La trasformazione del panorama mediatico
Fino agli anni Duemila, l’informazione televisiva generalista era considerata una roccaforte dell’élite sionista laica e liberale. Questa élite controllava le emittenti pubbliche finanziate dal governo, che hanno avuto il monopolio delle trasmissioni fino agli anni ’90, e successivamente del Canale 12 e del Canale 13, di proprietà privata.
Tutti questi canali si rivolgevano generalmente a un pubblico centrista e, in generale, raramente contestavano l’occupazione israeliana, il movimento dei coloni o le violazioni operate delle forze di sicurezza. Hanno avuto una forza maggiore quando hanno raccontato altre questioni liberali come la corruzione del governo, l’uguaglianza di genere e, negli ultimi anni, i diritti LGBTQ+. Atteggiamenti simili si riscontrano nei media scritti, con la notevole eccezione del quotidiano di sinistra Haaretz, che pubblica un giornalismo più rigoroso sulle questioni palestinesi. Tuttavia, vale la pena notare che, nonostante l’alto riconoscimento del nome di cui gode all’estero, Haaretz ha un pubblico israeliano relativamente limitato – circa il 5% dei lettori di giornali locali.
Negli ultimi due decenni la scena giornalistica in Israele ha subito cambiamenti tettonici. Da istituzione prevalentemente centrista, si è trasformata in un campo polarizzato: un polo è una macchina dichiaratamente di destra e l’altro è apologeticamente centrista, nel timore di essere percepito come troppo di sinistra.
Fin dal primo mandato di Benjamin Netanyahu come primo ministro, alla fine degli anni ’90, egli ha criticato aspramente i media tradizionali, definendoli una fonte di informazione di estrema sinistra e inaffidabile. (Questa ossessione per i media è alla base delle accuse di corruzione che sta affrontando, tutte legate ai suoi tentativi di influenzare i media israeliani per ottenere una copertura lusinghiera). Dopo la sua prima estromissione, nelle elezioni del 1999, Netanyahu ha deciso che per tornare al potere era indispensabile rimodellare i media israeliani.
Ha raggiunto questo obiettivo creando un amplificatore indipendente per se stesso e per le sue opinioni, aggirando i media tradizionali. Nel 2007, Netanyahu avrebbe convinto Sheldon Adelson a fondare il quotidiano gratuito Israel Hayom, che gradualmente è diventato il giornale più letto in Israele. Fino alla morte di Adelson, avvenuta qualche anno fa, e ai successivi cambiamenti nella sua redazione, il giornale era immancabilmente favorevole a Netanyahu.
Il primo ministro ha voluto rimodellare anche l’ecosistema dei notiziari televisivi per il loro ruolo determinante nell’influenzare il sentimento pubblico. Sotto il controllo del suo partito Likud, il Ministero delle Comunicazioni ha promosso cambiamenti normativi che hanno permesso al Canale 14 di trasformarsi da “canale del patrimonio culturale” (autorizzato a trasmettere programmi sull’ebraismo) in un vero e proprio canale di notizie che fornisce ore di copertura al giorno, rendendolo una versione israeliana di Fox News. In mezzo alla polarizzazione politica su Netanyahu e la revisione del sistema giudiziario, la popolarità di Canale 14 è cresciuta, soprattutto tra i sostenitori di Netanyahu, rendendolo secondo solo a Canale 12 in termini di audience.
Questi cambiamenti strutturali hanno coinciso con un cambiamento nella composizione dei giornalisti in Israele. Poiché negli ultimi 20 anni la società israeliana è diventata più di destra, soprattutto per quanto riguarda la questione palestinese, è aumentato anche il numero di giornalisti sionisti religiosi di destra, molti dei quali coloni.
Persico, di The Seventh Eye, ha affermato che questi cambiamenti “creano due universi paralleli con presupposti fondamentali anch’essi paralleli, divisi tra Bibisti e non-Bibisti”. Ma anche sui canali mainstream, ha proseguito, “le dichiarazioni di incitamento che una volta si sentivano solo nelle prediche settimanali delle sinagoghe religiose sioniste possono ora essere ascoltate da importanti redattori e giornalisti”. Per esempio, su Canale 12, solo alcuni corrispondenti e ospiti sostengono la necessità di ristabilire gli insediamenti a Gaza, mentre su Canale 14 lo fanno in modo più esplicito ed esteso.
Abbracciare la propaganda
Dopo la guerra di Gaza del 2014 – in cui sono stati uccisi 68 israeliani e oltre 2.200 palestinesi – Dana Weiss, una delle principali corrispondenti di Channel 12, si è lamentata del fatto che una delle lezioni della copertura della guerra è che i media israeliani dovrebbero fare di più per mettere in evidenza le voci dei palestinesi nella Striscia. “La propensione degli israeliani ad ascoltare le domande difficili sta svanendo”, ha avvertito.
Ma nel clima nazionalista creatosi all’indomani del 7 ottobre, la copertura della devastazione che Israele sta scatenando a Gaza è introvabile. Alcuni giornalisti hanno persino messo in dubbio che i media debbano pubblicare storie che potrebbero danneggiare il morale nazionale.
Fin dall’inizio della guerra, i canali televisivi hanno guidato lo sforzo di hasbara in Israele. Hasbara – che in ebraico significa “spiegare” – è usato per descrivere il sostegno a favore di Israele, ma è essenzialmente un discorso ambiguo di propaganda. Elementi di hasbara compaiono in ogni canale televisivo. Ad esempio, dal 7 ottobre, il logo di ogni canale è stato modificato per includere la bandiera israeliana e lo slogan governativo “Yachad Nenatzeach” (“Insieme vinceremo”).
Come parte di questa hasbara, tutte le reti di informazione mainstream ritraggono Israele come la vittima finale e gli attacchi di Hamas come una dimostrazione di brutalità senza pari. Questo vittimismo è uno status esclusivo: non lascia spazio alla sofferenza dei palestinesi di Gaza, né al livello della crisi umanitaria che stanno affrontando. I notiziari della televisione mainstream israeliana raramente documentano le rovine di Gaza o l’entità degli sfollamenti e delle distruzioni. Quando lo fanno, la responsabilità di queste perdite viene addossata ad Hamas.
Chiunque contesti questa narrazione viene attaccato. Ad esempio, quando il Segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha condannato esplicitamente l’attacco di Hamas del 7 ottobre, ma ha affermato che “non è avvenuto nel vuoto” – facendo riferimento ai 56 anni di occupazione israeliana come contesto determinante – i media israeliani si sono scatenati.
Invece di fornire una spiegazione onesta della sua posizione dominante a livello internazionale, i giornalisti israeliani hanno fatto a gara a chi criticava più aspramente Guterres. Almog Boker, uno dei più popolari corrispondenti di Channel 13, ha affermato che il capo delle Nazioni Unite stava “giustificando le atrocità di Hamas”. Un titolo di Ynet recitava: “Perché il Segretario Generale delle Nazioni Unite António Guterres ha così tanta antipatia per Israele?”. Anche Canale 12 ha definito le sue dichiarazioni “oltraggiose“.
L’esercito è la fonte
La stretta interazione tra i media israeliani e l’esercito crea, senza sorpresa, diversi punti ciechi nella copertura della realtà di Gaza. La presenza dei media internazionali è stata praticamente inesistente nelle prime settimane di guerra e la maggior parte dei giornalisti internazionali ha lasciato Gaza per la propria sicurezza. I bombardamenti israeliani e i blackout intermittenti dell’elettricità e delle comunicazioni hanno ostacolato la capacità di cronaca dei giornalisti palestinesi locali.
Con l’avanzare dell’invasione di terra, l’esercito israeliano ha permesso ad alcuni giornalisti – sia israeliani che internazionali – di entrare a Gaza, ma solo se accompagnati dai militari. Tali visite sono solitamente dirette dall’unità dei portavoce dell’IDF, il che significa che i giornalisti non sono in grado di intervistare direttamente i palestinesi o di accedere in modo indipendente ai siti in rovina. Possono vedere solo ciò che viene loro presentato.
L’influenza dei militari va ben oltre il controllo dell’accesso alle informazioni. Per i primi tre mesi di guerra, il capo dell’unità portavoce dell’IDF, Daniel Hagari, ha tenuto conferenze stampa quotidiane trasmesse in diretta su tutti i canali in prima serata. Queste conferenze stampa includevano aggiornamenti sullo stato della guerra, ma solo sporadicamente contenevano istruzioni per il pubblico o informazioni veramente degne di nota. Hagari era ampiamente considerato dal pubblico israeliano come una fonte affidabile di informazione, soprattutto in relazione alla mancanza di fiducia del pubblico nel governo in carica, e la sua presenza non necessaria ma costante ha dato all’esercito il controllo sulla narrazione dei notiziari.
Inoltre, i corrispondenti militari, che si affidano in larga misura all’esercito israeliano come principale fonte, ne tessono costantemente le lodi. Non si tratta di una tendenza nuova. Anche prima della guerra, i corrispondenti militari spesso pubblicavano testualmente le dichiarazioni dell’IDF, senza menzionare che l’esercito fosse l’unica fonte di informazioni. Inoltre, amplificano ferocemente i presunti successi ottenuti dalle forze israeliane a Gaza e sostengono la continuazione dell’operazione.
Lo stesso vale per molti altri giornalisti e per l’establishment dei media nel suo complesso. Questo è in parte un effetto secondario della formazione giornalistica ricevuta attraverso l’esercito israeliano. La formazione di base per molti giornalisti in Israele avviene presso il Galatz, la radio dell’esercito israeliano, non nelle università o nei giornali locali. Infatti, Galatz seleziona decine di soldati israeliani appena arruolati per lavorare alla stazione come parte del loro servizio obbligatorio. Questi soldati ricevono un addestramento e un’esperienza impareggiabili e molto apprezzati, che li rendono particolarmente appetibili per un successivo reclutamento professionale al termine del servizio.
Persico ha sottolineato l’importanza di questo background, sostenendo che “generazioni di giornalisti israeliani sono cresciuti [professionalmente] sotto questa supervisione militare, che li ha addestrati a pensare che ci sono cose che non possono pubblicare”. Di conseguenza, questa educazione ha fatto crollare nel tempo la concezione fondamentale dell’indipendenza della stampa in Israele.
Promuovere false narrazioni, disumanizzare i palestinesi
Oltre a omettere la copertura essenziale sulle vite dei palestinesi, i media israeliani svolgono anche un ruolo attivo nel creare percezioni completamente false della guerra e dell’opinione pubblica palestinese.
Una delle principali differenze tra la copertura internazionale e quella israeliana della guerra, ad esempio, è la questione della legittimità di Hamas tra i palestinesi, che è diventata una fissazione ricorrente dei media mainstream in Israele. Tra i gazawi ci sono certamente critiche nei confronti di Hamas per non aver garantito la sicurezza o non aver fornito assistenza umanitaria durante la guerra. Ma i media israeliani ritraggono Hamas sul punto di perdere tutta la sua credibilità tra i palestinesi.
Sul Canale 12, Ohad Hemo e Ehud Yaari, i principali corrispondenti di questioni arabe e palestinesi in Israele, hanno riferito che le tensioni tra i civili gazawi e Hamas si stanno intensificando. Secondo loro, i gazawi hanno detto che “invece di ‘ciao’, la frase più comune per strada tra le persone è “che Dio si vendichi di Hamas'”.
Qualche settimana fa, i canali televisivi israeliani hanno diffuso un filmato di migliaia di palestinesi che fuggivano da Khan Younis attraverso un corridoio umanitario scandendo: “Il popolo vuole abbattere Hamas”. Nessuno di loro ha menzionato, come rivelato da +972, che sono stati costretti a farlo dai soldati israeliani per essere lasciati passare. Anche se i media non ne erano a conoscenza, qualsiasi giornalista decente avrebbe dovuto mettere in dubbio il significato di quei canti come indicatore della legittimità di Hamas, soprattutto se si considera che i video sono stati girati da soldati e che i palestinesi erano alla mercé dell’esercito israeliano.
La narrazione del presunto imminente crollo di Hamas è stata rafforzata da altri video, come quelli dei palestinesi nel nord di Gaza che consegnano le armi a Israele. Inizialmente, i canali di informazione hanno rapidamente amplificato che “centinaia di militanti di Hamas si stanno arrendendo nel nord di Gaza”. Pochi giorni dopo, tuttavia, i funzionari della sicurezza nazionale hanno stimato che di queste centinaia, solo il 10-15% erano effettivamente militanti di Hamas. Il resto erano normali civili che non erano fuggiti a sud, come l’esercito aveva ordinato loro.
Un altro esempio è l’idea che l’esercito israeliano si stia avvicinando a Yahya Sinwar, il capo della sezione di Hamas a Gaza e una delle menti dietro l’attacco del 7 ottobre. Questo tipo di notizie si susseguono ormai da mesi. A dicembre, in un video che ha suscitato molte beffe, Adva Dadon, giornalista di Channel 12, ha mandato in onda un servizio intitolato “Nella casa di Sinwar“, documentando un’incursione israeliana in quella che sarebbe stata una delle sue abitazioni. Ha persino sollevato un paio di scarpe dalle macerie e ha affermato che appartenevano a Sinwar – un’affermazione che è stata rapidamente smentita.
L’aspetto più sconcertante è che i notiziari televisivi israeliani svolgono un ruolo attivo nella disumanizzazione dei palestinesi. Canale 14 ha costantemente promosso opinioni abominevoli – come la richiesta di annientamento di Gaza e la descrizione di tutti i gazawi come terroristi e bersagli legittimi – che vengono ripetute dai principali conduttori e corrispondenti. A causa di queste dichiarazioni ricorrenti, Canale 14 è stato persino citato più volte nella denuncia del Sudafrica alla Corte Internazionale di Giustizia che accusa Israele di aver commesso un genocidio a Gaza. Questo tipo di dichiarazioni non sono un’eccezione, e infatti sono apparse anche nei notiziari televisivi tradizionali.
Inoltre, i notiziari mainstream si rifiutano di riportare il numero di vittime palestinesi, sostenendo che non ci si può fidare dei numeri del Ministero della Salute “gestito da Hamas” – anche se sono storicamente accurati e lo stesso esercito israeliano si basa su di essi. Canale 14 ha utilizzato i numeri diffusi dal Ministero della Salute, ma ha definito tutte le migliaia di palestinesi uccisi come “terroristi”.
I punti di vista del governo
In una certa misura, le correnti sotterranee che vediamo nella copertura mediatica israeliana della guerra appaiono anche sui social media – un mezzo centrale di fruizione delle notizie, soprattutto tra la popolazione più giovane. Sui social media, gli algoritmi sono progettati per creare una camera di risonanza con un universo parallelo, e la sua natura personalizzata esacerba l’isolamento degli israeliani sia tra di loro che dal resto del mondo. Ad esempio, anche quando gli israeliani sui social media sono esposti a notizie non israeliane sulla guerra, è probabile che lo facciano attraverso mediatori filo-israeliani che spiegano che si tratta solo di propaganda nemica.
I media mainstream israeliani creano un’altra camera di risonanza per gli israeliani, che amplifica i punti di vista del governo e ha poca somiglianza con il panorama informativo del resto del mondo. A differenza delle notizie israeliane, i media internazionali sono attualmente molto più concentrati sull’entità della devastazione a Gaza e sul suo legame con l’oppressione di lungo corso dei palestinesi. Allo stesso tempo, a livello globale si nutrono molti dubbi sulla fattibilità degli obiettivi di guerra di Israele, dubbi che però in Israele non vengono quasi espressi.
Così, anche se i canali televisivi israeliani non sono stati costretti a promuovere la linea di pensiero del governo, farlo è stato certamente utile ai loro interessi per mantenere alti gli ascolti. Questa strategia ha funzionato: un sondaggio della Hebrew University ha rilevato che dall’inizio della guerra, il consumo di notizie da parte dei media tradizionali è più che raddoppiato e l’esposizione a tutte le principali reti di informazione è aumentata. Tra la popolazione ebraica, la popolarità del Canale 12 è salita alle stelle, soprattutto tra gli spettatori affiliati al blocco anti-Netanyahu.
Questi spostamenti non sono una deviazione dalla norma. Sono l’apice di trasformazioni storiche che hanno cambiato radicalmente i media e le notizie televisive israeliane, combinate con la decisione ad hoc degli operatori di mostrare e dimostrare il proprio patriottismo. Purtroppo, se la copertura della guerra di Gaza è indicativa, è probabile che queste tendenze continuino, aggravando il circolo vizioso che spinge i media e il pubblico israeliano a essere sempre più di destra, conformista, militarista e nazionalista
*Eyal Lurie-Pardes è visiting fellow nel Programma sulla Palestina e gli affari palestinesi-israeliani del Middle East Institute dopo aver ottenuto la borsa di studio post-laurea della University of Pennsylvania Carey Law School LLM. Prima di entrare al MEI, Eyal ha lavorato con l’Associazione per i diritti civili in Israele, l’Istituto Zulat per l’uguaglianza e i diritti umani e come consigliere parlamentare alla Knesset.