di Eliana Riva –
Pagine Esteri, 3 aprile 2024. Sono più di 200 gli operatori umanitari uccisi a Gaza in sei mesi. Quasi tre volte il bilancio delle vittime registrate in un anno in qualsiasi singolo conflitto mondiale.
Secondo l’ONU ne erano 196 fino al 20 marzo, prima quindi del sanguinoso attacco israeliano che ha ucciso martedì 2 aprile sette membri della World Central Kitchen. Un convoglio di 3 autovetture che aveva coordinato il proprio percorso con i militari israeliani, è stato colpito dopo che il gruppo di operatori umanitari, identificabile con il logo della WCK, ha consegnato 100 tonnellate di aiuti alimentari a Deir al-Balah, nel centro della Striscia di Gaza. Un attacco mirato, che non ha lasciato scampo agli operatori, tre di nazionalità inglese, uno con doppio passaporto statunitense-canadese, uno polacco, uno australiano e un palestinese. Il secondo veicolo è stato colpito a 800 metri di distanza dal primo. E il terzo a 1 chilometro e 600 metri dal secondo, con estrema precisione. Il premier Netanyahu ha parlato di un “tragico errore”, cose che però “in guerra accadono”. È difficile immaginare che un tale grossolano sbaglio sia riconducibile allo stesso esercito che poche ore prima ha distrutto con chirurgica accuratezza l’ambasciata iraniana a Damasco, in Siria.
Con l’aumentare dello sdegno internazionale, le parole di scusa sono divenute più chiare, accompagnate però dal funambolico tentativo di descrivere il raid come un’azione isolata. Difficile inquadrarla in questo modo ormai anche per gli storici sostenitori d’Israele: le uccisioni di operatori umanitari, di giornalisti, di civili, di donne e bambini hanno raggiunto numeri inimmaginabili, l’orrore della fame è denunciato ovunque come arma di guerra saldamente impugnata da Netanyahu e dal suo governo. “Se Israele sperava che il suo controllo sull’ingresso degli aiuti sarebbe servito come mezzo di pressione per il rilascio degli ostaggi detenuti da Hamas, ha perso la scommessa” scrive oggi il quotidiano israeliano Haaretz.
Il dibattito interno inglese è diventato rovente quando è stata ventilata l’ipotesi che i tre cittadini inglesi della WCK possano essere stati uccisi con una delle tante armi che la Gran Bretagna ha consegnato a Israele. L’opinione pubblica era già rimasta scossa da una fuga di notizie: nonostante il governo abbia ricevuto un parere legale secondo cui l’esercito israeliano sta violando il diritto internazionale, il flusso di armi non è stato bloccato. Insieme a Jeremy Corbyn, altri deputati hanno chiesto la sospensione della vendita di armi a Israele: “dobbiamo chiedere un cessate il fuoco immediato, e porre fine alla nostra complicità in questo orrore”, ha dichiarato l’ex leader laburista.
All’indomani dell’attacco drone al convoglio, la World Central Kitchen ha annunciato la sospensione delle proprie attività nella Striscia di Gaza. Secondo il Cogat, l’organismo del ministero della difesa israeliano che controlla l’amministrazione civile dei territori palestinesi occupati, la WCK garantiva circa il 60% degli aiuti non governativi che entrano nel territorio. Altre Organizzazioni non governative hanno seguito l’esempio, dichiarando di aver interrotto il lavoro di supporto alla popolazione sull’orlo della carestia.
L’immagine di Israele che i governi, soprattutto occidentali, stanno tentando disperatamente di difendere e di presentare, a volte oltre ogni evidenza, a un’opinione pubblica con le idee più chiare di quelle dei propri reggenti, sta cadendo a pezzi. Sotto le immagini dell’ospedale al-Shifa, che fatto a pezzi e dato alle fiamme vengono presentate come un successo militare, con le foto dei corpi di decine di palestinesi senza nome sepolti dalle ruspe, come dalle notizie delle centinaia di arresti arbitrari, dalle testimonianze degli anziani pazienti sopravvissuti.
Ma anche per la cacciata dei giornalisti di Al Jazeera, il più importante network di notizie del mondo arabo, che potrebbe essere seguito da tanti piccoli pezzi di libertà di stampa tenuti a forza da Israele fuori dai confini propri così come da quelli che forzatamente continua ad occupare. L’annunciata operazione militare israeliana su Rafah, dove è rifugiata la maggior parte della popolazione palestinese, è stata ufficialmente bocciata dagli Stati Uniti d’America. Secondo gli USA evacuare i civili in quattro settimane, come programmato da Tel Aviv, è semplicemente impossibile. Sarebbero necessari, per Washington, non meno di quattro mesi.
Sono ormai 32.975 i morti nella Striscia di Gaza, dei quali 14.500 bambini e 9.560 donne. 75.577 feriti, 30 bambini morti di fame. Il Programma alimentare mondiale (WFP) ha ribadito il suo appello per un cessate il fuoco a Gaza avvertendo dell’avvicinarsi della carestia e della malnutrizione tra i bambini che si diffonde a “ritmo record”: un bambino su tre sotto i due anni è gravemente malnutrito. Un’indagine pubblicata da The Guardian, realizzata dal sito di notizie israeliano Sicha Mekomit rivela che l’esercito israeliano utilizza a Gaza un sistema di intelligenza artificiale che, in base a dati preinseriti indentifica potenziali simpatizzanti di Hamas. 37.000 persone sarebbero state arrestate con l’utilizzo del software.
Eppure, Netanyahu e il suo governo, nonostante le contestazioni interne, godono di un forte sostegno. La narrazione della “vittoria totale” contro Hamas continua a scaldare i cuori di gran parte della popolazione israeliana ma pone sempre più interrogativi sull’avvenire. Gli oppositori lo incolpano di fare la guerra per la guerra, scopo e ultimo obiettivo, senza un reale piano per un futuro di pace. Pace per gli israeliani, sia chiaro, perché i palestinesi rimangono un problema da domare e di cui preferibilmente sbarazzarsi.
Non solo la guerra contro Hamas. Per ritardare l’inevitabile resa dei conti sulle responsabilità del fallimento militare e di intelligence del 7 ottobre, quando il gruppo islamico ha attaccato uccidendo 1200 persone e rapendone circa 250, anche una “guerra totale” potrebbe diventare appetibile. E così la posta in gioco diventa sempre più alta, attacco dopo attacco. “Bibi” sembra sfidare i suoi più forti avversari, testandone i limiti, spinto dal desiderio di marcare il territorio dello scontro ma tentato sempre più a istigare una reazione che, se messi con le spalle al muro, l’Iran e i suoi gruppi alleati potrebbero persino decidere di avere.
L’attacco all’ambasciata iraniana a Damasco, in Siria, con l’uccisione di sette persone tra le quali Mohammad Reza Zahedi, un comandante della Forza Quds del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie, è un passo pericoloso.
Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha tenuto una riunione di emergenza il 2 aprile. L’Iran “ha esercitato una notevole moderazione, ma è imperativo riconoscere che ci sono limiti a tale tolleranza”, ha detto l’ambasciatore iraniano all’ONU, Zahara Ershadi.
Cina e Russia hanno definito l’attacco “una flagrante violazione della carta delle Nazioni Unite e della sovranità sia della Siria che dell’Iran”. “25 anni fa, l’ambasciata cinese in Jugoslavia è stata bombardata da un attacco aereo della NATO guidato dagli Stati Uniti. Comprendiamo il dolore del governo e del popolo iraniani”, ha detto Geng Shuang, vice rappresentante permanente cinese presso le Nazioni Unite.
La “guerra ombra” tra Tel Aviv e Teheran ha avuto fino ad ora le modalità del “contenimento”. Un “botta e risposta” proporzionale garantisce il rituale di dominanza e sottomissione che può terminare, come da più attori auspicato, in un ritorno alle proprie aree di influenza, con soddisfazione egualmente distribuita. In questa mascolina dimostrazione di muscoli si inserirebbe il supporto occidentale concretamente dimostrato a Israele con la presenza militare nel Mediterraneo e nel Mar Rosso. Dunque, supportare uno degli attori in conflitto nei termini del “contenimento”, significa esaltare la propria presenza e la propria capacità d’armi allo scopo di intimidire l’avversario ed evitare l’escalation. L’azione armata di Israele contro l’ambasciata iraniana rappresenta senza dubbio un atto che trascende il contenimento. Una fuga in avanti, una dimostrazione di forza che mette in difficoltà i propri alleati ma anche e di più l’avversario, in questo caso l’Iran, che deve decidere a questo punto quali carte giocare. Il fatto che gli Stati Uniti, secondo fonti riportate da più parti, si siano affrettati a comunicare a Teheran la propria estraneità all’attacco, conferma questa lettura. Le minacce che hanno presentato all’Iran sono spiegate dal timore che la risposta possa mirare a obiettivi statunitensi in Medio Oriente.
La maggior parte degli analisti in giro per il mondo sostiene che l’Iran vuole evitare una guerra diretta con Israele. Ma concordano tutti sul fatto che dovrà rispondere all’attacco all’ambasciata. In fondo, l’ha promesso. Ma come?
Il presidente Joe Biden ha già minacciato che se saranno attaccate basi, ambasciate, cittadini degli Stati Uniti, il suo esercito risponderà. Potrebbe attaccare un “luogo” estero israeliano. Ma probabilmente è questa l’azione che Netanyahu attende per l’escalation. La risposta allora potrebbe arrivare attraverso il Libano, con un attacco nel nord d’Israele. C’è da chiedersi, a questo punto, se Hezbollah sia disposto, su ordine dell’Iran, a rischiare una controffensiva israeliana massiccia: Tel Aviv ha già più volte dimostrato di poter colpire il Libano dal sud al nord, compresa la capitale Beirut, senza subire particolari ritorsioni. Rinforzare e allargare il programma nucleare potrebbe essere, forse, una risposta. Ma non è da escludere che rappresenterebbe, anche questa, una minaccia considerata da Netanyahu “troppo grave”.
Intanto, ieri sera l’esercito israeliano ha richiamato i riservisti per potenziare le unità di difesa aerea in vista di potenziali attacchi all’asse iraniano. Entro pochi giorni il Comando del Fronte interno lancerà una campagna mediatica per preparare gli israeliani alla guerra contro Hezbollah e la Banca d’Israele si sta preparando a un’elevata domanda di contanti da parte dei cittadini in caso di una guerra su vasta scala.
Il Ministro della difesa Gallant ha dichiarato: “La guerra contro Hezbollah sarà una sfida difficile per Israele ma una catastrofe per il Libano e per lo stesso Hezbollah”.
Gli Stati Uniti potrebbero dunque ritrovarsi incastrati in una guerra che non vogliono e che neanche i loro avversari desiderano ma che Israele pare deciso a voler provocare. Il “laissez faire” politico e militare accompagnato solo da deboli ed esitanti frasi ammonitive, potrebbe rappresentare l’effetto fatale di una sottovalutazione dell’indipendenza aggressiva di Netanyahu.