di Geraldina Colotti
Pagine Esteri, 22 aprile 2024 – In questo anno di elezione presidenziale, fissata per il 28 luglio, il Venezuela bolivariano è di nuovo nell’occhio del ciclone. L’attualità ne dà conto, anche a livello internazionale. Intanto, perché il Dipartimento di Stato nordamericano ha deciso di non rinnovare la “General License 44” che aveva autorizzato, fino al 18 aprile, il ripristino delle transazioni commerciali nel settore del petrolio e del gas venezuelano.
Alle numerose imprese multinazionali, sia statunitensi che europee, tornate a investire nel paese, ora viene dato un lasso di 45 giorni per fare i bagagli, o per presentare specifiche richieste di deroga per restare. A loro, la Legge contro il bloqueo, varata dal parlamento venezuelano per far fronte al blocco economico-finanziario (innescato a suo tempo da Obama, incrementato da Trump e mantenuto da Biden), aveva consentito ampi margini di profitto, pur lasciando saldamente in mano dello Stato venezuelano (e della sua principale impresa petrolifera, Pdvsa), il controllo delle risorse.
I risultati della deroga alle “sanzioni” sono subito apparsi evidenti agli indicatori economici internazionali. Da quando, a dicembre del 2023, a seguito degli Accordi delle Barbados, conclusi tra governo e opposizione, per far fronte alla “sete” di petrolio dovuta al contesto internazionale Biden ha flessibilizzato le “sanzioni” a Pdvsa, l’economia petrolifera venezuelana è cresciuta del 18 per cento nel primo trimestre del 2024 rispetto allo stesso periodo del 2023.
Anche per questo, le ultime inchieste (per esempio la firma Hinterlaces) stanno dando un ampio margine di gradimento a Nicolas Maduro, candidato – dal Partito socialista unito del Venezuela (Psuv), dagli alleati del Gran Polo Patriottico e dai movimenti popolari – per un terzo mandato. E per questo, il comunicato di un gruppo di oppositori, tra religiosi e intellettuali, ha esortato i rappresentanti dell’estrema destra a recedere dall’ulteriore richiesta di “sanzioni”. Dall’estero, però, alcuni ex ministri chavisti che hanno cambiato caschetta, ventilano la possibilità che Maduro possa essere sostituito dal governatore dello stato di Carabobo, Rafael Lacava, che è stato anche ambasciatore in Italia.
La frangia ultra-radicale della destra venezuelana non ha smesso di premere sulle proprie lobby di riferimento negli Stati uniti, ottenendo, come risultato, una dichiarazione di sostegno dell’amministrazione Usa, emessa da Matthew Miller, portavoce del dipartimento di stato Usa, che ha spiegato così la sospensione della licenza: “Oltre a bloccare le candidature di Machado e Yoris, Maduro e i suoi hanno continuato a perseguitare gli oppositori politici, molti dei quali sono stati arrestati”, ha detto il comunicato, e ha esortato il governo bolivariano a rispettare gli Accordi delle Barbados e a consentire “a tutti i candidati di partecipare alle elezioni, e a rilasciare i prigionieri politici”.
Mediante il presidente del Parlamento, Jorge Rodriguez, che ha guidato i negoziati, il Venezuela ha risposto pubblicando per intero gli accordi sottoscritti per mostrare l’inesistenza di punti che implichino il disconoscimento delle istituzioni della Repubblica. In base alle leggi venezuelane (in vigore dal varo della nuova costituzione, votata a stragrande maggioranza nel 1999), infatti, una persona inabilitata non può esercitare incarichi politici né candidarsi alle elezioni. Maria Corina Machado, che ora guida il partito Vente Venezuela, risulta invece inabilitata per 15 anni per vari reati non di poco conto, come quello di cospirazione contro lo Stato e tradimento.
Insieme a vari altri personaggi della destra, quasi tutti ora residenti in Europa, Machado ha infatti partecipato a numerosi passaggi eversivi della politica venezuelana, sempre peraltro rivendicati: a cominciare dal golpe contro Hugo Chávez del 2002, e continuando poi con le violenze di piazza (le guarimbas) e i relativi falò umani (si ricorderà il giovane Orlando Figuera, nel 2017, il cui aggressore – un italiano che guidava il gruppo di estrema destra – è tutt’ora rifugiato in Spagna), e proseguendo poi con l’autoproclamazione di Juan Guaidó e l’usurpazione di cariche pubbliche (e del patrimonio pubblico all’estero).
Reati per cui in Europa è previsto l’ergastolo. Tuttavia, nel suo rumoroso giro per chiedere aiuto al Parlamento europeo e ai paesi membri della Ue, Machado ha ricevuto un ampio appoggio bipartisan (in Italia da Meloni, dal Pd e dai 5 Stelle), in quanto “difensora dei diritti umani e della democrazia contro il dittatore Maduro”. E la dichiarazione di Matthew Miller sembra copiata dai suoi comunicati.
Vale ricordare che gran parte delle informazioni sul Venezuela che arrivano al Parlamento europeo provengono dal lavorìo di Leopoldo López Gil, padre dell’omonimo figlio che si è distinto in politiche analoghe a quelle di Machado fin dal golpe del 2002. Prima di fuggire in Spagna, Leopoldo si rifugiò nell’ambasciata spagnola a Caracas dove di certo non ricevette un trattamento analogo a quello che i poliziotti dell’Ecuador, ora governato dalla destra, hanno riservato all’ex vice-ministro di Correa, Jorge Glas.
Quanto a López Gil, nel 2015 ha ricevuto cittadinanza spagnola dall’allora governo di Mariano Rajoy ed è risultato il primo venezuelano eletto al Parlamento europeo per il Partito Popolare. Dal 2019, è vicepresidente della delegazione nella Commissione parlamentare mista della Ue, membro della Sottocommissione per i diritti umani, e membro della Delegazione nell’Assemblea parlamentare euro-latinoamericana.
Fino all’ultimo giorno utile per modificare le candidature già presentate – il 20 aprile – Machado ha continuato a girare come se fosse in campagna elettorale. Intanto, infuriava la polemica tra le varie componenti dell’estrema destra: la Plataforma unitaria democratica (Pud), Un nuevo tiempo (Unt) e Vente Venezuela, il partito di Machado, per il mancato accordo su un candidato unico.
E, alla fine, la Pud ha votato per Edmundo González Urrutia, aggiungendo un tredicesimo candidato ai 12 di opposizione, già registrati da altrettanti partiti. Si tratta di un ex diplomatico di carriera, ambasciatore durante la IV Repubblica, già iscritto come candidato “provvisorio” e ora “eletto all’unanimità” dalla Pud. González era già stato presidente della Mesa de la Unidad Democratica (Mud), poi diventata Pud. La Piattaforma ha anche ottenuto una proroga da parte dell’autorità elettorale (il Cne), che ha esteso il termine per modificare le candidature di 72 ore, fino al 23. Il governatore dello Stato di Zulia, Manuel Rosales, che perdette contro Hugo Chávez nelle elezioni del 2006, che aspirava a competere ora con Maduro, e che non aveva risparmiato critiche feroci a Machado, ha così ritirato la sua candidatura, che era già stata regolarmente registrata, riportando a 12 il numero dei candidati di opposizione.
In rete, intanto, ha cominciato a girare il curriculum di Urrutia commentato dalle organizzazioni popolari, femministe e Lgbt, che lo definiscono un “misogino e troglodita di origine copeiana” (il Copei è stato l’equivalente della Democrazia cristiana nella IV repubblica). In un video del 2020, in cui l’ex diplomatico si scambia opinioni con un altro esponente della destra, lo si ascolta profondersi in una catena di scurrilità omofobe e maschiliste, riguardo l’obbligo, stabilito dal Cne, di presentare almeno il 40% di candidate donne in tutte le formazioni.
E, intanto, il chavismo ha realizzato la Consulta Popular Nacional 2024, dispiegando per questo oltre 15.600 centri elettorali abilitati in tutto il paese dal Cne. Con un processo inedito, proprio della democrazia partecipata e protagonista che vige dal varo della Costituzione bolivariana, nel 1999, le comunità hanno votato i progetti presentati nei territori su vari ambiti della vita collettiva: salute, educazione, alimentazione, sicurezza, ambiente, servizi pubblici e economia.
Progetti presentati e discussi nelle Assemblee delle cittadine e dei cittadini, realizzate in 4.500 circuiti elettorali comunali del paese, che domenica hanno dato luogo alla consultazione popolare, avallata dal Cne. Le proposte che verranno scelte dalle urne, sulle 23.000 presentate, saranno finanziate dal governo e messe in atto dalle comunità organizzate.
Contro la decisione di Biden, è già partita una campagna nazionale e internazionale sulla falsariga di quella diretta a Obama che, nel 2014, con un decreto esecutivo, aveva avviato il meccanismo delle misure coercitive unilaterali, illegali, definendo il Venezuela “una minaccia inusuale e straordinaria per la sicurezza degli Stati uniti”. La campagna dice: “Biden, deroga el decreto ya!” Biden, deroga il decreto subito.
Ma, intanto, sia la destra venezuelana che quella colombiana producono “scoop” sulla possibilità che la decisione di Biden faccia saltare l’accordo sul gas, di cui la Colombia di Petro ha bisogno, e plaudono alla richiesta dell’Argentina di entrare a far parte della Nato (una richiesta già avanzata dalla Colombia quand’era governata a destra). L’accordo tra Pdvsa e Ecopetrol prevedeva la messa in funzione, in meno di un anno, del ramo colombiano del Gasdotto Transcaraibico Antonio Ricaurte.
Più che la difesa della “democrazia”, è in ballo la straordinaria ricchezza del Venezuela, a partire da quella petrolifera, su cui la farsa dell’”autoproclamazione” di Guaidó è riuscita a mettere le mani, sottraendo e intascandosi denaro pubblico (come ha dimostrato anche un’inchiesta negli Usa). Emblematico, il caso di Citgo, la grande raffineria che il Venezuela possiede negli Stati uniti, che ora è al centro di una strenua battaglia legale, il cui esito farà memoria a livello internazionale.
In questi giorni, a conferma dello scontro interno che esiste anche nell’amministrazione Biden in vista delle elezioni di novembre, il Dipartimento del Tesoro degli Stati uniti, attraverso l’Office of Foreign Assets Control (Ofac), ha ordinato di prorogare per quattro mesi la licenza che impedisce ai creditori delle obbligazioni di Petróleos de Venezuela (Pdvsa) di acquisire le azioni di Citgo: ovvero, fino ad agosto, dopo le elezioni di luglio su cui Washington vuole dire la sua.
Per capire la portata di quel che è in gioco in Venezuela, vale la pena soffermarsi sulla vicenda Citgo, società venezuelana di raffinazione all’estero, che possiede 14.885 stazioni di servizio, messa in mano dagli Usa all’estrema destra venezuelana. L’avvocato di Guaidó, da allora, ha capeggiato la vertenza collettiva di circa 20.000 ex alti dirigenti della PDVSA, licenziati da Chávez dopo il golpe del 2002, che avevano guidato la serrata petrolifera padronale seguita nel 2003.
La causa è stata ammessa dallo stesso tribunale federale del Delaware, negli Stati uniti, che ha autorizzato il furto della Citgo, e sempre basandola sulla figura “dell’alter ego”, un’astuzia giuridica che permette di attribuire la responsabilità di un ente a un altro che ne funge da estensione. Gli ex quadri dirigenti chiedono quindi un risarcimento di 100.000 dollari a persona, che verrebbe reso effettivo con l’asta della Citgo. E hanno fretta, prima che i creditori della Pdvsa sequestrino i beni della società.
Un altro capitolo del furto della Citgo, innescato dalle misure coercitive unilaterali contro il Venezuela. Il 1 maggio 2023, una settimana dopo l’incontro di Bogotà, in cui 20 paesi valutarono percorsi per avvicinare le posizioni tra Stati uniti e Venezuela, l’Ofac ha rilasciato la licenza 42, che autorizza l’Assemblea di opposizione del 2015 (il Parlamento venezuelano si rinnova ogni 5 anni, e così è stato nel 2020) a negoziare accordi con i creditori venezuelani che potrebbero includere l’asta giudiziaria della società di raffinazione, praticamente avviata.
Questa decisione ha messo al centro della scena l’ambita Citgo, patrimonio dello Stato venezuelano, tante volte promessa da Guaidó agli Stati uniti. Il governo Maduro ha respinto la decisione, ribadendo che il Venezuela non riconoscerà alcun negoziato che coinvolga beni della nazione nel quadro della Licenza 42, o che sia portato avanti da rappresentanti illegittimi. Il Parlamento venezuelano ha approvato uno strumento giuridico che prevede azioni penali e patrimoniali contro i cittadini venezuelani che accettano di negoziare o consegnare i beni venezuelani all’estero, classificandoli come criminalità organizzata.
Il “presidente” della Citgo, nominato da Guaidó, Horacio Medina, ricordato anche per il suo ruolo nello sciopero petrolifero del 2002, e numero uno degli Oil People, come vengono chiamati gli ex alti funzionari, ha però già iniziato a negoziare con Crystallex e con altri creditori dei debiti del Venezuela.
Secondo la sentenza del giudice statunitense Leonard Stark, del tribunale federale del Delaware, i presunti creditori del Venezuela potrebbero riscuotere i presunti debiti della Repubblica rifacendosi con il patrimonio della Citgo, che ai sensi della legislazione statunitense è una società privata. Questa decisione è stata possibile grazie al legale di Guaidó, un faccendiere che ha sviluppato l’improbabile teoria dell’alter ego, che consente alle aziende di spogliare il Venezuela dei suoi beni, usando gli ex funzionari.
Agendo come lunga mano delle grandi multinazionali, nel 2022 Stark ha assunto la società di investimento Evercore Group per raccogliere dati finanziari e commercializzare la società, e ha ricevuto l’autorizzazione preventiva per l’asta dall’OFAC. L’offerta di questa azienda cerca di includere altre grandi aziende che hanno in corso i maggiori contenziosi (i lodi arbitrali), come ConocoPhillips ed Exxon Mobil. In seguito all’approvazione della Licenza 42 dell’Ofac, il Venezuela ha fatto ricorso alla Corte Suprema.
Nel gennaio 2024, dopo che la Corte Suprema degli Stati Uniti ha respinto la richiesta di appello, il giudice Stark ha consentito a più creditori di partecipare all’asta. La maggior parte di questi, tra cui Contrarian Capital Management e i fondi Pharo Gaia e Gramercy, è stata autorizzata dal tribunale a partecipare all’asta, che potrebbe portare a una delle più grandi vendite giudiziarie nella storia degli Stati uniti.
Obiettivo degli “autoproclamati”, quindi, è chiudere le trattative con i creditori più urgenti e incassare. Intanto, i media a loro favorevoli danno la colpa al debito estero contratto “da Chávez e Maduro”, agli “espropri” e al “fallimento del socialismo bolivariano” nella gestione delle risorse del Paese. Gli avvocati di Guaidó (nel frattempo trasferitosi a Miami), stanno negoziando con la multinazionale petrolifera Usa ConocoPhillips, con la canadese Crystallex Corp e con gli azionisti organizzati da più di un anno. La priorità negli incassi spetterebbe alla compagnia mineraria canadese Crystallex, che per prima ha presentato la sua richiesta di 990 milioni di dollari contro il Venezuela nel 2017, ma non ha potuto riscuotere a causa delle “sanzioni” degli Stati uniti contro Caracas (allora non c’era stata ancora l’”autoproclamazione”).
Il caso ha una portata più ampia del furto della Citgo. È, infatti, necessario creare un precedente che permetta alle grandi multinazionali di trarre vantaggio da Stati che, come il Venezuela, l’Ecuador dell’era Correa o la Bolivia, e prima ancora Cuba, hanno deciso di avere la piena sovranità sulle loro risorse. L’obiettivo è permettere ai fondi avvoltoio di impossessarsi del Paese, per ridurlo come l’Argentina, indebitato per generazioni. Per questo non è irrilevante chi conduce il gioco a livello legale e rappresenta gli interessi del Paese.
“Con o senza le sanzioni statunitensi, l’industria petrolifera venezuelana non si fermerà”, ha affermato Pedro Tellechea, ministro del Petrolio e presidente di Pdvsa alla vigilia dell’annuncio di Washington. Tellechea è stato nominato al posto di Tareck El-Aissami, dopo la scoperta di una gigantesca rete di corruzione intorno a Pdvsa, che ha portato all’arresto di El-Aissami, detenuto da un anno e ora rinviato a giudizio. Non è da adesso che Maduro ha ingaggiato la battaglia contro una piaga endemica come la corruzione, favorita anche dalla necessità di aggirare le “sanzioni”, che obbligano a passaggi finanziari più complessi anche utilizzando la meno controllabile moneta digitale.
L’inchiesta sta evidenziando che uno degli imputati avrebbe rivelato agli Stati uniti il percorso del diplomatico venezuelano Alex Saab, inviato speciale del governo per cercare alleati disposti ad aggirare le “sanzioni” e provvedere ai bisogni della popolazione. Saab venne sequestrato e torturato dalla Cia sull’isola di Capo Verde e poi portato illegalmente negli Usa per essere processato. Ha potuto tornare a casa proprio a seguito degli Accordi delle Barbados, dopo essere stato scambiato con alcuni mercenari Usa detenuti in Venezuela. Ora, una corte della Florida lo ha prosciolto da tutte le accuse.
Ripristinando i termini del discorso, si può, naturalmente ragionare su limiti e meriti del socialismo bolivariano, sull’efficacia delle linee politiche e sulle scelte economiche del governo dopo la morte di Chávez, il 5 marzo del 2013. Ma sostenere che, dal 1998 a oggi il popolo venezuelano, pur sottoposto a ogni genere di ricatti e lusinghe, abbia continuato a votare e a rivotare il progetto chavista obbligato da una “dittatura”, è difficilmente sostenibile. Il fatto che Machado e i suoi siano tutt’ora a piede libero e che il Venezuela sia l’unico paese orientato al socialismo in cui la borghesia può organizzarsi economicamente, politicamente e persino militarmente, lo sta a dimostrare.
A 22 anni dal colpo di Stato contro Chávez, la sostanza dello scontro di interessi in campo è rimasta la stessa. Allora, le misure prese contro la grande concentrazione del potere economico (dalla legge contro il latifondo, a quella contro la pesca a strascico, e specialmente la nuova legge sugli idrocarburi che aumentava le tasse dal 16% al 30% per le grandi multinazionali petrolifere, e riservava allo Stato il 51% delle azioni nelle società miste), misero in allarme la borghesia e l’imperialismo Usa, e azionarono le leve interne della contro-rivoluzione: le grandi corporazioni imprenditoriali, i vertici delle confederazioni sindacali a loro subordinati (la Ctv), i media privati e le gerarchie ecclesiastiche. Un sistema di potere, proveniente dalla IV Repubblica, in cui i presidenti venivano nominati a Washington prima che dalle urne per essere garanti dello status quo.
E non per caso, a capo di quella cospirazione, preparata a lungo, venne messo Pedro Carmona Estanga, presidente di Fedecámara (un insieme di corporazioni padronali), poi soprannominato “Carmona el breve” per il poco tempo che riuscì a stare al potere, prima che il popolo riportasse in sella il proprio rappresentante. Machado, Capriles, Lopez, eccetera, poi amnistiati da Chávez, furono fra gli attori del golpe. Il patto tra Fedecámara e Ctv portò a una serie di scioperi padronali con cui venne lungamente preparato il golpe in nome della “governabilità”.
Una litania, questa, che i media nazionali e internazionali continueranno a ripetere anche dopo il ritorno di Chávez al potere quando la lunga serrata petrolifera padronale per continuare a mantenere il controllo di Pdvsa, cercherà di mettere in ginocchio il paese. Chávez ha raccontato che, il 28 di aprile, 17 giorni dopo il golpe, nominò una commissione di dialogo convocando tutte le parti a Miraflores, però che, per Fedecámara, “il dialogo significava sottomissione”.
Invece – disse – un governo non può sottomettersi a nessun potere, tantomeno a quello imperiale, perché deve rispondere al mandato popolare. E così ha continuato a essere nel corso degli anni seguenti quando quel golpe, seppur diversamente shackerato, verrà tentato altre volte in Venezuela e in America Latina. Dello stesso tenore sono state le dichiarazioni di Maduro dopo la decisione di Biden, mentre il paese si avvia a celebrare la sua trentacinquesima elezione popolare. Pagine Esteri