di Eliana Riva – 

Pagine Esteri, 30 aprile 2024. Un terremoto politico internazionale potrebbe scatenarsi da un giorno all’altro. Le diplomazie e i più importanti governi occidentali si stanno muovendo in maniera convulsa, e anche abbastanza scomposta, per evitare che un tribunale internazionale giudichi in maniera libera e indipendente gli eventuali crimini di guerra commessi a Gaza dalla leadership politica e militare israeliana.

La notizia di possibili mandati di arresto per il premier Netanyahu, il ministro della Difesa Yoav Gallant e il capo di stato maggiore delle forze di difesa israeliane, Herzl Halevi, è stata fatta trapelare dai giornali israeliani, con lo scopo di mettere in allarme i propri rappresentanti occidentali e di spingere l’Europa e gli Stati Uniti a intervenire finché ci fosse ancora tempo per farlo.

Israele, come gli USA, la Russia, la Cina non ha ratificato lo Statuto di Roma e non riconosce dunque l’autorità della Corte Penale Internazionale, che conta 124 stati membri. Anche le autorità palestinesi hanno ratificato lo Statuto. La CPI persegue crimini di guerra, crimini contro l’umanità, genocidio e crimini di aggressione compiuti da singoli individui, a differenza della Corte Internazionale di Giustizia, organismo delle Nazioni Unite riconosciuto da Israele, che sta valutando le responsabilità del governo di Tel Aviv nella strage in corso nella Striscia di Gaza.

Se i mandati venissero spiccati, ognuno dei 124 stati avrebbe il dovere di arrestare i rappresentati israeliani qualora mettessero piede all’interno dei propri confini. Questo rappresenterebbe una grave limitazione per le relazioni internazionali israeliane ma sarebbe anche un colpo durissimo all’immagine del Paese, senza contare che potrebbe costituire una prova ulteriore per la pronuncia della CIG sul crimine di genocidio.

Dunque, per Israele non è il momento di interrogarsi sull’opportunità politica delle pressioni sul tribunale internazionale e sul suo procuratore capo, Karim Khan. Ed è esattamente questo che Tel Aviv ha inteso comunicare ai suoi alleati: non è più il tempo degli avvertimenti discreti e delle intimidazioni velate, le maschere sono cadute e bisogna intervenire a gamba tesa.

Titubanti all’inizio, gli Stati Uniti hanno presto deciso di procedere per la via loro indicata.

Venerdì 26 aprile il comitato editoriale del Wall Street Journal ha invitato Washington e Londra a ricordare a Karim Khan che sono stati loro a metterlo lì: anche se non stupisce è inevitabile notare la singolarità del marchio USA su un organismo che formalmente non riconoscono.

Il nervosismo occidentale, tuttavia, pare a tratti trascendere l’attuale posizione israeliana ed emana un vago sentore di paura. Per il precedente che potrebbe rappresentare: se anche i governi amici possono ora essere perseguiti, non esistono più regole ed è difficile prevedere chi sarà il prossimo. E se i rappresentanti israeliani diventano ufficialmente “criminali di guerra”, come verranno giudicati coloro che a quei criminali hanno fornito e continuano a fornire armi e illimitato sostegno? Se non avvertono il signor Khan di ciò che accadrà se procede, osservano i giornalisti del Wall Street Journal, “il presidente Biden e il primo ministro Rishi Sunak rischiano di ritrovarsi americani e britannici sotto tiro”.

Ma la questione è ancora più ampia, riguarda anche un altro conflitto e la legittimità di un ulteriore sostegno armato internazionale. Il 17 marzo 2023 la Corte penale internazionale ha emesso un mandato d’arresto per il presidente russo Vladimir Putin per “presunti crimini di guerra di deportazione di bambini dai territori ucraini occupati nella Federazione Russa”. Il mandato fu accolto con favore dal presidente Joe Biden il quale si ritrova oggi nella scomoda posizione di giudicare in maniera diametralmente opposta l’ipotesi di un provvedimento simile emanato nei confronti dei leader israeliani, confermando di fatto le critiche di Putin sulla legittimità delle inchieste e delle sanzioni della Corte. “Siamo stati molto chiari sull’indagine della CPI”, ha dichiarato lunedì la portavoce della Casa Bianca, Karine Jean-Pierre, “non la sosteniamo, non crediamo che abbiano la giurisdizione”. Ma la segretaria stampa non ha confermato ciò che tutti i media israeliani danno per certo ossia la pressione che Washington sta facendo sulla Corte penale e su Khan perché non arrivi ad emettere quei provvedimenti.

A differenza di molti governi, tuttavia, l’organismo non può completamente ignorare il peso dell’opinione pubblica né ciò che sta accadendo alla Corte Internazionale di Giustizia. Il procuratore capo Karim Khan ha subito molte critiche per lo scarso interesse dimostrato nei confronti delle indagini già in corso riguardanti i territori palestinesi, alle quali ha dedicato meno tempo e meno fondi rispetto ad altre inchieste. Ha dichiarato però ora che la questione procede con la “massima urgenza”.

Secondo le prime indiscrezioni l’accusa principale contro Netanyahu, sarebbe quella di “affamare deliberatamente i palestinesi di Gaza”. Probabilmente le indagini si soffermeranno dunque sulla gestione degli aiuti e non terranno conto, come invece sperano che accada i legali di parte palestinese, degli attacchi agli operatori umanitari, ai giornalisti, la distruzione degli ospedali, le stragi degli affamati, l’altissimo numero di vittime civili. Tuttavia, secondo un’esclusiva appena pubblicata da Reuters, i pubblici ministeri della Corte penale internazionale hanno interrogato il personale dei due maggiori ospedali di Gaza, lo Shifa e il Nasser. Entrambe le strutture sono state distrutte dall’esercito israeliano. Il 24 aprile l’Alto Commissario dell’Onu per i Diritti Umani, Volker Turk, aveva invocato un’indagine indipendente sulle fosse comuni ritrovate intorno all’ospedale Nasser di Khan Yunis, il più importante nel sud della Striscia di Gaza. Più di 300 corpi sono stati recuperati dopo la ritirata dell’esercito israeliano e solo per una parte di essi è stata possibile l’identificazione. Turk, che si è detto “inorridito” dalla distruzione delle strutture mediche palestinesi da parte delle forze armate, ha chiesto che fosse indagato anche il rinvenimento di altre centinaia di cadaveri dentro e intorno lo Shifa di Gaza City. Non è chiaro se l’indagine della CPI riguardi la distruzione delle strutture o anche il ritrovamento delle fosse comuni. Secondo Reuters i pubblici ministeri non hanno fornito risposte, preoccupati per l’incolumità dei testimoni coinvolti.

I vertici israeliani temono che i mandati di arresto possano influenzare la fornitura internazionale di armi e causare un’ondata di sanzioni economiche. “Sotto la mia guida, Israele non accetterà mai alcun tentativo della CPI di minare il suo intrinseco diritto di autodifesa – ha dichiarato Benjamin Netanyahu in un tweet – La minaccia di arrestare i soldati e i funzionari dell’unica democrazia del Medio Oriente e dell’unico stato ebraico del mondo è oltraggiosa”.

 

 

Il quotidiano Haaretz cita fonti accademiche che ritengono in parte responsabili della situazione quei politici che si sono espressi pubblicamente e senza filtri sulle “soluzioni finali” da utilizzare contro la popolazione della Striscia, dichiarazioni che sono state già citate dai giudici della Corte Internazionale di Giustizia. Il ministro degli esteri Israel Katz, chiese che l’approvvigionamento idrico della Striscia di Gaza fosse interrotto perché “è quello che meritano gli assassini di bambini”. E il ministro del Patrimonio Amichai Eliyahu parlò almeno in due occasioni del lancio di una bomba nucleare come “un’opzione praticabile” perché Israele “deve trovare modi per causare sofferenza a Gaza”.

Anche i video e i post social dei soldati potrebbero essere utilizzati come prove di una condotta impropria: in Israele sempre più voci lamentano uno scarso controllo a riguardo da parte dei vertici militari. In generale, nonostante sia ancora difeso a spada tratta dagli Stati Uniti, il racconto idilliaco del sistema legale israeliano che indaga su se stesso sta oggettivamente cadendo sotto la gravità delle azioni sanguinarie operate dall’esercito, assolto nella maggior parte dei casi.

“La reputazione di Israele è una questione di sicurezza nazionale” titola The Jerusalem Post, avvisando che “continuare a ignorare la sua crisi reputazionale può essere costoso”. La tesi e le proposte dell’analisi sono particolarmente significative. Secondo l’autore Ido Aharoni, ex funzionario del ministero degli Esteri, ex consigliere generale israeliano a New York e Global Distinguished Professor presso la School for International Relations della New York University, Israele non è visto più come una vittima. Dall’invasione del Libano del 1982 qualcosa sarebbe cambiato nella percezione internazionale e l’immagine del piccolo stato-Davide in lotta per la sopravvivenza contro gli arabi-Golia si sarebbe capovolta. E questo non va bene, perché secondo Aharoni “chi è visto come perdente gode di un vantaggio incorporato”. Qual è la soluzione proposta dal professore? Investire come mai prima d’ora: “miliardi, non milioni” da utilizzare per parlare a quella parte della popolazione mondiale che non conosce lo “stato ebraico”, coinvolgerli con un’immagine rassicurante rappresentata da civili e non da soldati. Israele dovrebbe utilizzare tanti soldi per la creazione, in giro per il mondo, di cattedre universitarie gestite dai propri giovani accademici con lo scopo di domare “la cultura DEI (diversità, equità e inclusione) attualmente fuori controllo”. Ma soprattutto, dice Aharoni, è fondamentale per i governanti israeliani “interiorizzare che non si tratta di essere giusti”. Ma solo di “essere attraenti e rilevanti”. Pagine Esteri