di Patrizia Zanelli*

Pagine Esteri, 31 maggio 2024. Nata a Beirut, nel 1979, in una famiglia di profughi palestinesi, Rafeef Ziadah è una poetessa, artista della parola parlata (spoken word), attivista per i diritti umani, femminista e accademica, che vive a Londra, dove il 12 novembre del 2011 ha recitato a teatro “Shades of Anger” (Sfumature di rabbia), poesia inclusa nel suo primo album, Hadeel, del 2009. Il video in cui lei è ripresa, mentre declama questi versi infuocati contro l’occupazione militare israeliana nella Palestina occupata, divenuto subito virale appena era stato caricato su YouTube, ha ricevuto numerose altre visualizzazioni da quando Israele ha lanciato la guerra genocidaria ancora in corso a Gaza, uccidendo finora quasi 38.000 civili palestinesi, tra cui soprattutto bambine e bambini. Per la stessa ragione sta riscuotendo ancor più rinnovata popolarità internazionale “We Teach Life, Sir” (Noi insegniamo la vita, signore), poesia inclusa in un omonimo album, del 2015, ma declamata da Ziadah già nel succitato spettacolo del 2011, tenuto al Tabernacle di Londra.

Durante l’operazione militare Piombo fuso, condotta da Israele tra il 27 dicembre 2008 e il 18 gennaio 2009 nella Striscia di Gaza, era rimasta uccisa una bambina che si chiamava Hadeel, nome proprio femminile arabo, che significa “verso della colomba”. Suo fratello Ahmad aveva, invece, perso la vista in seguito allo stesso crimine di guerra commesso dal soldato israeliano che aveva attaccato la loro casa. Nel suo blog, Ziadah dice di avere dedicato l’intero suo primo album “alla gioventù palestinese, che continua a far volare aquiloni di fronte ai bombardieri F16, a ricordare i nomi dei propri villaggi in Palestina e a sentire il suono di Hadeel nel cielo sopra Gaza”.

Considerate ancora tragicamente attuali per il loro contenuto, le poesie scritte dalla poetessa nel 2009 si potrebbero definire profetiche. I video di “Shades of Anger” e di “We Teach Life, Sir” erano in effetti già ridiventati virali nel 2012, nel 2014 e nel 2021, cioè ogni volta che Israele lanciava un’operazione militare su Gaza, dove adesso continua a consumarsi il genocidio più visto e visibile nella Storia dell’umanità.

Rafeef Ziadah, la cui infanzia è stata segnata dal trauma dell’assedio e dei bombardanti israeliani a Beirut del 1982, è poi cresciuta in Tunisia e ha cominciato a scrivere da giovanissima. Si è trasferita con la famiglia anche in altri paesi, e lei si indentifica come una profuga palestinese di terza generazione. Ha completato gli studi in Canada, ottenendo un dottorato in scienze politiche presso la York University di Toronto, nonché la cittadinanza canadese. Non è mai stata in Palestina, che però conosce come se ci fosse sempre vissuta, grazie a quanto le hanno raccontato i suoi parenti, soprattutto le donne della sua famiglia, e altri profughi palestinesi che ha incontrato in vari paesi del mondo.

Nel prologo di “Shades of Anger”, Ziadah spiega perché ha scritto questa poesia. Ricorda il giorno in cui era all’università a Toronto, ancora studentessa, per partecipare a un’azione diretta, la rappresentazione di una situazione reale tra civili palestinesi e militari israeliani, ma lei non sopportava l’idea di “rappresentare una soldatessa o una colona”. Quindi, ha deciso di presentarsi in quanto palestinese; mentre era sdraiata per terra, un giovane passato di lì per caso le ha dato un calcio sulla pancia e le ha detto: “Tu meriti di essere stuprata prima di avere i tuoi bambini terroristi”. Lei non gli ha risposto subito, ma poi ha scritto “Shades of Anger”. È di fatto la prima poesia che ha creato per uno spettacolo spoken word, un vero e proprio manifesto poetico e politico, in cui l’autrice stessa cerca di smantellare lo stereotipo dell’arabo terrorista, accusando l’Occidente di terrorismo e puntando il dito precisamente contro la guerra di Gaza del 2008-2009 e il sostegno degli Stati Uniti a Israele. In un’intervista pubblicata su Women’s Views on News il 14 maggio 2012, Ziadah ha precisato che il giovane che l’aveva aggredita fisicamente e verbalmente, mentre partecipava a quella manifestazione pacifista all’università, era in effetti un sionista, mosso dall’antipalestinismo, nonché dalla misoginia. Ha anche dichiarato che era rimasta traumatizzata e disgustata dall’aggressione. Proprio durante l’operazione Piombo fuso, inoltre, lei aveva trovato nell’arte della parola parlata la coerenza di contenuto e forma che aveva sempre cercato per esprimere artisticamente le sue idee politiche.

Nel prologo di “Hadeel”, Ziadah spiega di avere voluto scrivere questa poesia, perché era rimasta sconcertata mentre seguiva un telegiornale che annunciava la morte della bambina e il fatto che suo fratello Ahmad era diventato cieco in seguito allo stesso attacco israeliano in un quartiere residenziale di Gaza. Queste informazioni erano state comunicate in modo da sembrare irrilevanti. All’epoca, ricorda Ziadah, era in corso un dibattito pubblico riguardo alla scelta di certi apparati militari di usare annunciatrici per la trasmissione televisiva di notizie sulla morte di minori, vittime di guerra, perché una voce femminile producesse un effetto confortante sui telespettatori. Questa tecnica mediatica, basata sull’uso di una donna, per annunciare l’uccisione di una bambina o un bambino palestinese, era stata inventata appunto da Israele, diventando un modello, adottato presto dagli Stati Uniti e poi da altri paesi. Ziadah ha spiegato tutto ciò, prima di recitare “Hadeel” durante lo spettacolo che ha eseguito per rappresentare la Palestina alla kermesse Poetry Parnassus dell’Olimpiade Culturale, organizzata nel South Bank Centre di Londra, nell’estate 2012, in concomitanza con i giochi olimpici. In questa poesia spoken word, tipicamente caratterizzata da un senso di estemporaneità, da un linguaggio semplice, ribelle alle norme della retorica e perfino della sintassi, adatto a veicolare una protesta contro lo status quo, messaggio rivoluzionario essenziale della letteratura della resistenza, la poetessa evidenzia la crudeltà di tale tecnica mediatica: sfrutta la voce di una donna, usata come un oggetto, un narcotico per desensibilizzare l’opinione pubblica riguardo a crimini di guerra che, commessi in aree abitate da civili, notoriamente comportano anzitutto gravi violazioni dei diritti dell’infanzia.

Significativo è il commento pubblicato su YouTube da Masahiro Sugano il 23 novembre 2012, per spiegare l’importanza del video che lui stesso aveva girato a Londra durante le Olimpiadi, riprendendo Ziadah, intenta a recitare “Hadeel”: “Mi sono imbattuto nella sua poesia della parola parlata e sono scoppiato in lacrime dietro la telecamera. Da allora volevo condividere con il mondo quest’opera come l’ho vissuta io […] Lo Stato di Palestina è il peggior disastro in relazioni pubbliche che abbia mai visto. Sono le uniche persone che conosco i cui innocenti vengono uccisi regolarmente da una potenza militare, e noi sembriamo fortemente scoraggiati dal provare simpatia per loro. I bambini palestinesi sono i “danni collaterali” originali. Hadeel è una poesia che ci ricorda chi sono”. Il regista giapponese si riferiva chiaramente all’anzidetta tecnica mediatica, una componente fondamentale della hasbara (“spiegazione”), la propaganda diplomatica inventata da Israele negli anni 1970, un sistema con cui Tel Aviv inventa in continuazione scuse, pretesti, slogan, tattiche e forme subdole di censura, indispensabili per migliorare la propria immagine all’estero, desensibilizzando l’opinione pubblica mondiale riguardo ai crimini di guerra e contro l’umanità, commessi sistematicamente dal suo stesso esercito d’occupazione specialmente nei confronti della gioventù palestinese in età scolastica: uccisioni, ferimenti, mutilazioni, arresti arbitrari, abusi sessuali, torture fisiche e psicologiche che i media mainstream non riferiscono mai da decenni. Sono azioni criminali premeditate, gravissime violazioni dei diritti dell’infanzia, che i soldati israeliani stanno perpetrando con maggiore frequenza e ferocia del solito in Cisgiordania sin dall’inizio del genocidio di Gaza; lo affermano Save the Children, UNICEF e UNRWA. Dal novembre 2023 sta riscuotendo più popolarità sui social proprio il video in cui Ziadah recita la poesia dedicata alla memoria della bambina palestinese uccisa da Israele nel 2009:

Hadeel ha nove anni

Hadeel ha nove anni

no, scusate, Hadeel aveva nove anni

proprio stamattina Hadeel aveva nove anni

e i funzionari hanno detto

i funzionari israeliani hanno detto che si rammaricano della sua morte

ma il terrorismo deve finire, i razzi devono finire, la resistenza deve finire

oppure continueranno a bombardare Gaza

finché non rinunceremo a quel briciolo di dignità che ci è rimasta

finché non eleggeremo chi vogliono, firmeremo quel che vogliono e moriremo moriremo moriremo in silenzio, come vogliono loro

vedete, la sicurezza israeliana è assoluta, è scritta col sangue

e i bulldozer

e l’arte delle annunciatrici

perché la morte è più dolce se proviene da una donna

la morte, mi dicono, è più educata ed elegante detta da una donna

ma chi

chi lo dirà alla madre di Hadeel

intenta a cuocere pane e za’atar

che le colombe non voleranno più su Gaza

Hadeel se n’è andata e suo fratello Ahmed ha perso la vista

le colombe, le colombe, le colombe non voleranno più su Gaza

Hadeel

nessuna preghiera che io ricordi

e ricordo a metà ti riporterà indietro

nessuna preghiera che guardo dentro di me per ricordarla

ti riporterà indietro

mentre ti avvolgi nelle storie della Palestina

ti nascondi sotto un letto aspettando che il prossimo soldato butti giù la tua porta

per cacciarci via da una Storia che portiamo sulle spalle

Hadeel

chi, chi di voi dirà a Hadeel che nulla è cambiato il giorno della sua morte

prossimo incontro, prossimo treno

non una pausa, non una lacrima

vale la pena di pubblicare un comunicato stampa?

Un’altra vita palestinese se n’è andata

la solidarietà da lontano come un brutto scherzo o una brutta storia da raccontare a una creatura

e mi dicono non piangere per i martiri

porta avanti la lotta, continua la lotta continua la lotta

ma per Hadeel

datemi solo un momento di silenzio

no, un momento di sincera resistenza

così potrete mantenere quel briciolo di dignità che vi è rimasta

per Hadeel…

Attualmente, Ziadah insegna politiche e gestione pubblica delle economie emergenti presso il King’s College dell’Università di Londra; i suoi altri campi principali di ricerca sono gli studi di genere e il razzismo, con un’attenzione particolare al Medio Oriente e all’Africa orientale. È, inoltre, co-autrice con Brenna Bhandar di Revolutionary Feminisms: Conversations on Collective Action and Radical Thought (2020), un libro volto a dimostrare il valore dei femminismi marxisti, anti-razzisti, anti-capitalisti e anti-imperialisti, dell’attivismo di femministe di colore o autoctone di paesi in cui sono subiscono discriminazioni etniciste. Tutte queste esperienze sono presentate, nello studio, per indicare la possibilità di creare coalizioni della sinistra radicale internazionale in grado di contrastare il totalitarismo neoliberista dell’era globale.

Esiste un’evidente coerenza tra l’attività accademica, l’attivismo per i diritti umani e la produzione poetica di Ziadah, la cui intera opera è espressiva della cultura umanista dell’affermazione dell’esistenza palestinese, una resistenza culturale che continua a svilupparsi dalla comparsa del sionismo politico a fine ‘800. In “Shades of Anger”, la poetessa afferma man mano tre dei suoi elementi identitari, la femminilità, l’arabicità e la palestinesità; è come si identificavano le femministe palestinesi che in epoca coloniale lottavano per difendere se stesse e la loro società dal rischio di subire una sostituzione etnica, decisa da Londra, che sin dagli anni 1830 diffondeva in Occidente l’immagine della Palestina come un deserto. Moderniste, convinte di rappresentare in quanto donne l’intera nazione, e che dinanzi alla loro modernità la Lega delle Nazioni avrebbe riconosciuto il diritto all’autodeterminazione del loro popolo, lavoravano per fornire un’istruzione moderna alle bambine, pubblicavano articoli e organizzavano varie forme di protesta per fermare il colonialismo d’insediamento sionista e chiedere l’abolizione del regime mandatario britannico. Nel 1929, erano già molto arrabbiate, perché l’Inghilterra non aveva ancora mantenuto la promessa di riconoscere l’indipendenza della Palestina.

È la rabbia di ogni “donna araba di colore” espressa da Ziadah, in “Shades of Anger, veicolando un messaggio femminista anti-razzista. Il genocidio di Gaza ha portato tutti i nodi al pettine; conferma quanto la poetessa denuncia sia in questa che in altre poesie, come “Hadeel”, “We Teach Life, Sir” e “If My Words” (Se le mie parole); dimostra gli effetti devastanti della pluridecennale propaganda inventata da Israele e divulgata congiuntamente con gli Stati Uniti, per convincere l’opinione pubblica mondiale che la questione della Palestina fosse irrilevante, anzi inesistente, trasformando la causa palestinese in un argomento tabù nei media mainstream e perfino nelle aule delle università occidentali. L’imperialismo statunitense sta anche confermando che il post-colonialismo non esiste, è una mera invenzione, ideata dall’Occidente per nascondere i crimini dell’Europa colonialista e continuare a commetterli in maniera subdola tramite il neoliberismo e le guerre cosiddette “post-coloniali”, utilissime al capitalismo finanziario e generatrici di gravi crisi umanitarie, poiché combattute non al fronte, come quelle del passato, bensì in zone abitate da civili in paesi poveri, poverissimi o in via di sviluppo.

Secondo più studi dello storico israeliano Ilan Pappé, il genocidio di Gaza era prevedibile sin dall’era coloniale; è la terza e più terrificante fase d’intensificazione della Nakba (Catastrofe), la pulizia etnica della Palestina, l’evento catastrofico abbattutosi sul popolo palestinese, nel 1948, ed evocato da Ziadah in molte poesie a cominciare proprio da “Shades of Anger”. Come artista della parola parlata è, però, diventata famosa a livello internazionale soprattutto per il video di “We Teach Life, Sir”, che a fine 2011 aveva ricevuto oltre 1.200.000 visualizzazioni su YouTube.

In un’intervista del 2016, il regista e attivista britannico Ken Loach spiega questo successo, dicendo: “La poesia di Rafeef esige di essere ascoltata. Lei è potente, emozionale e politica. Per favore, leggete i suoi lavori e guardatela esibirsi. Non si può quindi rimanere indifferenti alla causa palestinese”.

Va ricordato che lo spettacolo spoken word, nato negli Stati Uniti nella prima metà del ‘900, inizialmente veniva eseguito dai musicisti blues, nell’ambito del Rinascimento di Harlem e poi della Beat Generation degli anni ’60; sono movimenti artistici rivoluzionari, espressivi dell’opposizione a qualsiasi tipo di oppressione. Ogni letteratura nasce con la poesia, in origine tramessa oralmente e riportata all’oralità primigenia in epoca contemporanea dall’arte della parola parlata.

Quando esegue uno spettacolo spoken word, Ziadah è magnetica, quasi terapeutica; esprime una quantità incredibile di emozioni e sensazioni; usa con grande efficace comunicativa il linguaggio gestuale, e ha perfino un bellissimo timbro di voce. La studiosa rivoluzionaria, attivista per i diritti umani e femminista afroamericana Angela Davis ha descritto così la commozione che aveva provato mentre guardava questa poetessa geniale esibirsi: “Le parole che dice con tale bellezza e grazia ti colpiscono direttamente al cuore. Sono più potenti di qualsiasi arma”.

In un articolo intitolato “Il genocidio di Gaza espone il volto nudo dell’imperialismo”, pubblicato su New Internationalist, il 1° marzo 2024, Bethany Rielly riferisce che alla cerimonia d’apertura del festival di War on Want, svoltasi a Londra il 24 febbraio, Ziadah ha declamato “We Teach Life, Sir”, commovendo moltissimo il pubblico; le persone la guardavano con le lacrime agli occhi e alla fine le hanno dedicato una standing ovation.

Questa poesia pacifista è particolarmente commovente, perché la poetessa afferma che le donne e gli uomini palestinesi insegnano al mondo a vivere, perché amano tantissimo la vita, e da qui la loro proverbiale resilienza, ma vivono sapendo di rischiare sempre di diventare vittime di un massacro commesso da Israele; consapevoli, inoltre, della pericolosità dell’ideologia sionista, temono di morire e sparire dalla Storia dell’umanità insieme alla Palestina. Per evitarlo, all’inizio del genocidio di Gaza, ognuna delle persone prigioniere dell’attuale campo di sterminio più grande del mondo, prevedendo un probabile bombardamento aereo notturno israeliano, prima di andare a dormire, scriveva il proprio nome su un braccio e faceva altresì per i bambini e le bambine in tenera età ancora non in grado di scrivere. Volevano essere riconoscibili, che le loro famiglie rimanessero unite anche nella morte, che un domani le loro storie di vita potessero essere raccontate, che la loro esistenza venisse ricordata.

Tra loro c’era il poeta, accademico e attivista palestinese Refaat Alareer (23 settembre 1979-6 dicembre 2023) che, prima che un attacco israeliano lo uccidesse insieme ai suoi tre figli, un fratello, una sorella e quattro nipoti, aveva invece scritto in inglese la poesia, “If I must die” (Se devo morire), tradotta in 40 lingue poco dopo essere stata pubblicata. Pur essendo breve, il componimento è descrivibile come un testamento, una testimonianza storica del desiderio di vivere in libertà a Gaza, un atto di resistenza culturale, una celebrazione dei diritti dell’infanzia e un inno alla vita. Alla cerimonia d’apertura del festival di War on Want, infatti, Ziadah ha introdotto il suo spettacolo, declamando la poesia di Refaat Alareer, ma lei ne ha cambiato il titolo, trasformandolo in “Let it be a Tale” (Che sia una storia), come per esaudire le ultime volontà espresse dal poeta palestinese prima di volare via:

Se io devo morire,

tu devi vivere

per raccontare la mia storia,

vendere le mie cose

comprare un pezzo di tessuto

e dei ritagli di corda,

(fa’ che sia bianco con una lunga coda)

perché un bimbo, da qualche parte a Gaza

mentre guarda il cielo negli occhi

aspettando suo padre che se n’è andato in un lampo—

senza dire addio a nessuno

neppure alla sua carne

né a se stesso—

veda l’aquilone,

il mio aquilone che tu hai creato, volare alto

e pensi per un attimo che un angelo sia lì

a riportare l’amore

Se io devo morire

che la mia fine porti speranza

che sia una storia con capo e coda

Dal 2007, l’aquilone era il simbolo della volontà di vivere in libertà a Gaza. Ziadah è convinta che sono le donne palestinesi a raccontare la Storia della Palestina e della loro nazione; quindi, cerca di portare avanti questa tradizione tramite l’arte della parola parlata. A metà aprile 2024, la poetessa ha cominciato con il musicista libanese-australiano Phil Mansour una tournee europea (Belgio, Irlanda e Spagna), in cui presenta alcuni dei suoi vecchi capolavori, tra cui “We Teach Life, Sir”, e una selezione di poesie del suo ultimo album Three Generations, del 2020; lei l’ha intitolata “Let it be a Tale” e dedicata alla memoria di Refaat Alareer, che insegnava letteratura comparata e scrittura creativa presso l’ormai distrutta Università islamica di Gaza; per il suo attivismo di resistenza culturale aveva ricevuto minacce di morte da israeliani e sapeva che Tel Aviv avrebbe ordinato alla propria aviazione militare di ucciderlo; è stato ucciso deliberatamente da Israele, secondo un rapporto pubblicato l’8 dicembre 2023 da Euro-Med Human Rights Monitor.

Nella sua poesia, “If I must die”, si coglie un rinvio intertestuale a un verso del Sonetto 18 di William Shakespeare: “Talvolta troppo caldo l’occhio del cielo splende”, riferimento allo splendore del sole, alla bellezza, in questo poema shakespeariano metafora del potere dell’arte di conferire l’immortalità a una persona commemorata dall’artista. Un articolo pubblicato da Black Agenda Report il 13 dicembre 2023 dice: “Il poeta palestinese Refaat Alareer, martire della violenza genocidaria dello Stato sionista ci lascia una storia di resistenza e speranza”. La rivista poi ricorda la poesia “If we must die” (Se dobbiamo morire) scritta in forma di un sonetto shakespeariano dall’autore giamaicano Claude McKay (1890-1948) in risposta agli attacchi violenti compiuti nella società statunitense da bande razziste bianche contro gente di colore durante la cosiddetta “Estate Rossa del 1919”. Dopo oltre un secolo, prosegue l’’articolo, “stiamo assistendo a un’altra guerra razziale, a un altro pogrom: un genocidio. Questa volta è per mano dell’entità terroristica sionista suprematista bianca intenzionata ad annientare la totalità dell’esistenza palestinese. Ancora una volta, un poeta ha catturato sia la terribile violenza dell’epoca sia l’indomabile spirito di sopravvivenza, resistenza e rivolta”. Quest’analisi di critica letteraria, formulata dalla rivista afroamericana con un linguaggio decisamente duro, suggerisce che la poesia di Refaat Alareer contiene rinvii intertestuali sia al sonetto shakespeariano sia a “If we must die” di McKay, divenuto negli anni ‘20 un esponente importante del Rinascimento di Harlem.

L’articolo esprime l’indignazione provata da milioni di persone d’ogni parte del globo dinanzi al genocidio di Gaza e che la poetessa Rafeef Ziadah è riuscita a esprimere, giustamente a nome della sua gente, in un solo tweet postato il 25 ottobre 2023: “In quanto palestinesi non stiamo implorando nessuno di riconoscere la nostra umanità. È quella del mondo che noi stiamo interrogando” [1].

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[1] Per le fonti principali, si veda l’elenco alla fine della 2a parte di questo articolo.

*Patrizia Zanelli insegna Lingua e Letteratura Araba all’Università Ca’ Foscari di Venezia. È socia dell’EURAMAL (European Association for Modern Arabic Literature). Ha scritto L’arabo colloquiale egiziano (Cafoscarina, 2016); ed è coautrice con Paolo Branca e Barbara De Poli di Il sorriso della mezzaluna: satira, ironia e umorismo nella cultura araba (Carocci, 2011). Ha tradotto diverse opere letterarie, tra cui i romanzi Memorie di una gallina (Ipocan, 2021) dello scrittore palestinese Isḥāq Mūsà al-Ḥusaynī, e Atyàf: Fantasmi dell’Egitto e della Palestina (Ilisso, 2008) della scrittrice egiziana Radwa Ashur, e la raccolta poetica Tūnis al-ān wa hunā – Diario della Rivoluzione (Lushir, 2011) del poeta tunisino Mohammed Sgaier Awlad Ahmad. Ha curato con Sobhi Boustani, Rasheed El-Enany e Monica Ruocco il volume Fiction and History: the Rebirth of the Historical Novel in Arabic. Proceedings of the 13th EURAMAL Conference, 28 May-1 June 2018, Naples/Italy (Ipocan, 2022).