della redazione
Pagine Esteri, 5 luglio 2024 – Si riaprono oggi le urne in Iran per il ballottaggio delle elezioni presidenziali in un clima di apatia tra gli elettori e di crescenti tensioni regionali causate dalla guerra tra Israele e gli alleati iraniani Hamas a Gaza e Hezbollah in Libano.
Il voto segue quello del 28 giugno, segnato da un calo record dell’affluenza: il 60% degli elettori iraniani si è astenuto dalle votazioni volte a nominare il successore di Ebrahim Raisi morto in un incidente aereo. I seggi chiuderanno alle 18 locali, ma è probabile che saranno tenuti aperti ancora per alcune ore. Il risultato finale sarà annunciato domani.
Gli iraniani sono chiamati a scegliere tra il parlamentare riformista Masoud Pezeshkian e l’ex negoziatore nucleare Saeed Jalili, un ultraconservatore. Sebbene le elezioni avranno un impatto limitato sulle politiche della Repubblica islamica, il nuovo presidente sarà coinvolto nella scelta del successore dell’ayatollah Ali Khamenei, 85 anni, la Guida suprema dell’Iran che ha diritto di ultima parola sulle questioni più importanti della politica interna ed estera del Paese. Due giorni fa Khamenei ha riconosciuto “un’affluenza alle urne inferiore alle aspettative”, tuttavia, ha aggiunto, “è sbagliato supporre che coloro che si sono astenuti al primo turno siano contrari al governo islamico”.
Il 48% degli elettori aveva partecipato alle elezioni del 2021 che portarono Raisi al potere, mentre l’affluenza alle urne è stata del 41% alle elezioni parlamentari di marzo.
Il dato evidenzia che gli iraniani sono sempre più disillusi rispetto alle possibilità di cambiamento, soprattutto in economia. Soggetto a un pesante regime di sanzioni internazionali guidate dagli Stati uniti, l’Iran non riesce a venir fuori dalla stagnazione economica che ha portato disoccupazione e inflazione. I più scontenti sono i giovani, colpiti dalla mancanza di lavoro e insofferenti, almeno una parte di essi, alle limitazioni delle libertà politiche e sociali.
Non ci si aspetta che il prossimo presidente apporti grandi cambiamenti alla politica del programma nucleare iraniano o abbia un impatto significativo sulla linea di Teheran all’estero. Allo stesso tempo il capo dello stato può influenzare il tono della politica estera e interna dell’Iran.
Pezeshkian e Jalili sono entrambi fedeli alla Repubblica islamica, tuttavia una vittoria di Jalili darebbe più forza a chi sostiene una estera ancora più antagonista nella regione. Il trionfo di Pezeshkian invece potrebbe promuovere più pragmatismo e, in teoria, allentare le tensioni sui negoziati, ora in stallo, con gli Usa e alcuni Paesi occidentali per rilanciare il patto nucleare. Sempre in teoria potrebbe portare anche a un allentamento della rigidità sociale delle autorità in un Paese che circa due anni fa è stato attraversato per settimane da ampie proteste per la morte in detenzione della giovane Mahsa Amini arrestata dalla polizia morale.
Le preoccupazioni maggiori della popolazione sono comunque legate all’economia. Milioni di iraniani lottano per arrivare alla fine del mese e le prospettive di un miglioramento economico saranno ancora più incerte con il possibile ritorno di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. Trump che nel 2018 è uscito unilateralmente dall’accordo sul nucleare iraniano, una volta alla Casa Bianca potrebbe chiedere, anche su pressione di Israele suo stretto alleato, un’applicazione più severa delle sanzioni sulle esportazioni petrolifere di Teheran.
Il ripristino delle sanzioni statunitensi nel 2018 ha ridotto le entrate del governo costringendolo a adottare misure impopolari come l’aumento delle tasse. Il Paese ha evitato conseguenze ancora più gravi grazie alle esportazioni del greggio verso Pechino che però, in totale, restano al di sotto dei livelli precedenti al 2018. Durante i tre anni al potere del presidente Raisi, l’economia iraniana è comunque riemersa dalla crisi del 2018-19 causata dall’imposizione delle sanzioni e il Pil ha raggiunto il picco del 5,7% nell’anno conclusosi a marzo, secondo il Centro statistico iraniano. Tuttavia, gran parte di questa espansione è stata trainata dal settore energetico. Senza gli idrocarburi, la crescita dell’Iran lo scorso anno sarebbe stata solo del 3,4% e la sua bilancia commerciale avrebbe raggiunto un deficit di 16,8 miliardi di dollari. La disoccupazione ufficiale è al 7,6% rispetto al 9,6% quando Raisi fu eletto. Ma le retribuzioni sono estremamente basse e un iraniano è costretto a fare, quando può, più di un lavoro per sopravvivere.
I prezzi per beni di prima necessità come latticini, riso e carne sono saliti alle stelle. Il pane Lavash, il più consumato dalle famiglie iraniane, costa il 230% in più rispetto a tre anni fa. Lo stipendio mensile di un insegnante è di circa 180 dollari e gli operai edili guadagnano poco più di 10 dollari al giorno. Per un cittadino iraniano pesano sulle difficoltà del Paese anche gli squilibri fiscali, la cattiva gestione delle risorse e la corruzione, “malattie” radicate e resistenti alle riforme.
I due candidati alla presidenza dicono di voler attuare il settimo piano di sviluppo approvato dal Parlamento nei mesi scorsi che mira a raggiungere l’8% di crescita annuale, anche con le sanzioni internazionali. La Banca Mondiale invece prevede per l’Iran tassi di crescita annui molto più bassi, intorno al 3% nei prossimi tre anni.
Pezeshkian è l’unico candidato, tra i sei inizialmente ammessi, ad esprimersi apertamente a favore di un rilancio delle relazioni anche con l’Occidente per aiutare l’economia nazionale. Pagine Esteri