di Claudio Avella – 

Pagine Esteri, 19 settembre 2024. Il 29 agosto il governo pakistano, attraverso il Ministro dell’Interno Moshin Raza Naqvi, ha dichiarato che presto verrà annunciata e pianificata una nuova ondata di rimpatri di migranti afgani. La dichiarazione è avvenuta durante un incontro con una delegazione delle Nazioni Unite con il rappresentante speciale per l’Afganistan Indrika Ratwatte.

Non è ancora seguito un annuncio ufficiale come avvenuto nel 2023, ma ormai da diversi mesi, almeno da marzo, il governo dichiara di voler iniziare una seconda fase di rimpatri. Durante la prima fase, lo scorso inverno, almeno 450.000 persone, in quattro mesi, hanno lasciato il Pakistan, dopo che il governo annunciò la deportazione di coloro che fossero privi di documenti.

Si stima che oggi siano più di 4 milioni gli afgani che vivono in Pakistan. Di questi solo 2,9 milioni sono in possesso di un documento valido: la Prova di Registrazione (POR), rilasciata dal governo e frutto di un accordo tra Pakistan e UNHCR del 2006, o la Carta per i cittadini afgani (ACC), frutto di un accordo con l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM). Il Pakistan non ha mai firmato la Convenzione sui Rifugiati delle Nazioni Unite del 1951 e non ha, quindi, un sistema di asilo, per cui circa 500.000 persone sono rifugiati in transito, registrati presso l’UNHCR e in attesa di asilo presso un altro paese.

Dopo la caduta di Kabul nel 2021, circa 500.000 persone sono arrivate in maniera regolare, con un visto di ingresso o registrandosi all’arrivo, ma probabilmente ce ne sono almeno altre 300.000 irregolari.

Lo scorso anno l’operazione del governo aveva destato le attenzioni e gli allarmi di Amnesty International: arresti e detenzioni arbitrarie, separazione di famiglie, inclusi minori, donne e anziani. In almeno 7 dei 49 centri di detenzione o “centri di transito” AI denunciò la sospensione dei diritti legali delle persone detenute, come il diritto a un avvocato o a comunicare con le famiglie. A questo va aggiunto che questi rimpatri sono avvenuti in inverno, quando le condizioni in un paese privo di adeguate infrastrutture come l’Afganistan sono insostenibili. Amnesty denuncia anche che il rimpatrio di donne nell’Afghanistan dei Talebani le espone alla violazione dei diritti umani, quali quello all’educazione, al lavoro e alla libertà di movimento.

Anche le condizioni economiche dell’Afghanistan sono un motivo di fuga dal paese. Spiega a Pagine Esteri Liaqat Banori, avvocato per i rifugiati in Pakistan: “dopo l’annuncio del governo di voler rimpatriare le persone non regolari, quando sono iniziati gli arresti e le detenzioni molti sono tornati volontariamente, per evitare umiliazioni, ma una volta oltrepassata la frontiera hanno trovato condizioni non dignitose: mancanza di infrastrutture e mancanza di opportunità di lavoro. Non c’è certezza di quanti siano tornati volontariamente e quanti siano stati deportati.”

Spiega ancora Banori: “le molestie nei confronti dei rifugiati sono un fenomeno comune in Pakistan e tutti i rifugiati se ne lamentano. Molti rifugiati provvisti di POR o documenti regolari vengono arrestati o detenuti e molti sono stati erroneamente deportati. Non sappiamo questi quanti siano, pochi probabilmente, ma spiegano il livello di violazione di diritti umani nei confronti dei rifugiati in Pakistan.”

Anche chi oggi ha dei documenti validi non si sente al sicuro: la POR, infatti, continua ad essere una Spada di Damocle per i rifugiati, in quanto deve essere rinnovata di continuo dal governo. A luglio di quest’anno il governo ne ha rinnovato la validità per un altro anno.

D’altra parte, il piano del governo è chiaro, spiega Liaqat Banoori: una volta rimpatriati coloro che sono privi di documenti, in una successiva fase saranno rimpatriati coloro in possesso dell’ACC, infine coloro che sono in possesso della POR.

Shameen e Mukhtar (nomi di fantasia per proteggere il loro anonimato), raggiunti nella città vecchia di Peshawar, raccontano: “non possiamo dire apertamente alla gente che siamo afgani, soprattutto alle autorità, anche se siamo registrati regolarmente, perché abbiamo paura di essere deportati”.  Entrambi hanno lavorato, prima della caduta di Kabul, per organizzazioni statunitensi come carpentieri o trasportatori. Shameen è in attesa da tre anni di ottenere lo stato di rifugiato per il Canada. Dopo aver passato due anni a Karachi, si è trasferito a Peshawar per evitare il rischio di essere deportato insieme alla famiglia.

Peshawar, Shameen e Mukhtar, afghani in Pakistan (Foto: Claudio Avella)

Le attese infinite per chi si trova nella condizione di rifugiato in transito sono estremamente comuni: Spasil Zazai, racconta a PagineEsteri una storia simile a quella raccontata da diverse altre persone intervistate in questi giorni. Spasil vive a Peshawar con tre delle sue quattro figlie; la quarta è fuggita in Polonia dopo aver ricevuto minacce di morte a causa della sua attività di attivista e poliziotta prima dell’arrivo dei Talebani al potere. Spasil ha divorziato dal marito, un uomo violento che oggi vive nell’Afganistan dei Talebani, ed è diventata un’attivista per i diritti delle donne. Dopo tre anni, la sua famiglia è ancora in attesa di ottenere asilo.

Spasil Zazai, attivista per i diritti delle donne (Foto: Claudio Avella)

Anche la ricerca di un lavoro o di una casa dove vivere è estremamente difficile: molti datori di lavoro non vogliono assumere persone che potrebbero essere rimpatriate da un momento all’altro e i proprietari di case preferiscono evitare potenziali problemi con le autorità, affittando le proprie case a persone che potrebbero diventare irregolari.

Alcune fonti ritengono che le politiche del Pakistan di deportazione in massa dei rifugiati siano una leva strategica per fare pressione sul governo afgano, ogniqualvolta i gruppi talebani pakistani, appartenenti al Tehrik-e Taliban Pakistan (TTP), incrementano la propria attività terroristica.

A farne le spese sono i rifugiati, la cui vita sembra un percorso a ostacoli senza mai fine. Pagine Esteri