di Claudio Avella –
Pagine Esteri, 16 ottobre 2024. Aline à una donna transgender afgana. L’ho incontrata in una casa di Peshawar dove vivono alcune donne della comunità transgender pakistana con cui ho organizzato delle interviste. Alina che non vive qui, arriva verso sera, accompagnata da altre quattro altre persone, per proteggere la sua incolumità.
Ripercorre rapidamente la sua storia: subito dopo la caduta di Kabul è scappata dall’Afganistan con altre due amiche, anche loro transgender, raggiungendo il Pakistan. Ma la sua aspirazione è quella di ottenere asilo in un altro paese. Le sue amiche sono riuscite a raggiungere il Canada tramite Rainbow Railroad, un’organizzazione che assiste le persone LGBTQI+ in tutto il mondo, ma il suo caso dopo tre anni è ancora sotto esame.
Durante l’intervista il suo sguardo e le sue parole rivelano lo shock e la paura dovuto alle violenze che subisce in quanto transgender. Quattro mesi fa un gruppo di otto uomini l’ha rapita, picchiata e stuprata e ha filmato tutto. L’hanno poi minacciata che, se lei non li avesse pagati, avrebbero diffuso il video su canali social. Alina non ha potuto pagare e il suo video è stato diffuso. Non è stata né la prima, né l’ultima volta che ha subito violenze. L’ultima volta, poche settimane fa, l’aggressione si è conclusa tragicamente con l’assassinio della sua “guru” fuori dalla casa dove vivevano insieme. La “guru”, insegnante, è una figura che si prende cura delle persone che si uniscono alla comunità transgender.
Le denunce alla polizia non hanno sortito alcun effetto.
Ora Alina mi dice che ha paura ad uscire di casa e ripete ossessivamente che è depressa e piange di continuo.
Il mancato intervento delle forze dell’ordine e la colpevolizzazione della vittima sono molto comuni: “nei verbali della polizia l’identità di genere della vittima diventa la causa della violenza che subisce”, spiega Syeda Jessica, addetta alla comunicazione di Have Only Positive Expectations (HOPE), organizzazione che raccoglie le testimonianze di violazione dei diritti umani subite delle persone transgender, soprattutto quando commesse da apparati dello Stato.
Il Pakistan ha perso l’occasione di diventare un’avanguardia in Asia Meridionale da quando la legge del 2018 sulla Protezione delle Persone Transgender, considerata anche da Amnesty International un punto di riferimento, è stata attaccata su più fronti da campagne di disinformazione e, a partire dal 2021, da partiti religiosi conservatori attraverso emendamenti di modifica e dal tribunale islamico pakistano, la Corte Federale della Sharia, che l’ha definita legge anti-islamica con una sentenza del 19 maggio 2023. La legge permetteva alle persone transgender di autodeterminarsi e indicare il genere in cui si riconoscevano sui documenti di identità, senza sottoporsi a esami medici e proibiva la discriminazione e le molestie nei loro confronti. La Corte Federale della Sharia, però, considera la deviazione dal sesso biologico non conforme all’interpretazione dell’Islam.
Secondo un censimento del 2021 in Pakistan ci sarebbero quasi 22,000 persone transgender, ma il dato potrebbe essere altamente sottostimato. Un rapporto di HOPE, International Commission of Jurists e Sathi Foundation riporta, inoltre, che in base alle denunce risulterebbe che nel 2021 siano state uccise 20 persone transgender, ma anche che solo il 34% dei casi vengono riportati alla polizia. Secondo Trans Action Pakistan, il numero di casi di violenza, solo nella regione del Khyber Pakhtunkhwa, ammonterebbe a 479 nel solo 2018.
È proprio nel Khyber Pakhtunkhwa che Hayat Roghaani, fondatore di Mafkoora, organizzazione che si occupa di diffusione di pratiche non-violente, distribuisce il suo libro, Queen Zarqa, sulla vita delle persone transgender di Peshawar, per sfidare la cultura conservatrice delle aree tribali. È stato lui a presentarmi Mahi.
Mahi è la vicepresidente di Trans Action Pakistan. Spesso accompagna donne transgender presso i comandi di polizia e i tribunali per denunciare casi di violenza. Si trova a Peshawar da circa sette anni. Si è allontanata dalla famiglia dopo aver frequentato il college, poiché la sua transizione non era accettata. Oggi i suoi rapporti con la famiglia sono migliorati anche grazie al contributo economico che fornisce.
Si considera fortunata: il fatto di avere avuto un’educazione universitaria le ha permesso di lavorare presso delle ONG. Ma la norma è molto differente: spesso le persone transgender lasciano la propria casa quando sono minorenni. Alcune lavorano come sex workers, molte altre, invece, lavorano come danzatrici in feste e matrimoni. Spesso alle performance seguono, però, violenze e stupri.
La storia di Nazish ripercorre proprio questo modello: è andata via da Karachi e ha raggiunto Peshawar a 12 anni. Allora trovò un “fidanzato”, un ragazzo appena maggiorenne che ancora oggi, nonostante abbia un’altra famiglia, la frequenta circa una volta a settimana. Ma questo “fidanzato” è in realtà un uomo violento, non estraneo allo stupro e alle minacce verso le donne trans. Il fatto che Nazish sia “la sua fidanzata” la protegge dagli altri uomini, ma non dalle sue violenze. Quando ha provato a riportare il caso alla polizia è stata minacciata dai suoi amici ed è stata costretta a ritirare la denuncia.
Nazish lavora come danzatrice e organizza feste nella propria casa, dove vive con altre donne transgender, tra cui Mahi. Persino a casa non è al sicuro: mi mostra i segni sul collo lasciati da un gruppo di clienti che dopo una performance ha cercato di sgozzarla. Si è salvata solo perché in casa c’erano Mahi e altre persone che sono intervenute.
Anche se esistono degli spiragli, come alcuni casi di persone transgender all’interno della polizia, secondo Syeda Jessica, senza una legislazione attiva, che riconosca l’identità delle persone transgender e le protegga, ci sarà sempre un elevato livello di violenza, discriminazione e mancanza di accesso all’educazione, al lavoro, alla salute e alla casa. Pagine Esteri