di Marco Santopadre
Pagine Esteri, 30 ottobre 2024 – I “rami secchi” che Volkswagen intende tagliare sono assai più numerosi di quanto fosse ipotizzabile qualche settimana fa.
Se l’annuncio della probabile chiusura di uno stabilimento in Germania, per la prima volta nella sua storia, aveva suscitato scalpore ed estrema preoccupazione, ora l’annuncio da parte dei sindacati – dopo un ennesimo round di trattative con la multinazionale – che gli impianti da sacrificare potrebbero essere minimo tre ha scatenato letteralmente il panico nel paese già in recessione e alle prese con una crisi economica che non accenna a risolversi.
Le vendite di automobili non hanno raggiunto la quota precedente alla pandemia e l’azienda ha un problema di remunerazione. Negli anni scorsi Volkswagen ha scommesso sul mercato dei veicoli elettrici con l’obiettivo dichiarato di evitare che l’americana Tesla facesse il pieno.
Ma anche se le vendite di automobili elettriche stanno crescendo, il ritmo è molto lento e la multinazionale tedesca soffre la competizione non solo della concorrente texana, ma anche quella delle agguerrite aziende cinesi che neanche i pesanti dazi europei – che entreranno in vigore il 31 ottobre – riusciranno del tutto a bloccare.
Paradossalmente, anzi, i sempre più pesanti balzelli imposti ai veicoli cinesi importati in Europa rischiano di scatenare una pari rappresaglia di Pechino nei confronti delle automobili tedesche esportate in Asia.
Per non parlare del fatto che ad essere penalizzate dai draconiani dazi europei saranno anche le vetture elettriche prodotte in Cina ma da aziende continentali che speravano, delocalizzando, di abbattere i costi.
Se la quota di mercato conquistata da VW con l’elettrico è minore di quella prevista a causa dell’aspra concorrenza, in generale le macchine elettriche si vendono ancora poco per vari motivi: prezzi alti, difficoltà di manutenzione, mancanza in molti paesi di un numero sufficiente di colonnine per la ricarica, aumento del prezzo dell’elettricità.
Anche altre case automobilistiche basate in Europa – basti vedere Stellantis – sono in crisi nera.
In più la sentenza del Tribunale Costituzionale tedesco che alla fine del 2023 ha obbligato il governo di Berlino a ritirare gli incentivi all’acquisto, nei primi otto mesi dell’anno in corso ha causato un crollo delle vendite del 32%. Sulla produzione pesa inoltre da alcuni anni l’impennata dei costi dell’energia elettrica – conseguenza del blocco imposto dall’occidente nei confronti del gas russo dopo l’invasione dell’Ucraina da parte delle truppe di Mosca – e la crescita dei prezzi di alcune materie prime.
Piuttosto che sopportare un calo dei profitti per qualche anno, in attesa di tornare a crescere, la multinazionale ha deciso di fare quello che nessuno avrebbe mai immaginato: chiudere le fabbriche in Germania e licenziare parecchie migliaia di operai e impiegati.
Da circa un anno l’azienda ha iniziato a tagliare i costi applicando una rigoroso politica di contenimento e risparmio, eliminando dalle catene di montaggio i modelli meno redditizi, compresi alcuni a trazione elettrica.
Ma ora la direzione ha deciso che occorre passare alla fase due, con un piano “lacrime e sangue”.
Secondo alcune fonti ad essere tagliati in Germania potrebbero essere addirittura 15 mila dipendenti su un totale di 296 mila. Una mattanza.
Il governo tricolore guidato da un sempre più sbiadito e delegittimato Scholz ha promesso che farà tutto il possibile per evitare la chiusura degli stabilimenti e ridurre al minimo gli “esuberi”, ma finora non ha fornito dettagli illuminanti.
Per limitare i tagli (parte dei quali comunque rimarrebbero) secondo Handelsblatt, la casa automobilistica tedesca fondata nel 1937 potrebbe “accontentarsi” di una riduzione dei salari del 10% (a fronte di un aumento di almeno il 7% chiesto dai sindacati dei lavoratori) da applicare a tutti i dipendenti, al quale occorre aggiungere il taglio di un’indennità che vale un altro 8% della retribuzione.
Sempre che la crisi dell’automotive non peggiori e si estenda. Per far quadrare i conti – che includono i compensi stratosferici di azionisti e manager – l’azienda dovrebbe vendere almeno 500 mila “auto del popolo” in più ogni anno.
Al momento il consiglio d’amministrazione spera che la nuova Volkswagen ID.2, un’auto elettrica a prezzi più accessibili, possa permettere un’impennata delle vendite a partire dal prossimo anno. Il veicolo dovrebbe essere messo in commercio nella seconda metà del 2025 ad un prezzo inferiore ai 25 mila euro, conquistando nuove fette di mercato.
Intanto però i sindacati minacciano battaglia. “Se sarà necessario decine di migliaia di persone manifesteranno davanti alla fabbriche della Volkswagen e nelle strade” ha minacciato Thorsten Grögerm, il negoziatore capo della delegazione dell’IG Metall, mentre Daniela Cavallo, leader del “Consiglio di Fabbrica” globale dell’azienda, ha definito “inaccettabile” e “squallido” il comportamento dei manager, in particolare dell’amministratore delegato Oliver Blume e del direttore Thomas Schaefer.
I primi scioperi di avvertimento sono già iniziati e alla fine dell’anno partiranno le mobilitazioni più massicce, rompendo una tradizione di concertazione in voga da parecchi anni.
Oltre a chiudere tre fabbriche in patria, il gruppo Volkswagen (che comprende i marchi Porsche, Audi e Seat) taglierà sicuramente la produzione – e quindi l’organico – anche nei suoi stabilimenti disseminati in Europa. Paradossalmente, alcuni di questi potrebbero essere venduti proprio agli odiati cinesi e quasi sicuramente verrà chiusa la fabbrica dell’Audi a Bruxelles.
Inoltre l’azienda vorrebbe dimezzare quello di Zwickau, in Sassonia, dove all’epoca della Repubblica Democratica Tedesca si costruivano le ambite Trabant.
La crisi occupazionale potrebbe infiammare ulteriormente il clima nelle regioni orientali della Germania dove la crisi e la propaganda xenofoba hanno garantito un boom all’estrema destra e un’affermazione della sinistra conservatrice scissasi dalla Linke. Pagine Esteri