di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 20 novembre 2024 – Nei giorni scorsi i media di mezzo mondo hanno riportato con grande enfasi le dichiarazioni rese dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan ad alcuni giornalisti. L’affermazione di Erdogan «i rapporti con Israele sono stati interrotti» è stata interpretata come l’annuncio di una definitiva sospensione delle relazioni tra i due paesi come coronamento di 13 mesi di reciproci atti ostili seguiti all’inizio del genocidio israeliano contro i palestinesi.
Il 14 novembre l’agenzia ufficiale turca Anadolu si è spinta a scrivere che il presidente ha dichiarato: «abbiamo deciso di interrompere i rapporti diplomatici con Israele e attualmente non abbiamo relazioni con loro».
Nessuna “rottura totale”
Ma le dichiarazioni del “sultano” volevano sottolineare la discesa al minimo dei rapporti, in particolare di tipo commerciale, con lo “stato ebraico”, non annunciare la rottura con Tel Aviv.
Il governo israeliano non ha infatti confermato le dichiarazioni del leader islamo-nazionalista turco, e le relazioni diplomatiche tra i due paesi per ora proseguono, per quanto a livelli minimi. In una nota, il Ministero degli Esteri di Tel Aviv ha avvisato di non essere a conoscenza di alcun cambiamento nello stato dei rapporti con la Turchia.
Che, sicuramente, non sono mai stati così pessimi, neanche dopo la strage compiuta a bordo di un’imbarcazione turca – la Mavi Marmara – che intendeva portare aiuti alla popolazione di Gaza insieme alla Freedom Flotilla dai commando israeliani. L’assalto del 31 maggio 2010 costò la vita a dieci cittadini turchi, costringendo Erdogan a raffreddare i rapporti con Tel Aviv. A raffreddare, ma non a interrompere del tutto. Anzi, dopo alcuni anni di ostilità evidente, le relazioni politiche, militari e commerciali erano gradualmente cresciute di intensità – soprattutto dal 2016 al 2021 – e proprio lo scorso anno sembrava che i due paesi fossero pronti alla riconciliazione anche formale.
Erdogan e Netanyahu si erano infatti incontrati a New York il 20 settembre del 2023, avviando una completa normalizzazione delle relazioni, seguita all’ennesima crisi del 2021 ma interrotta dalla natura strategica e indiscriminata della rappresaglia israeliana agli attacchi del 7 ottobre.
Da quel momento, i rapporti sono di nuovo rapidamente peggiorati, con il leader turco che ha fatto ampio ricorso alla propria retorica incendiaria contro Tel Aviv ergendosi a strenuo difensore dei palestinesi, anche in virtù degli stretti legami tra il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo di Erdogan e Hamas, entrambi membri della Fratellanza Musulmana.
Erdogan tra estremismo verbale e realpolitik
Erdogan ha definito il premier israeliano un «vampiro che si nutre di sangue» ed ha più volte accostato Netanyahu ad Adolf Hitler, definendo genocidio quello provocato nella Striscia di Gaza dagli attacchi israeliani e incitando i paesi musulmani a rispondere in maniera unitaria e compatta all’espansionismo israeliano.
«L’unico passo che fermerà l’arroganza, il banditismo e il terrorismo di Stato israeliani è l’alleanza dei paesi islamici» ha detto il “sultano” durante un evento organizzato dall’associazione delle scuole islamiche nei pressi di Istanbul. L’appello è stato lanciato dopo l’uccisione, da parte dei militari israeliani, di Aysenur Ezgi Eygi, un’attivista turco-americana di 26 anni che stava partecipando a una manifestazione pacifica contro l’espansione degli insediamenti coloniali ebraici nella Cisgiordania occupata.
All’inizio di novembre, poi, il governo turco ha indirizzato alle Nazioni Unite la richiesta di un embargo internazionale delle armi e delle munizioni nei confronti di Israele, invitando tutti i paesi aderenti alla Lega Araba a sostenere la petizione.
Nei giorni scorsi, poi, il governo turco ha negato l’accesso al proprio spazio aereo al velivolo che avrebbe dovuto condurre il presidente israeliano Isaac Herzog a Baku, dov’era atteso per partecipare alla Conferenza delle Nazioni Unite sul clima.
Dopo l’inizio dell’invasione israeliana del sud del Libano, infine, Erdogan ha denunciato la volontà di Israele di espandersi territorialmente anche nel resto del Medio Oriente – buona parte del quale è rivendicato da ampi settori del panorama politico israeliano – ed ha affermato che Netanyahu avrebbe «messo gli occhi sull’Anatolia», lasciando intendere che le forze armate di Ankara sono pronte a respingere ogni minaccia.
Erdogan, il suo governo e il suo partito continuano però ad essere oggetto di forti critiche e di capillari campagne di mobilitazione e denuncia da parte dei partiti dell’opposizione e di una vasta rete di organizzazioni ed associazioni – progressiste ed islamiste – che accusano il “sultano” di fare la voce grossa con Tel Aviv di mantenere, sottobanco, consistenti relazioni commerciali e militari con lo “stato ebraico”.
L’indignazione suscitata anche in ambienti conservatori e nazionalisti dalla doppiezza del Reis è costata parecchie migliaia di voti all’Akp, uscito sonoramente sconfitto dalle elezioni amministrative del 31 marzo scorso.
Per cercare di rimediare, il 2 maggio scorso il governo e lo stesso presidente hanno annunciato con enfasi la cessazione degli scambi commerciali con Tel Aviv, che al momento ammontavano ad un totale di ben 7 miliardi di dollari, e il varo di alcune sanzioni. «La Turchia applicherà queste misure in modo rigoroso fino a quando il governo israeliano non garantirà il pieno accesso degli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza» aveva promesso in un comunicato il Ministero del Commercio di Ankara.
Idrocarburi, gas e acciaio
Ma a ben guardare, a diversi mesi di distanza, pur essendo in calo il volume delle relazioni economiche tra i due paesi – parte delle quali realizzate attraverso una triangolazioni con altri stati – rimane molto consistente soprattutto nei settori bellici e petroliferi.
La Turchia fa infatti da intermediaria tra l’Azerbaigian, grande esportatore di petrolio e gas, e Israele, che riceve da Baku il 50% del proprio fabbisogno energetico. Il greggio, pompato tramite un oleodotto fino alla località turca di Ceyhan (vicino ad Adana) dall’impresa statale azera SOCAR, viene poi reindirizzato allo “stato ebraico” a bordo di petroliere. Ankara, per il servizio fornito, riceve ovviamente un compenso.
Anche l’impresa militare turca Baykar, diretta dal genero di Erdogan, e la Zim Integrated Shipping Service – azienda specializzata nel trasporto di armi – continuano a fare affari con Israele.
Altre merci, come ad esempio l’acciaio, il cemento, macchinari e prodotti chimici continuano ad essere venduti a Tel Aviv, anche se descritti nei documenti ufficiali come diretti alla “Palestina”. Secondo i dati ufficiali dell’Istituto statistico turco, la Turchia avrebbe ridotto “a zero” le esportazioni da maggio, rispetto a una media mensile di 380 milioni di dollari nei primi quattro mesi dell’anno. Ma allo stesso tempo le esportazioni verso i territori palestinesi, che devono passare attraverso Israele avrebbero raggiunto una media mensile di 127 milioni di dollari nel periodo giugno-settembre, rispetto ai soli 12 milioni registrati nei primi quattro mesi dell’anno. Nei primi 10 mesi dell’anno, le esportazioni verso i territori palestinesi sarebbero invece aumentate del 543% rispetto all’anno precedente. Un boom troppo repentino e ingiustificato che nasconde una evidente violazione dell’embargo commerciale ad Israele.
I traffici – che vedono coinvolti imprese riconducibili ad imprenditori vicini all’AKP quando non direttamente ad esponenti di punta del partito del presidente – sono stati più volte denunciati dalle reti di solidarietà con il popolo palestinese che hanno organizzato manifestazioni e presidi nei porti turchi di Istanbul, Mersin e Kocaeli, subendo periodiche ondate di arresti, divieti e violenti interventi di piazza delle forze dell’ordine.
I timori della Turchia
Appare evidente che né Erdogan né gli ambienti economici dominanti turchi intendono rinunciare agli affari d’oro garantiti dalla macchina militare israeliana, né alla fitta rete di relazioni politiche, commerciali e militari intrecciate negli ultimi anni con l’Azerbaigian, repubblica ex sovietica dell’Asia Centrale abitata da popolazioni di lingua e cultura turca. È grazie al massiccio sostegno militare israeliano – oltre che turco – che il regime di Baku è riuscito negli anni scorsi a sbaragliare le forze dell’Armenia e a riprendesi il Nagorno-Karabakh.
Inoltre il “sultano” teme che una rottura totale con Israele convinca l’amministrazione statunitense a punire la Turchia, soprattutto ora che tornerà al potere Donald Trump, sponsor acritico dello “stato ebraico” e da sempre molto impaziente nei confronti dei tentativi di Erdogan di mantenere il piede in due scarpe – la Nato e i Brics capitanati da Russia e Cina – e di portare avanti un’agenda internazionale autonoma rispetto agli interessi di Washington. Tra le nomine del nuovo gabinetto statunitense spiccano già vari ministri e segretari esplicitamente ostili nei confronti di Ankara.
D’altra parte l’entità del massacro e delle distruzioni provocate da Israele nei territori palestinesi e poi anche in Libano, e le conseguenti trasversali proteste dell’opinione pubblica turca, costringono Erdogan a prendere provvedimenti, anche in virtù del ruolo di leadership che il “sultano” intende giocare in Medio Oriente e nel mondo musulmano genericamente inteso. Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive anche di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con Pagine Esteri, il Manifesto, El Salto Diario e Berria