di Pina Fioretti –
Pagine Esteri, 18 dicembre 2024. Meno di un mese fa si è conclusa a Venezia la mostra “Foreigners In Their Homeland”, proposta dal Palestine Museum US, una collettiva di 26 artisti tra i quali Mohammad Alhaj e Maisara Barud, entrambi di Gaza, che hanno partecipato con opere realizzate nella Striscia nel periodo compreso tra il novembre 2023 e il marzo 2024, praticamente sotto i bombardamenti. I due artisti sono di Gaza City e con le loro famiglie sono sfollati in altre zone. I disegni che hanno elaborato e che sono stati esposti a Venezia descrivono l’esodo forzato, lo sfollamento, la violenza dei bombardamenti, la condizione di nuovi profughi.
Di recente, Tommaso Montanari ha citato Mohammed Alhaj nel suo bellissimo e coraggioso articolo: “Muhammad e la Biennale degli internati di Gaza”. Il Rettore dell’Università per Stranieri di Siena mesi fa aveva formalmente invitato l’artista e la studentessa Aya Ashour che purtroppo restano segregati a Gaza come la maggior parte della popolazione superstite che sta cercando di sopravvivere ai violenti bombardamenti israeliani.
In questi mesi sono rimasta in costante contatto con Alhaj che mi ha messo al corrente dei suoi spostamenti mentre cercava di rifugiarsi con la famiglia in luoghi più sicuri. Ho assistito impotente al suo smarrimento, alle sue paure e angosce. Chiunque abbia amici e contatti nella Striscia ha fatto la medesima esperienza.
All’inizio dell’attacco israeliano, Mohammad ha iniziato a registrare sulle sue pagine social le perdite dei suoi colleghi e colleghe, postando con dolore e rabbia le opere e i nomi di artiste e artisti uccisi dalle bombe. Successivamente, con fatica e anche con scetticismo, ha ricominciato a disegnare utilizzando il poco materiale a disposizione. Ciò che lo scoraggiava era l’atteggiamento della stampa e della politica mondiale che guardano indifferenti al genocidio che a Gaza stanno subendo. Qualche mese fa, durante una chiamata su whatsapp, mi ha chiesto se fosse possibile far entrare a Gaza materiale e strumenti per disegnare e dipingere. Ha precisato che era ben consapevole che ciò di cui tutti a Gaza hanno bisogno è il cibo e i medicinali e che si sentiva anche in imbarazzo nel fare quella richiesta: “Ma se noi artisti che stiamo sopravvivendo non ricominciamo a dipingere e a lavorare è come se ci fossimo già arresi, è come vederci già morti, sarebbe come consegnarci a chi sta decretando il nostro destino… in altre parole vogliamo resistere”.
Come si fa a far arrivare nell’inferno di Gaza colori e pennelli, tele e acrilici? Ho già i miei dubbi su come e cosa veramente entri a Gaza di tutti gli aiuti che stanno raccogliendo da più parti e di come e da chi questi vengano gestiti. Non me la sono sentita di dare seguito alla proposta di alcuni artisti italiani, ai quali avevo parlato della richiesta di Mohammed, che volevano lanciare una raccolta materiale. Troppe incertezze sull’esito, cioè sul far arrivare veramente l materiale a Gaza. Ho risentito Mohammed pochi giorni dopo confessando tutto il mio/nostro fallimento e gli ho riferito che era impossibile.
Ma Gaza ha “la sua pellaccia dura, agisce di spontanea volontà”, come scrive Mahmoud Darwish e come stanno dimostrando i palestinesi a Gaza. Resistono, con determinazione!
Così fa Mohammed Alhaj che invece ha deciso di lanciare un progetto, una serie di workshop coinvolgendo altri artisti fino a realizzare una mostra dal titolo “La Stampa Cieca: quadri che raccontano storie di resistenza a Gaza”. Il progetto rappresenta la conclusione del laboratorio artistico che ha coinvolto un ampio gruppo di studenti delle Belle Arti e giovani artisti nei loro diversi e attuali luoghi di sfollamento (Al-Nuseirat, Deir al-Balah e le zone costiere di Khan Younis), con il supporto del “Centro Abdel Mohsen Qattan”.
Domenica 16 dicembre la mostra è stata così inaugurata sui muri esterni dell’ospedale Al-Awda, nel nord del campo profughi di Nuseirat, nel centro della Striscia di Gaza. Una mostra di opere ispirate dal dolore palestinese che si trasforma in un messaggio di speranza che attraversa i confini. Mohammed ha condiviso le foto dell’inaugurazione, mi ha inviato i video dei workshop realizzati letteralmente tra le macerie.
L’arte racconta storie di resilienza e resistenza e questa mostra parla di storie di lotta quotidiana, di sogni dei bambini di Gaza che si rifiutano di spezzarsi. Alhaj ha descritto la tecnica eseguita basata sul disegno di linee e forme attraverso l’uso di strumenti simili a quelli della scultura su carta (tecnica di embossing) che produce un effetto tridimensionale. Il concetto alla base di “Stampa cieca” è l’oscurità della scena politica che vive la popolazione di Gaza da oltre un anno e che spera di rivedere la luce alla fine di questa terrificante aggressione militare. L’artista ha sottolineato che anche le opere affrontano le quotidianità vissute dai profughi palestinesi durante la guerra, rimangono cioè velate dalla nebulosità del contesto che li circonda. Si tratta di una metafora potente: per ammirare questi lavori artistici bisogna avvicinarsi molto. Ha evidenziato la necessità di accostarsi e osservare la scena da una distanza ravvicinata per comprendere il loro messaggio artistico, poiché vederlo da lontano fa perdere tutti i dettagli, proprio come accade nella situazione di Gaza, dove il mondo intero osserva da lontano senza cogliere i dettagli degli eventi in modo adeguato.
Una delle artiste partecipanti è la giovane Widad Al-Kahlout che ha risposto all’annuncio di Alhaj e che ha dichiarato: “Questa opportunità è stata fantastica poiché noi artisti a Gaza siamo stati privati dello spazio artistico, siamo stati colpiti e penalizzati in tutti gli aspetti della nostra vita. Cerco di partecipare a qualsiasi progetto che supporti l’arte e gli artisti, e che mi dia lo spazio per esprimere me stessa attraverso la mia arte. La mostra Stampa cieca indica come sfruttare gli strumenti a nostra disposizione in un contesto di guerra, un contesto in cui molti materiali artistici necessari per la creatività e la realizzazione di opere non sono più reperibili ma è soprattutto il modo per dimostrare che la bellezza può emergere anche da profondo dolore”.
L’artista Haitham Zaarab ha collaborato al workshop tenutosi a Khan Younis e per lui questo progetto “Vuole dimostrare al mondo che la creatività palestinese è più forte di ogni barriera e che Gaza continua a creare nonostante il dolore. Ancora una volta, il popolo palestinese dimostra di saper trasformare la sofferenza in una fonte di ispirazione e creatività, riflettendo la loro resilienza di fronte alle sfide”.
E mentre in Italia si spera che qualche grande museo possa raccogliere l’invito di Monatanari, ospitare cioè le opere degli artisti di Gaza, noi intanto ne ammiriamo alcune sulle pareti di un ospedale, luogo di sofferenza e dolore, che grazie a questo progetto artistico, almeno per qualche giorno, diventa spazio di creatività e vita.
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Foto di Mohammad Alhaj
Interviste a Al-Kahlout e a Zaarab di Saher Dalhiz