di Eliana Riva –

Pagine Esteri, 16 gennaio 2025. Un giornalista si sfila il casco e il giubbotto antiproiettile mentre in camera, dinanzi a una folla di persone, annuncia ciò che a Gaza attendevano da ore, da mesi: l’accordo è stato raggiunto, il cessate il fuoco finalmente ci sarà. Non ora però. In un post su X (ex Twitter), questo pomeriggio l’Unicef scriveva: “Negli ultimi tre giorni si è registrato un aumento del numero di bambini uccisi nella Striscia di Gaza. Al momento, più di 120 bambini sono stati uccisi a Gaza dall’inizio dell’anno. L’uccisione di bambini deve cessare. Non domani, non la prossima settimana. ADESSO”.

 

La strage di bambini dovrebbe fermarsi alle 12.15 di domenica, dopo 15 mesi di sofferenze inimmaginabili per la popolazione di Gaza. il 7 ottobre 2023 era cominciato con circa 1.200 vittime israeliane in seguito all’attacco di Hamas in Israele e 250 ostaggi portati nella Striscia. La vendetta si è abbattuta su Gaza con violenza indicibile e in 15 mesi ha causato circa 48.000 vittime accertate (nella realtà il bilancio raggiungerebbe almeno i 60.000 morti), 2 milioni di sfollati e una distruzione “da paesaggio lunare”, come l’ha definita un funzionario delle Nazioni Unite.

La popolazione di Gaza è scesa in strada già prima dell’annuncio ufficiale. C’era “felicità nell’aria”, raccontavano dal pomeriggio di ieri i giornalisti. Qualcosa che non si provava da più di un anno, emozioni represse, timori, dubbi, disillusione. Tutto è stato spazzato via dai cortei festanti di bandiere sventolate, abbracci di famiglie che si sono ritrovate vive, almeno in parte, speranza di sopravvivenza per i feriti, gli ammalati, per chi ha perso tutto.

Eppure, prima e dopo la notizia, le bombe hanno fatto massacri difficili da descrivere. Famiglie intere spazzate via, a pezzi, come fossero calcinacci caduti da un muro. Bambini irriconoscibili. Una strage infinita, che negli ultimi tre giorni si è allargata al crescere delle speranze. C’erano “conti” da chiudere, si doveva colpire il più possibile fin tanto che era possibile. E gli attacchi non si sono fermati con l’annuncio del cessate il fuoco. Continuano tutt’ora.

Nella zona di Gaza City, secondo la Protezione civile, i raid si sono intensificati dopo l’annuncio dell’intesa, pronunciato del primo ministro del Qatar. Un attacco israeliano ha colpito un blocco residenziale nella zona di Sheikh Radwan, uccidendo 12 persone e ferendone altre 20. Molti analisti ritengono che i prossimi tre giorni saranno ancora più difficili per la popolazione di Gaza, perché Israele proverà a colpire più che può, prima dell’entrata in vigore del cessate il fuoco, che in base a ciò che sappiamo prevede un accordo in tre fasi. Le prime due, di 42 giorni ciascuna, con un rilascio graduale degli ostaggi da parte di Hamas, a cadenza più o meno settimanale. 33 ostaggi tra cui donne, bambini, malati e uomini di età superiore ai 55 anni saranno gradualmente rilasciati nel corso di un periodo di 42 giorni. I detenuti palestinesi rilasciati potrebbero essere fino a 1.650, qualcuno rimarrà nei territori ma quelli con accuse più pesanti saranno mandati all’estero, in Qatar e in Turchia, forse. Qualcuno ha nominato anche l’Egitto. Proprio sul confine egiziano, si parla di un’apertura del valico di Rafah per garantire l’ingresso degli aiuti e l’uscita dei feriti più gravi. In teoria, l’esercito israeliano dovrebbe permettere alla popolazione sfollata, almeno in parte, di ritornare dal sud al nord della Striscia. Molte famiglie sono state separate in questi mesi, chi è fuggito a sud non può fare ritorno nelle proprie case del nord e chi è rimasto a nord ha sofferto la fame estrema e l’assedio, senza possibilità, spesso, di spostarsi verso sud.

Dopo 16 giorni dall’inizio dell’accordo, si discuterà della seconda fase, che dovrebbe includere il rilascio di 65 ostaggi israeliani. Come in passato, il problema con il rilascio totale degli ostaggi risiede nel timore, da parte di Hamas, che non potendo più trattare, Israele ricomincerà i suoi attacchi, in una parentesi temporale potenzialmente infinita. A seconda di come l’accordo procederà, se si riuscirà ad accedere alle fasi successive alla prima, Israele dovrebbe ritirarsi in parte dalla Striscia, mantenendo la presenza in una zona cuscinetto che si estenderà circa un chilometro dentro Gaza.

Tutto è in forse, tutto è una probabilità. Impossibile, guardando la composizione in fasi successive e incerte del trattato, non rivedere le debolezze dei passati accordi che avrebbero dovuto garantire un riconoscimento dello Stato palestinese ma che non facevano altro che rimandare a un momento successivo la decisione sulle questioni chiave. Quella indecisione ha storicamente prodotto una crescita dell’annessione territoriale da parte dello stato ebraico e pochi o nulli benefici per la parte palestinese, che ha subito negli anni l’erosione di terra, diritti e futuro.

Il presidente eletto Donald Trump, che si insedierà il 20 gennaio alla Casa Bianca, si è attribuito il merito dell’accordo. Lo aveva fatto già da settimane. Secondo la lettura del suo entourage, le minacce del tycoon ad Hamas (se non rilascerete gli ostaggi scatenerò l’inferno), avrebbero convinto il movimento islamico ad accettare le condizioni imposte: “Abbiamo un accordo per gli ostaggi in Medio Oriente” ha dichiarato “Saranno rilasciati a breve. Grazie”. L’accordo è importante per gli ostaggi. I più 17.000 bambini ammazzati, più di cento solo dall’inizio del 2025, non meritano neanche una riga all’interno del suo post sul semi-sconosciuto (ai più) Truth Social, dove il miliardario rivolge continui appelli (e ringraziamenti) al mondo.

In realtà è non poco probabile che le pressioni più forti da parte del prossimo presidente USA siano state esercitate su Netanyahu. Cominciare il suo mandato con un cessate il fuoco era quello che Trump voleva. Lo aveva dichiarato. Ma nonostante la stima, le necessità reciproche, le affinità, Bibi e Israele hanno dimostrato più volte di perseguire i propri interessi prima di tutto, contro il mondo intero se necessario. È quindi legittimo immaginare che se un accordo, rigettato da Israele per mesi, è stato raggiunto ora, è probabile che ci sia una contropartita e che in questo gioco Trump abbia per lo meno promesso qualcosa. Il pensiero corre subito all’Iran. Il nemico d’Israele e degli Usa (di Donald in particolare) è ferito, gravemente indebolito dalle sconfitte di Hezbollah in Libano, dalla caduta di Assad in Siria, ma non è vinto. Tel Aviv vorrebbe tanto dargli il colpo di grazia. E Teheran già da qualche giorno sta provando a chiarire: “Quello che avete visto non è niente, possiamo ancora attaccarvi”.

Domani il Gabinetto israeliano dovrà votare i termini dell’accordo. E solo a quel punto sarà chiaro se le interlocuzioni tra Netanyahu e l’opposizione avranno dato i loro frutti o se le cose si faranno complicate anche per Bibi. Intanto Hamas, a quanto pare, ha dato ordine di fermare le attività militari. Israele non ha fatto lo stesso fino ad ora e con ogni probabilità non vi saranno ordini simili fino a domenica. Pagine Esteri