Quando nel 2013, all’indomani dello sversamento di petrolio in mare dalla raffineria della città, a Gela Eni inaugura il nuovo campo da calcio finanziato per la cifra di 400.000 euro, l’amministratore delegato dell’azienda Bernardo Casa chiosa: “Così staremo meno antipatici”. A ricordarlo è Andrea Turco, giornalista siciliano che da anni si occupa di energia, ambiente ed economia circolare, che ha curato anche i testi del rapporto “Cultura a sei zampe” pubblicato nel settembre 2024. All’interno del dossier, gli studi condotti dall’Associazione A Sud e dal Centro di Documentazione dei Conflitti Ambientali (CDCA).

Si chiama “cultural washing” la pratica, all’insegna del più noto greenwashing, di finanziamento di eventi culturali e aggregativi condotta da parte di colossi industriali ed energetici per mascherare le loro contraddittorie politiche ambientali. Un tentativo di ripulirsi il nome e di infiltrarsi all’interno delle maglie sociali, di inserirsi nei vuoti economici e culturali e colmarli con i propri fondi, in cambio di una maggiore accettazione da parte della collettività. “Una sofisticata forma di distrazione di massa”, si legge nel rapporto, mirata a “deviare l’attenzione dalle gravi responsabilità dell’azienda”.

All’indomani della più importante kermesse musicale italiana, il Festival di Sanremo, in cui il marchio Eni Plenitude è stato mandato in eurovisione per tutte e cinque le serate, ma ha fatto da sfondo con pannelli e gadget anche alle interviste svolte in tutte le altre fasce orarie sugli schermi nazionali, rimettere mano al rapporto che analizza il legame tra il cane a sei zampe e la cultura del Paese può essere utile. Non è solo il Festival della canzone in Liguria, infatti, a dipendere dai finanziamenti del colosso industriale. Le zampe di Eni si sono moltiplicate e affondano ormai nell’humus culturale di tutte le regioni italiane.

A dipendere dai finanziamenti di enti come Eni, tra l’altro, non sono solo realtà note e imponenti come quella sanremese, ma anche quelle medie e piccole emergenti. Nel rapporto si legge di un incremento da 1,9 miliardi di euro investiti nel settore culturale nel 2019 a oltre 6,68 miliardi di euro con il PNRR e altre misure straordinarie dopo il Covid, e del Fondo Unico per lo Spettacolo che è arrivato a stanziare una cifra record di 342 milioni di euro nel 2023. Nonostante lo stanziamento considerevole di fondi pubblici al settore culturale di questi ultimi anni, però, spesso le piccole e medie realtà culturali non riescono ad accedere a questi finanziamenti per iter burocratici e requisiti stringenti. Si ritrovano spesso costrette quindi ad accettare investimenti da parte di colossi industriali.

Come Eni, che con le realtà culturali indipendenti delle province italiane avrebbe poco da spartire. I suoi proventi spaventosi, 20,4 miliardi di euro nel 2022, continuano a provenire dal petrolio e soprattutto dal gas. Si legge nel dossier: “come segnalato dall’ong Oil Change International, nel 2022 le attività commerciali di Eni hanno causato più inquinamento netto da gas serra a livello mondiale dell’Italia stessa”. Una realtà per niente in linea con le promesse che le Cop susseguitesi in questi anni hanno chiesto al mondo.

Il dossier si sofferma sui casi di otto città italiane: Gela, Viggiano, Crotone, Taranto, Ravenna, Livorno, Porto Maghera e Sannazzaro. Luoghi non casuali, ma dove l’industria fossile ha avvelenato il territorio e la vita degli abitanti. Lì, come nel resto d’Italia, Eni cerca di compensare le mancanze e l’inquinamento con l’interesse per il mondo culturale.

Un interesse molto di facciata quando si tratta di piccole realtà, si tiene a ribadire nel rapporto, dato che analizzando i dati del 2023 solo 95 milioni sono stati dedicati allo sviluppo locale, appena l’1,03% dei 9,2 miliardi di euro stanziati da Eni per finanziamenti di “riparazione”. «Investire nelle comunità locali è la dimostrazione diretta che il nostro percorso di transizione energetica coinvolge i territori», dichiara Eni, ma i numeri presentati nel report dicono tutt’altro.

Le città scelte nel report non sono solo quelle più note per l’avvelenamento ambientale causato da Eni e altre industrie, ma sono anche quelle in cui, nonostante i tentativi del leone a sei zampe di mescolarsi ai piccoli gruppi culturali e ambientali locali, si segnalano realtà che hanno saputo rifiutare il compromesso.

Come Taranto, dove il concerto della Festa dei Lavoratori sta superando negli anni per successo e consensi il più longevo concertone del Primo maggio di Roma. Anche lì, paradossalmente visto il luogo, il rischio di dover cedere a finanziamenti non puliti è alto, ma le realtà locali resistono. “Chiediamo i permessi a settembre e a ottobre ci attiviamo col porta a porta – afferma Virginia Rondinelli, un’attivista tarantina – I debiti li ripaghiamo nel giro di un mese. L’opposizione più vistosa che riscontriamo è la mancata copertura dell’1 maggio a livello nazionale, è come se venissimo messi deliberatamente in ombra, forse per non fare passare il messaggio che da soli si può far molto. In media vengono al concerto 50mila persone, ma ci sono stati anni in cui sono state pure 200mila”.

O come il caso di Crotone, dove Filippo Sestito, presidente dell’Arci locale, nel giugno 2024 ha pubblicamente rifiutato di accettare i finanziamenti stanziati secondo il bando indetto dal Comune di Crotone, Servizio 2.3 “Pubblica Istruzione, Turismo, Cultura, Sport, Spettacolo”, che finanzia progetti e iniziative di intrattenimento e spettacolo per l’anno 2024. «La decisione di non partecipare è motivata dal fatto che il bando è finanziato con soldi di un accordo tra il Comune di Crotone e l’Eni. (…) “L’Arci Crotone non se la sente di utilizzare fondi provenienti da un’azienda che, dopo più di venti anni, non ha provveduto alla bonifica dell’area SIN di Crotone, lasciando la città e i suoi abitanti in una situazione di grave rischio ambientale”.

C’è da sottolineare, infatti, come le piccole realtà locali di norma si trovino spesso costrette ad accettare fondi “tossici” non da Eni direttamente ma da bandi pubblici, di regioni e province, in cui il nome di Eni si nasconde tra le righe. Si legge, infatti, nel dossier: “La storia di Crotone ha molto da insegnare, a patto di saperne leggere in filigrana le complessità. In Calabria, così come in Sicilia o in Basilicata o anche in Toscana e in Lombardia, Eni tende a confrontarsi (ma sarebbe meglio dire “dettare la linea”) esclusivamente con le istituzioni locali e regionali. Il mito dell’azienda vicina ai territori è tramontato da almeno 40 anni, eppure resta un ancoraggio al quale molte persone restano affezionate. «Qui Eni non si vede, né oggi né prima – conferma Sestito – Le amministrazioni di turno sono ben disposte a ragionare con l’azienda, e quelle poche persone che hanno preferito mantenere la barra dritta sono poi cadute come birilli». Nel bowling, però, dopo essere cascati a terra i birilli vengono rialzati”.

Il dossier di A Sud e CDCA, però, cerca di proporre una via di uscita, offrendo esempi virtuosi di resistenza al cultural washing. L’unico modo per mantenere in vita la cultura locale nel rispetto dell’ambiente e della collettività, questo è il messaggio, è prendere spunto dai modelli delle otto città raccontate e rifiutare il patrocinio di Eni e i finanziamenti avvelenati, anche quando la crisi economica sembra imporre di accettarli per sopravvivere.