“Migrare non è un delitto, sanzionare sì”. Con questo slogan, il Venezuela ha respinto il “processo di criminalizzazione” dei migranti venezuelani, deportati da Donald Trump in Salvador, la “nuova Guantanamo dell’America Latina”. E ha continuato a denunciare le misure coercitive unilaterali, imposte illegalmente dagli Usa, che hanno annunciato dazi per oltre il 25% a chi commercerà il petrolio del Venezuela. Alla mobilitazione, convocata da Diosdado Cabello, vicepresidente del Partito Socialista Unito del Venezuela (Psuv), durante la conferenza stampa settimanale del partito, hanno partecipato anche i familiari di alcuni venezuelani, detenuti illegalmente perché accusati di appartenere a una banda chiamata il Tren de Aragua. La piazza, composta da giovani, da miliziani e militanti politici, ha accompagnato il governo nella richiesta, rivolta al Salvador, di liberare gli oltre 200 connazionali, deportati come delinquenti dagli Stati uniti, e detenuti in una prigione di massima sicurezza. La mobilitazione si è conclusa in Parlamento, dove i manifestanti sono stati ricevuti dal presidente dell’Assemblea nazionale, Jorge Rodriguez e dai lavoratori che esibivano cartelli in solidarietà. Al contempo, in varie piazze del paese da qualche giorno si stanno raccogliendo firme da inviare algoverno di El Salvador, e manifestazioni di sostegno si sono svolte in altri paesi latinoamericani.
Il tema delle frontiere e delle misure xenofobe adottate da Trump, che ha praticamente imposto il rimpatrio forzato dei migranti a tutti i governi della regione, ed è poi passato direttamente alla traduzione dei migranti in carceri compiacenti, sta animando la discussione politica nel continente, e preoccupando il campo progressista. Il Venezuela ha annunciato azioni legali, e ha presentato un ricorso alla Corte suprema di giustizia salvadoregna per chiedere la liberazione dei detenuti venezuelani. L’amministrazione di Donald Trump conta di revocare i permessi di soggiorno per “motivi umanitari”a oltre 530.000 migranti provenienti da Cuba, Haiti, Nicaragua e Venezuela. E sta deportando anche quelli in attesa di ricevere una risposta, riesumando una legge del XVIII secolo utilizzata in tempo di guerra per espellere i migranti…
Il viaggio di Noem: Salvador, Colombia e Messico
Questa settimana, la Segretaria per la sicurezza interna degli Stati Uniti, Kristi Noem, si recherà a El Salvador, in Colombia e in Messico. In Salvador, visiterà il Centro di Confinamento del Terrorismo (Cecot), una mega-prigione aperta nel 2023 per ospitare i membri delle gang, e utilizzata poi in modo indiscriminato da Nayib Bukele, grande fan del tycoon nordamericano. Nella prigione, vi sono 238 venezuelani espulsi dagli Stati Uniti ai sensi dell’Alien Enemies Act del 1798, accusati senza prove di appartenere all’organizzazione criminale Tren de Aragua. Il Venezuela lo considera un sequestro.
Dopo la tappa in Colombia, venerdì Noem arriverà in Messico, dove incontrerà la presidenta, Claudia Sheinbaum. Quest’ultima, ha conversato in questi giorni con il presidente brasiliano, Lula da Silva, che l’ha invitata a rappresentare il Messico nel prossimo vertice Brics 2025.
Lula e il Brasile multipolare
Lula, il cui paese ha la presidenza dei Brics nel 2025, già nel vertice dell’anno scorso in Kazan, aveva sottolineato che la multipolarità economica deve riflettersi nel sistema finanziario globale. E ora sta guidando i dibattiti sulla modernizzazione delle transazioni finanziarie internazionali per migliorare l’efficienza commerciale tra le economie emergenti. Un elemento chiave è dato dalla tecnologia blockchain per ottimizzare i contratti e i pagamenti all’interno del gruppo.
Intanto, l’ex presidenta brasiliana, Dilma Rousseff (2011-2016), proposta nel 2023 da Lula come presidenta della Nuova Banca dello Sviluppo dei Brics, che ha esercitato il mandato per due anni, è stata riproposta dal presidente russo Vladimir Putin per altri 5 anni. La nomina è stata accettata all’unanimità dall’organismo, inizialmente formato da Brasile, Russia, Cina e Sudafrica e poi ampliato con l’incorporazione di Arabia saudita, Egitto, Emirati arabi uniti, Etiopia e Iran, a gennaio del 2024, e dell’Indonesia a gennaio del 2025, come membri a pieno titolo. Come associati, figurano invece Bielorussia, Bolivia, Cuba, Kazakistan, Malesia, Nigeria, Tailandia, Uganda e Uzbekistan.
Il Perù va alle urne
Dina Boluarte, la presidenta del Perù, considerata una usurpatrice per aver disarcionato il maestro Pedro Castillo con un golpe istituzionale, ha convocato elezioni generali per il 12 aprile del 2026. Intanto, dal carcere, l’ex presidente Castillo, che rischia una condanna a 34 anni di prigione come presunto organizzatore di un autogolpe, e che si dichiara innocente, ha iniziato uno sciopero della fame. E i legali di un’altra operazione repressiva portata avanti da Boluarte contro i movimenti di opposizione – l’Operazione Perseo – stanno facendo un giro in Europa per denunciare presso gli organismi umanitari la detenzione di avvocati, artisti e familiari dei detenuti politici del precedente ciclo di lotta e la chiusura degli spazi di agibilità politica in sicurezza per l’opposizione.
L’Osa cambia faccia
Dallo scorso 10 marzo e fino al 2030, l’Organizzazione degli stati americani (Osa) ha un nuovo segretario generale. A succedere a Luis Almagro, vera e propria testa d’ariete dell’amministrazione statunitense contro i governi progressisti dell’America latina, è Albert Ramdin, diplomatico di lungo corso e ministro degli Esteri di Surinam. Primo caraibico a occupare l’incarico, Ramdin è stato eletto per acclamazione soprattutto grazie ai voti dei paesi caraibici e di Brasile, Bolivia, Cile, Colombia, Messico e Uruguay. E ha subito mandato segnali opposti a quelli del suo predecessore, promettendo di riannodare il dialogo con Nicolas Maduro, e rimanendo sordo ai richiami dell’estrema destra venezuelana, che in Almagro aveva la sua punta di lancia.