“L’Iran deve fermare ogni tentativo di ottenere armi nucleari, altrimenti andrà incontro a gravi conseguenze, che potrebbero includere un attacco militare contro gli impianti nucleari di Teheran”, ha dichiarato lunedì 15 aprile Donald Trump, durante un incontro con il suo omologo salvadoregno alla Casa Bianca. Di fatto, questa cantilena è ormai diventata un rituale. Alla Repubblica Islamica, del resto, non dispiace: sa bene che, per il momento, è l’unica concessione che ha scelto di mettere sul tavolo.

Suona più importante, invece, l’affermazione dell’inviato speciale del presidente degli Stati Uniti e capo dei negoziatori, Steven Witkoff, che ha sottolineato in un’intervista rilasciata alla Fox News lunedì sera, 15 aprile: “Nel programma nucleare civile, come sostengono loro, non c’è bisogno di andare oltre il 3,67 percento”, lasciando intendere che l’amministrazione Trump si aspetta che la Repubblica Islamica torni a rispettare il limite stabilito dall’accordo JCPOA. Così gli Stati Uniti sembrano ignorare la richiesta di Israele, che aveva invocato lo smantellamento completo del programma nucleare iraniano e la distruzione dei suoi impianti e delle sue attrezzature nucleari.

Certo, non poteva essere un colloquio indiretto di due ore e mezzo a superare la profonda sfiducia e a risolvere una montagna di problemi tra Stati Uniti e Repubblica Islamica. Tuttavia, il fatto che le parti non siano ricadute nella consueta retorica fatta di insulti, minacce e accuse rappresenta già di per sé, in questa fase, un passo avanti nei rapporti tra i due Paesi, sebbene i risultati finali restino profondamente incerti.

L’ottimismo degli osservatori è cresciuto quando, poche ore dopo la conclusione dei colloqui, il Presidente degli Stati Uniti ha dichiarato che “i colloqui stanno procedendo bene”. La Casa Bianca ha rilasciato una dichiarazione, affermando che si è trattato di “un passo avanti verso il raggiungimento di un risultato reciprocamente vantaggioso”. Le due parti hanno concordato di incontrarsi nuovamente sabato prossimo, 19 aprile. L’incontro avrebbe dovuto svolgersi a Roma, ma Ismail Baghaei, portavoce del Governo iraniano, ha dichiarato lunedì sera, 15 aprile: “È stato deciso che Muscat ospiterà comunque il secondo round di negoziati sabato 19 aprile”.

Prima che la Casa Bianca rilasciasse la dichiarazione, il ministro degli Esteri iraniano, Araqchi, ha anche annunciato l’accordo tra Iran e Stati Uniti per tenere un secondo round di colloqui e ha affermato che l’argomento del prossimo incontro sarebbe stato dedicato alla discussione del “quadro generale dell’accordo”. Araqchi ha anche affermato che il desiderio del rappresentante di Trump, Steven Witkoff, nei negoziati era che il quadro generale dell’accordo fosse “stabilito nel più breve tempo possibile”.

È bastato questo per generare un impatto positivo sul mercato iraniano: la moneta nazionale ha guadagnato oltre il 10% rispetto al dollaro e l’indice complessivo della Borsa di Teheran, dopo un lungo periodo di stagnazione, è salito del 2,21%, raggiungendo quota 2.908.000 punti.

L’incontro tra le delegazioni avrebbe dovuto fare luce su quanto siano distanti le posizioni su due questioni chiave: fino a che punto gli Stati Uniti intendano richiedere lo smantellamento dell’infrastruttura nucleare iraniana; se i negoziati possano estendersi a tematiche non nucleari, come i missili balistici e il sostegno di Teheran ai gruppi militanti non statali nella regione.

Finora, sembra che la delegazione americana si sia concentrata sul solo programma nucleare, evitando di avanzare richieste estreme come lo smantellamento completo delle infrastrutture nucleari — una posizione sostenuta dal premier israeliano Netanyahu.

Questa scelta appare pragmatica, dato che Teheran aveva già avvertito che una simile pretesa avrebbe portato all’abbandono dei negoziati. Altre questioni sembrano, per ora, essere state accantonate.

Wittkoff aveva preannunciato che l’obiettivo principale degli USA era la sospensione totale del programma nucleare iraniano. Tuttavia, aveva lasciato spazio a compromessi, ammettendo che un accordo definitivo potrebbe richiedere concessioni da entrambe le parti.

In politica, tutto è possibile, soprattutto quando i due principali decisori detengono un potere quasi assoluto. Washington e Teheran potrebbero giungere a un’intesa inaspettata, sia essa positiva o negativa. Ogni scenario resta aperto, e i rischi di un fallimento diplomatico sono evidenti.

Gli Stati Uniti hanno continuato a inasprire le sanzioni contro un’economia iraniana già fragile, mentre rafforzavano al contempo la loro presenza militare nella regione. Secondo analisi OSINT (Open Source Intelligence), basate sul tracciamento dei voli militari, sei bombardieri stealth B-2 Spirit – pari al 30% dell’intera flotta di questi velivoli dell’USAF – e sette aerei da trasporto C-17A Globemaster III hanno fatto ingresso nella remota base dell’Oceano Indiano, Diego Garcia. Una mossa che può essere interpretata come una forma di pressione su Teheran, ma che rivela anche i preparativi statunitensi per un’eventuale operazione militare su larga scala.

Teheran, intanto, corre contro il rischio del “Snapback”: il ripristino automatico delle sanzioni ONU entro metà anno se i progressi saranno troppo lenti o inconsistenti.

Idealmente, se le parti faranno progressi da qui a metà maggio e mostreranno flessibilità nel definire un’agenda e un obiettivo finale realistico, si può ipotizzare che, quando il presidente americano visiterà l’Arabia Saudita, un incontro di persona con la sua controparte iraniana, a margine di tale visita, potrebbe contribuire notevolmente a proteggere i negoziati dai tentativi dei detrattori di sventarli.

Il tempo, però, è un fattore critico. Trump avrebbe imposto una scadenza di due mesi per raggiungere un accordo — un lasso di tempo che sembra irrealistico, vista la complessità delle questioni. Un processo lungo mette l’intero negoziato in pericolo di sabotaggio da parte dei sostenitori della linea dura in entrambi i Paesi e in Israele.

È molto difficile immaginare che i rapporti tra i due paesi possano tornare alla normalità dopo 46 anni di confronto ostile, finché il leader della Repubblica Islamica è in vita. Tuttavia, sembra che il potere sia giunto alla conclusione che debba raggiungere un accordo, per quanto limitato, per salvare la sua economia. I lunghi anni di sanzioni hanno generato una situazione economica difficile nel Paese: bilanci negativi, inflazione galoppante e una continua perdita del potere d’acquisto delle famiglie hanno causato un profondo malcontento tra la popolazione. Teheran ha bisogno di denaro e di investimenti esteri per rivitalizzare la sua esportazione del greggio e vitalizzare la sua economia.

La popolazione vede nei negoziati un barlume di speranza per un miglioramento e una stabilizzazione economica. Tuttavia, esistono gruppi di intransigenti che si oppongono categoricamente a qualsiasi trattativa. Molti di questi gruppi operano all’interno di varie strutture statali, e un eventuale accordo tra i due Paesi potrebbe compromettere i loro interessi economici. Chiamati dagli iraniani “gli imprenditori delle sanzioni”, hanno beneficiato per anni delle restrizioni internazionali, che per loro sono state una vera e propria benedizione — una benedizione che non intendono perdere.

Nel corso degli anni, hanno perfezionato le tecniche dell’estorsione, dell’elusione delle sanzioni e della corruzione, dando vita a una potente rete economica e di influenza. Oggi detengono un notevole potere politico, amministrativo e militare e dispongono di ingenti risorse finanziarie. In questi giorni, si notano i loro movimenti per fomentare l’opinione pubblica e alimentare i sentimenti delle correnti più fedeli e rivoluzionarie del Paese contro i negoziati.