(foto Unicef/El Baba)
A Gaza l’acqua è un bene quasi introvabile. Soprattutto al nord martoriato dai bombardamenti. La rete idrica è stata gravemente danneggiata a Shajaiya, sobborgo orientale di Gaza city, teatro in questi ultimi giorni di una delle incursioni devastanti lanciate dall’esercito israeliano in vari punti di Gaza. Forniva il 70% dell’acqua potabile agli abitanti del capoluogo. Ma l’acqua è poca ovunque nella Striscia. Ormai non resta che camminare tra le macerie, sulle strade piene di fango con la pioggia e di polvere nelle giornate asciutte, e aspettare in fila per ore ai punti di distribuzione il proprio turno per riempiere una tanica, sperando di non restare uccisi nei raid aerei. I 18 mesi di offensiva israeliana contro Gaza sono segnati anche dalle stragi di chi aspettava acqua e cibo. E alla paura si aggiungono la frustrazione e l’ansia di non riuscire a procurarsi da bere e da mangiare. I litigi sono sempre frequenti tra chi è disperato. Chi non ha forza e pazienza beve acqua sporca o raccoglie la pioggia nel migliore dei casi.
Da sette settimane non entrano aiuti umanitari a Gaza. Le autorità locali hanno lanciato ieri un altro appello per l’ingresso immediato di generi di prima necessità. Israele però non allenta la morsa e blocca gli aiuti pensando che questa pressione costringerà Hamas a liberare gli ostaggi. Assieme alla fame, la sete è l’altro spettro che la popolazione affronta da tempo. E dovrà farlo ancora di più nei prossimi mesi. Con la fine della stagione fredda e l’inizio di quella più calda, bere sarà una sfida quotidiana. «Aspetto l’acqua da stamattina», ha raccontato Fatena Abu Hamdan di Zaitun a un reporter locale «non ci sono stazioni di servizio né autocisterne in arrivo. Non c’è acqua. I valichi sono chiusi». Adel Al Hourani, di Khan Yunis, è uno dei tanti anziani che accompagnano alle autocisterne i bambini piccoli con in mano bottiglie di plastica vuote da riempire. «Percorro lunghe distanze – dice – mi stanco, sono vecchio, è difficile camminare tanto ogni giorno per prendere l’acqua». Husni Mhana, del Comune di Gaza, non nasconde la gravità della situazione: «Stiamo vivendo una vera e propria crisi di sete. Rischiamo una catastrofe se non cambierà la situazione e avremo a disposizione più acqua».
La crisi idrica ha superato la soglia dell’emergenza per diventare un crimine umanitario, denunciano i palestinesi e varie parti internazionali. La mancanza d’acqua è solo l’ultima delle privazioni inflitte a una popolazione intrappolata tra un assedio militare e il collasso di ogni servizio. La sete diffusa dice che persino un diritto fondamentale, poter bere, non è riconosciuto da chi portava avanti una guerra senza fine, ufficialmente contro Hamas e per la liberazione degli ostaggi, che però pagano i civili. Francesca Albanese, Relatrice speciale delle Nazioni unite per i diritti umani nei Territori palestinesi occupati, ha parlato apertamente di crimine di guerra. «Israele ha tagliato l’acqua come ha tagliato l’ingresso degli aiuti, bombardato le cliniche, assediato i civili. Nulla è stato risparmiato, nemmeno la sete». Il suo predecessore, Michael Lynk, ha dichiarato che «la negazione dell’accesso all’acqua a un’intera popolazione sotto assedio costituisce una violazione gravissima del diritto internazionale umanitario».

foto MSF
La decisione di Israele di interrompere l’erogazione di energia elettrica nella Striscia e la mancanza di carburante limita fortemente le operazioni di desalinizzazione. A gennaio, l’unico impianto ancora operativo nel nord della Striscia è stato colpito da un raid aereo. «Abbiamo chiesto ripetutamente che venisse riallacciato alla rete elettrica» ha spiegato Juliette Touma, portavoce dell’Unrwa, l’agenzia dell’Onu che assiste i profughi palestinesi boicottata da Israele, «senza energia non possiamo desalinizzare, senza desalinizzazione la gente beve acqua contaminata e questo uccide lentamente». Poi a marzo è stata tagliata l’elettricità all’impianto nel sud, che funzionava già a capacità ridotta. Rosalia Bollen, funzionaria dell’Unicef a Gaza, ha avvertito che 600.000 persone che avevano riacquistato l’accesso all’acqua potabile nel novembre 2024 sono nuovamente isolate. Le agenzie delle Nazioni unite stimano che 1,8 milioni di persone, di cui oltre la metà bambini, abbiano urgente bisogno di acqua, servizi igienici e assistenza igienico-sanitaria mentre i livelli di approvvigionamento sono scesi a una media di 3-5 litri pro capite al giorno. Ben al di sotto dei 15 litri considerati il minimo vitale in situazioni d’emergenza secondo l’Oms. Secondo un rapporto della ong internazionale Oxfam sui crimini di guerra legati all’acqua, la popolazione di Gaza aveva accesso a 82,7 litri a persona al giorno prima del 7 ottobre 2023. Ora la città di Rafah, praticamente rasa al suolo nelle ultime settimane, ha meno del 5% di quella quantità e i governatorati della Striscia di Gaza settentrionale hanno meno del 7%, ovvero 5,7 litri a persona al giorno.
Secondo un’inchiesta dell’agenzia Reuters, l’85% delle infrastrutture idriche di Gaza è inservibile. Più di 1.700 chilometri di condutture sono stati distrutti o danneggiati. I pozzi sono contaminati. Gli impianti di desalinizzazione hanno ridotto la loro capacità di produzione da 18.000 a soli 3.000 metri cubi al giorno. L’acqua non basta nemmeno per gli ospedali. «Non siamo più in grado di garantire acqua potabile a nessuno, neppure ai feriti. E ogni giorno riceviamo centinaia di segnalazioni di bambini ammalati per aver bevuto acqua sporca», racconta Suhail al Astal del comune di Khan Yunis. Il rischio di malattie infettive si è moltiplicato. Il ministero della Sanità di Gaza ha registrato tra febbraio e aprile oltre 46.000 nuovi casi settimanali di diarrea acuta, infezioni intestinali e patologie legate alla contaminazione idrica.
Questo articolo è stato pubblicato in origine dal quotidiano Il Manifesto