Il secondo round dei colloqui tra le delegazioni iraniana e americana è stato particolarmente importante. Si doveva chiarire se l’amministrazione americana, dopo varie dichiarazioni contrastanti, avrebbe confermato la sua linea politica di consentire alla Repubblica Islamica la produzione di uranio a basso arricchimento per uso civile, o se invece avesse preteso fin da subito lo smantellamento dell’intera industria nucleare di Teheran, come auspicano i falchi israeliani e i loro sostenitori all’interno dell’establishment americano.
È evidente che, come era stato annunciato da vari funzionari iraniani a diversi livelli, Teheran non avrebbe esitato ad abbandonare i negoziati in caso di una precondizione così gravosa, la cui accettazione avrebbe messo in pericolo la sua stessa legittimità.
L’ostinazione del potere iraniano nel mantenere la sua industria nucleare, nonostante abbia assorbito un ingente patrimonio pubblico senza produrre una vera utilità tangibile, era già evidente durante il primo mandato di Trump. All’epoca, il duo Bolton & Pompeo tentò di imporre l’arricchimento zero dell’uranio a Teheran. Questa situazione portò al ritiro unilaterale degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare siglato, nel 2015, dal Gruppo 5+1 (USA, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania), un accordo voluto dall’allora presidente americano Barack Obama.
In seguito, nonostante l’inasprimento delle sanzioni economiche, Teheran non abbandonò il suo programma nucleare, ma anzi gli diede nuovo slancio, arrivando ad acquisire la capacità di arricchire l’uranio a livelli utili anche per la costruzione di una bomba atomica.
Sembrava chiaro ai negoziatori americani che i colloqui sarebbero falliti sin dall’inizio se avessero avanzato la richiesta di uno smantellamento totale del programma nucleare iraniano.
Infatti la dichiarazione finale del mediatore ufficiale dei negoziati, il Ministro degli Affari Esteri dell’Oman, non lascia dubbi: i colloqui continueranno per «raggiungere un accordo equo, permanente e vincolante […] che garantisca che l’Iran sia completamente libero da armi nucleari, porti alla completa revoca delle sanzioni e preservi il diritto a sviluppare l’energia nucleare per scopi pacifici», si legge nel documento.
La delegazione americana ha evitato dichiarazioni pubbliche. In precedenza, l’intervista rilasciata dal negoziatore Steven Witkoff a Fox News, pochi giorni dopo il primo round dei negoziati, aveva scatenato polemiche tra i sostenitori della linea dura dell’amministrazione e i media americani, al punto che Witkoff era stato costretto a ritrattare le sue stesse parole. Ora sembra che la lezione sia afferrata.
Tuttavia, pochi giorni dopo, il presidente americano ha dichiarato ai giornalisti che gli Stati Uniti avevano avuto ‘ottimi colloqui’ con l’Iran, confermando che i negoziati sarebbero continuati.
Rimanendo sulla dichiarazione del mediatore, il Ministro degli Affari Esteri dell’Oman, e del suo omologo iraniano, si apprende che è previsto un incontro tra esperti tecnici delle due parti per valutare la fattibilità di quanto concordato dalle rispettive delegazioni politiche. Successivamente, durante il terzo incontro in Oman, i negoziatori analizzeranno i rapporti elaborati dai tecnici e valuteranno quanto le posizioni delle due parti siano vicine o distanti.
Il veloce progresso dei negoziati è sorprendente, considerando che la distanza tra le parti è abissale. Ciò solleva alcuni dubbi sulle reali intenzioni delle parti. Perché Trump sta seguendo apparentemente una versione simile al vecchio accordo JCPOA, a cui ha rinunciato unilateralmente nel 2018? Perché – almeno finora – altre questioni cruciali, come il programma missilistico a lungo raggio o il sostegno ai gruppi armati non statali finanziati da Teheran nella regione, non sono state messe sul tavolo dai negoziatori americani?
Come mai la Repubblica Islamica, che ha fondato la sua legittimità sulla battaglia anti-imperialista e sull’avversità verso gli Stati Uniti, chiedendo il loro allontanamento dal Medio Oriente, improvvisamente cambia atteggiamento? Tanto che lo stesso presidente iraniano parla pubblicamente del consenso della Guida Suprema per permettere investimenti americani nel Paese.
Inizialmente, dopo la lettera di Trump a Khamenei, molti osservatori iraniani interpretarono l’offerta di negoziati come una trappola: gli americani avrebbero presentato richieste inaccettabili per la Repubblica Islamica, per poi giustificare un eventuale attacco militare contro i siti nucleari iraniani.
Tuttavia, col passare del tempo, Trump ha dimostrato di non sentire il bisogno di giustificazioni. Il suo consenso implicito al massacro dei palestinesi a Gaza e in Cisgiordania, il tentativo di forzare l’Ucraina a negoziare con la Russia e l’imposizione di dazi al resto del mondo dimostrano che, se l’amministrazione americana considera un’azione nel proprio interesse, la intraprende senza esitazioni né vincoli morali. Ovviamente, questo non significa che ci riesca sempre.
Se Trump avesse davvero voluto colpire i siti nucleari iraniani, avrebbe avuto bisogno di una farsa negoziale? Probabilmente no, considerando che oggi sembra che i negoziatori americani non abbiano sollevato altre questioni più scottanti – come i missili balistici e il sostegno ai proxy regionali – che potrebbero far saltare del tutto i colloqui. Ciò che stupisce, anzi, è esattamente il contrario: un avvicinamento tra le due parti troppo rapido per apparire naturale.
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