Le udienze appena iniziate alla Corte Internazionale di Giustizia (CIG) hanno riportato Israele davanti al banco degli imputati del diritto internazionale. Al centro del dibattito, il blocco degli aiuti umanitari imposto da Tel Aviv alla Striscia di Gaza, che dal 2 marzo ha lasciato oltre 2,3 milioni di persone senza accesso a cibo, acqua potabile, medicinali e carburante. L’accusa, sostenuta da rappresentanti delle Nazioni Unite e dall’Autorità Palestinese, è che Israele sta utilizzando la fame come strumento di guerra, in violazione del diritto internazionale umanitario.

Durante la prima giornata di udienza, il rappresentante palestinese Ammar Hijazi ha definito la situazione a Gaza “una catastrofe umanitaria voluta e pianificata”. In un intervento appassionato, ha denunciato l’uso sistematico dell’assedio come metodo per punire collettivamente una popolazione civile, in totale disprezzo per le convenzioni di Ginevra. “Questo caso – ha detto – riguarda la distruzione sistematica delle basi della vita in Palestina”.

A rafforzare l’accusa, è intervenuta anche Elinor Hammarskjöld, avvocata per le Nazioni Unite, che ha ribadito come Israele, in quanto potenza occupante, sia obbligata a garantire e facilitare l’ingresso degli aiuti umanitari. “Non si tratta di una concessione volontaria – ha precisato – ma di un dovere giuridico preciso, che Israele sta attualmente violando”.

Secondo le ricostruzioni, il blocco totale ai valichi di accesso a Gaza ha interrotto i già esigui flussi di beni salvavita. I magazzini si sono svuotati rapidamente, mentre la popolazione, già stremata da mesi di guerra, si trova ora a fronteggiare la carestia. Organizzazioni come Medici Senza Frontiere e la Mezzaluna Rossa hanno denunciato il collasso del sistema sanitario: ospedali senza elettricità, ambulanze ferme per mancanza di carburante, scorte mediche ridotte al minimo.

Il governo israeliano ha provato a respingere le accuse. Il ministro degli Esteri Gideon Saar ha definito le udienze “un circo giuridico”, sostenendo che la Corte viene usata come strumento politico. Saar ha inoltre accusato l’ONU di non aver fatto abbastanza per epurare l’agenzia per i rifugiati palestinesi (UNRWA) da presunti infiltrati di Hamas, giustificando così il blocco umanitario come misura di sicurezza necessaria.

Ma secondo non c’è giustificazione che tenga: il blocco si configura come una punizione collettiva, espressamente vietata dal diritto umanitario. Anche Paesi tradizionalmente alleati di Israele, come Stati Uniti, Germania, Francia e Regno Unito, hanno chiesto esplicitamente la riapertura dei corridoi umanitari. Una presa di posizione che, pur significativa, finora non si è tradotta in pressioni diplomatiche efficaci o in sanzioni concrete.

La causa in corso alla CIG si inserisce in un contesto più ampio di crescente isolamento internazionale per Israele. Già nel 2024, la stessa Corte aveva emesso un parere non vincolante che definiva l’occupazione dei Territori palestinesi come un “regime di apartheid” da smantellare entro dodici mesi. Nello stesso anno, la Corte Penale Internazionale aveva avviato indagini per crimini di guerra, emettendo persino mandati d’arresto.

L’attuale procedimento, pur avendo natura consultiva, potrebbe influenzare significativamente il dibattito politico e giuridico internazionale. “Anche se la sentenza non sarà vincolante – ha spiegato il giurista Triestino Mariniello – avrà un forte peso politico e potrebbe fungere da catalizzatore per future azioni diplomatiche e giudiziarie contro Israele”.

Nel frattempo, sul campo, la situazione si aggrava di giorno in giorno. Secondo dati ONU, oltre il 70% della popolazione di Gaza vive ormai sotto la soglia della fame. La malnutrizione tra i bambini ha raggiunto livelli allarmanti, mentre si moltiplicano le segnalazioni di decessi per cause evitabili, come infezioni o disidratazione. Il blocco delle comunicazioni e l’impossibilità per i giornalisti internazionali di accedere all’enclave complicano ulteriormente la verifica indipendente dei fatti.

L’accusa di utilizzare la fame come arma di guerra non è nuova, ma oggi trova una ribalta giuridica di primo livello. Se la Corte dovesse confermare tale qualificazione, Israele rischierebbe un ulteriore danno d’immagine e possibili ripercussioni nelle sedi diplomatiche e nei rapporti con i partner occidentali.

Il procedimento durerà cinque giorni, ma la decisione della CIG è attesa solo tra alcuni mesi. Nel frattempo, la popolazione di Gaza continua a vivere in una situazione che numerose organizzazioni umanitarie definiscono “insostenibile e disumana”. Le udienze all’Aia potrebbero segnare un punto di svolta – o rivelarsi l’ennesimo appello ignorato alla responsabilità internazionale. Pagine Esteri