Un anno dopo lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale, il Kuwait continua a scivolare lungo una traiettoria autoritaria. Da settembre 2024, oltre 42.000 cittadini hanno perso la nazionalità, nel quadro di una campagna condotta dal governo in attuazione degli emendamenti alla Legge sulla Nazionalità del 1959. Una cifra allarmante, soprattutto per un Paese con meno di 1,5 milioni di cittadini su una popolazione totale di circa 5 milioni.
Secondo le autorità, la misura mira a colpire coloro che hanno acquisito la cittadinanza “in modo fraudolento”. Tuttavia, nel mirino finiscono anche cittadini naturalizzati, esponenti dell’opposizione e critici del governo. Il processo è guidato dal Comitato Supremo per l’Inchiesta sulla Cittadinanza, un organismo che opera senza controlli giudiziari e privo di un meccanismo di appello, alimentando preoccupazioni sulla trasparenza e l’arbitrarietà delle decisioni.
Il giro di vite ha registrato una brusca accelerazione dopo l’ascesa al trono dello sceicco Meshaal Al-Ahmad Al-Sabah, nel dicembre 2023. Cinque mesi dopo, nel maggio 2024, lo stesso emiro ha sospeso l’Assemblea Nazionale a tempo indeterminato, congelando di fatto l’attività parlamentare per almeno quattro anni, nell’ambito di un progetto di revisione costituzionale.
Secondo molti osservatori, la presenza dell’organo legislativo avrebbe potuto rallentare, se non bloccare, la campagna di revoche. “La cittadinanza è sempre stata la porta d’accesso alla partecipazione politica”, ha spiegato il prof. Sean Yom della Temple University, intervistato da Amwaj.media. “Senza un parlamento funzionante, il potere esecutivo può agire senza ostacoli.”
La motivazione ufficiale del governo è principalmente legale e amministrativa. Tuttavia, diverse analisi suggeriscono anche ragioni economiche. In Kuwait, i cittadini godono di generosi benefici statali. Ridurne il numero significherebbe, per il governo, un alleggerimento degli oneri finanziari in un contesto di pressioni sui bilanci pubblici.
Ma le dinamiche politiche sembrano ancora più centrali. Secondo Yom, il Kuwait sta attraversando una fase di “approfondimento dell’autoritarismo e dell’illiberalismo”, in cui la campagna per la revoca della cittadinanza diventa uno strumento per disciplinare l’opposizione. Con oltre 800.000 elettori nel 2024, rimuovere decine di migliaia di aventi diritto riduce il peso delle voci critiche e rafforza il controllo del potere centrale.
A rafforzare questa lettura, la nomina di figure conservatrici e fedeli all’Emiro in ruoli chiave del governo, subito dopo la sospensione dell’Assemblea. Secondo Yom, alcune di queste personalità hanno da tempo l’obiettivo di “sfrondare” il corpo civico del Paese, cavalcando una narrazione populista che attribuisce ai cittadini più critici i problemi storici del sistema politico kuwaitiano.
“Il Ministro dell’Interno stesso – ha aggiunto Yom – considera denazionalizzabili anche i cittadini che criticano lo Stato dall’estero”. Un segnale ulteriore della svolta repressiva in atto, accompagnata da un chiaro messaggio alla magistratura: la cittadinanza è una prerogativa dell’esecutivo, non materia giudiziaria.
Anche Courtney Freer della Emory University sottolinea che il ridimensionamento del corpo elettorale potrebbe essere funzionale a una futura riapertura del processo elettorale, ma in un quadro più controllato e meno pluralista.
Sul piano ideologico, infine, emerge una visione sempre più escludente del nazionalismo kuwaitiano. “Secondo l’emiro e i suoi alleati – ha dichiarato Gregory Gause della Georgia State University – solo chi ha profonde radici tribali nel Paese può essere considerato pienamente kuwaitiano”. Una visione in contrasto con la storia del Kuwait, che per secoli è stato un crocevia commerciale e culturale aperto al mondo.
La campagna di revoche sembra dunque rappresentare non solo una strategia politica e amministrativa, ma anche una ridefinizione identitaria del Paese, sotto la guida sempre più accentratrice dell’emiro Meshaal.