Un giornalista di Gaza, Sufyan Al Shorbaji, raccontava qualche giorno fa la notte a Gaza: «L’angoscia del buio rotto dai bagliori delle esplosioni» delle bombe sganciate da jet e droni. I resti delle case che tremano e «la polvere che percorre chilometri» ed entra nelle tende degli sfollati, in ciò che rimane degli edifici già abbattuti in precedenza e in quei pochi che sono ancora in piedi. Poi sopraggiunge «un sollievo misto a paura per essere scampati alla morte, per ora, chissà per quanto». Infine «torna il silenzio, segnato dal ronzio dei droni di sorveglianza che sono lì a ricordare a tutti che l’orrore non è finito». La notte di Gaza sotto assedio israeliano è spaventosa.

La luce del giorno porta un beneficio minimo, perché per gli oltre due milioni di abitanti della Striscia non si vive giorno per giorno, ma ora per ora. I generi di prima necessità non entrano a Gaza dal 2 marzo per decisione di Israele. E in attesa dell’inizio dell’operazione militare «Carri di Gedeone», annunciata una settimana fa, e del «piano» israelo-americano per la distribuzione degli aiuti umanitari – una mostruosità volta a escludere le organizzazioni umanitarie internazionali – ogni palestinese di Gaza, quando sorge il sole, deve pensare a come procurarsi il minimo per la sopravvivenza. E non basta trovare il cibo: occorre anche cucinarlo. Illuminare, riscaldarsi, cucinare è diventato un atto di resistenza. Però è un’impresa ardua senza le bombole del gas, sparite totalmente da quando gli israeliani hanno bloccato i rifornimenti e ripreso l’offensiva. «Negli accampamenti, tra i ruderi, si accende da qualche settimana una fiamma dal sapore antico: è quella del cherosene che arde nei vecchi babour, come cento anni fa. Anche in questo modo si cucina oggi a Gaza», dice Mervat Awaf, reporter indipendente che da mesi racconta la resilienza della sua gente.

Gaza è sprofondata in un medioevo tecnologico a causa dell’offensiva israeliana. Invece del frigorifero ci sono pozzi scavati a mano. Al posto della luce elettrica, lanterne a olio. La legna, quando si trova, ha sostituito i fornelli. Ora ci sono anche i babour, antichi fornelli – ma anche stufette – della tradizione araba, prototipi di quelli da campeggio contemporanei. Prima del 7 ottobre, nelle case più povere erano solo ricordi, spesso dimenticati, di un nonno morto da tempo o il regalo di un parente. In quelle dei pochi facoltosi, erano semplici oggetti ornamentali, ben lucidati per abbellire una stanza. Ora i babour tornano protagonisti e risolvono non pochi problemi.

Hanno un vantaggio: sono alimentati a cherosene, non a gas, e consumano poco. Il puzzo che emanano è pungente, ma Suad Al Shubaki, madre e nonna di 55 anni, non ha dubbi. «Meglio del fumo della legna, che brucia gli occhi», spiega. «Il gas da cucina? È introvabile da mesi, e prepararsi un piatto caldo era impossibile. Poi mio marito ha trovato un babour, l’ha rimesso in funzione, e da allora riusciamo a cucinare un po’ di riso e verdure, quando riusciamo a trovarli». Um Ahmed, 66 anni, racconta che il figlio «ha ritrovato il babour che usava mia mamma. Pensate, dopo tanti anni c’era ancora un po’ di cherosene dentro».

Gli artigiani rimasti senza bottega, per via dei bombardamenti e degli sfollamenti, ora riparano vecchie stufe, fornelli e anche le lanterne che permettono agli sfollati di illuminare le tende. Il problema serio è procurarsi il combustibile, sempre più raro per il blocco attuato da Israele. «L’inventiva dei gazawi non ha confini – afferma Mervat Awaf –. Il combustibile per i babour e le lanterne, in mancanza di cherosene, si ottiene dalla plastica fatta bruciare e resa liquida». Il costo è elevato. «Trenta shekel (circa 7 euro, ndr) al litro. E anche i pezzi di ricambio, ormai rari, costano tanto, talvolta più della stufa», aggiunge.

Non perdersi d’animo e resistere sono le motivazioni che ogni giorno spingono due milioni di civili a mettercela tutta per andare avanti. E i bombardamenti non dissuadono chi ha la forza per ricostruire. Mohammed Abu Al-Aoun, 44 anni, ha assemblato una piccola casa con tavole di legno. Le pareti sono coperte da teloni di nylon, le finestre ritagliate nella plastica trasparente. Il tetto è puntellato con sostegni che lui stesso ha progettato. «Non è una casa, è una sorta di casa. Ma è nostra», ha detto a un’agenzia di stampa. Abu Al-Aoun, dopo aver perso un fratello e metà dell’abitazione in un bombardamento, si è ritrovato, come quasi tutti a Gaza, senza lavoro e non poteva permettersi l’affitto. Ha scelto di tornare dove c’erano le rovine di casa. «Vivere qui è meglio che vagare con una tenda», afferma. In casa, sua moglie ha ricavato un piccolo spazio per il babour. «Una scintilla può incendiare tutto», avverte Abu Al-Aoun, «intanto cuciniamo, viviamo».

Il pensiero di nuovi sfollamenti non abbandona gli abitanti, così come quello dei raid aerei. Tutti a Gaza sanno sempre tutto, nonostante le difficoltà ad accedere a Internet con i cellulari. Rigettano la prospettiva di essere spinti verso ciò che Israele chiama «spazi di accoglienza», nei pressi della costa, e di restare ammassati lì in attesa di cibo e acqua distribuiti da contractor americani per conto di una – pare – fondazione in Svizzera. Per anziani, ammalati e bambini, rischia di trasformarsi in una trappola letale.

Eppure, a Gaza, la vita si insinua tra le macerie assieme alla determinazione di non lasciarsi annientare. Negli appartamenti sventrati dalle esplosioni, sui rari balconi sopravvissuti, accanto alle tende e alle stanze ricavate tra le rovine, spuntano delle piantine: alcune per la generosità della primavera che non abbandona Gaza, altre sono state piantate dagli sfollati in ciotole di plastica e vasetti colmi di terra. Un giornale palestinese scrive che Naji Al Jabri, un 35enne, ha aperto un caffè – Al Hara – costruito con lamiere, pali bruciati e pneumatici: «Anche se mi resta una settimana di vita, voglio viverla con dignità», afferma sorridendo.