«Vedi quei due caravan e quel capannone? Quello è l’avamposto dei coloni israeliani. Da quando si sono sistemati qui, a pochi passi dal villaggio, la nostra vita si è fatta ancora più complicata, viviamo nell’ansia». Rashid è uno dei giovani di Bardala, si descrive «un po’ contadino e un po’ muratore». Si offre di accompagnarci lungo le strade polverose di villaggio di questo villaggio del nord della Valle del Giordano. È una povertà dignitosa quella della gente di Bardala. Buona parte delle famiglie vive in edifici spesso ancora in costruzione. Grossi camion per il trasporto di frutta e verdura occupano i lati delle strade. La bellezza del villaggio è la gioia dei tanti ragazzi che urlano e giocano all’uscita della scuola. «Qui i soldi contano fino a un certo punto» ci spiega Rashid «la vera ricchezza è il clima che rende fertile la terra. E poi l’acqua. Chi ha l’acqua può coltivare e irrigare i suoi campi. Lottiamo per avere l’acqua sin dall’inizio dell’occupazione (1967), la Mekorot (la compagnia israeliana che controlla le risorse idriche anche in Cisgiordania, ndr) promise a tutti gli abitanti che Bardala avrebbe ricevuto acqua sufficiente per l’uso domestico e per l’agricoltura, ma non era vero e quel poco che riceviamo non basta più, siamo 2500 abitanti, anche bere è un lusso».

È vicino l’avamposto coloniale, a non più di trecento metri dal villaggio. Avvicinarsi non è possibile, non solo per i palestinesi. Percorsi pochi metri, un uomo, forse una guardia di sicurezza, ci urla con un megafono di tornare subito indietro. Lo ripete più volte. «Meglio non correre rischi» ci dice Ahmad, il più anziano della famiglia Jahalin, accogliendoci nel tendone accanto alla sua abitazione. Lui e il figlio Alaa sono pastori. Ahmad e la sua famiglia i coloni dell’avamposto se li sono ritrovati davanti casa la notte del 23 aprile. Le lamiere annerite dalle fiamme e contorte che ci mostra segnano il punto dove sorgevano le tende e i fienili per gli animali dati alle fiamme dagli aggressori. «Gli israeliani sono arrivati armati e con il volto coperto, hanno dato fuoco a tutto. Abbiamo chiamato l’esercito, ma i soldati non hanno fermato gli aggressori. Anzi, quando il villaggio ha protestato, sono stati sparati colpi di fucile: cinque abitanti sono stati feriti alle gambe», racconta l’anziano.

Il raid del 23 aprile a Bardala è stato solo un avvertimento perché le pecore avevano «sconfinato» avvicinandosi all’avamposto? Oppure si è trattato di un passo ulteriore di una politica di espulsione? Analisti e attivisti dei diritti umani, pensano che intimidazioni e aggressioni abbiamo l’obiettivo costringere gli abitanti delle comunità rurali più piccole ad andare via, in modo da lasciare libere ampie porzioni di territorio in vista dell’annessione della Cisgiordania che secondo la destra al potere in Israele e i coloni avverrà con il via libera di Donald Trump. La gente di Bardala non ha una risposta, sa solo che non vuole andare via. Intanto intorno al villaggio, situato a pochi chilometri dalla «linea verde» tra Israele e Cisgiordania, vengono costruite nuove strade e realizzati progetti vecchi e nuovi.

La Valle del Giordano, soprattutto dopo il 7 ottobre 2023, è l’epicentro di un’escalation di violenze da parte dei coloni israeliani. A marzo nel minuscolo Khirbet Samra, a pochi chilometri da Bardala, è finito sotto assedio. «Le alture sono presidiate notte e giorno da coloni armati, ci rubano il bestiame e impediscono l’accesso ai pascoli, colpiscono chi si oppone» racconta un abitante, Yasser Abu Aram. Da Khirbet Samra le famiglie per paura vanno via, la terra si svuota e l’espulsione diventa un fatto compiuto. Lo stesso accade a Khirbet al Mariam teatro di un raid il 14 marzo: uomini con il volto coperto hanno incendiato tre abitazioni e diverse auto. L’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha), calcola che solo nella settimana precedente al 2 maggio 2025 oltre trenta palestinesi sono stati feriti in attacchi dei coloni, due famiglie sono state sfollate e sono stati segnalati gravi danni a case, una scuola e infrastrutture vitali. Nei passati 19 mesi circa 1500 palestinesi, tra cui bambini, sono stati sradicati.

Dietro ogni violenza c’è un piano, spiega al manifesto Dror Ektes, esperto delle politiche di colonizzazione e attivista per i diritti umani: «Quello che vediamo oggi in Cisgiordania e in particolare nella Valle del Giordano è pianificato da anni. La violenza dei coloni è diventata lo strumento operativo di un progetto statale che mira a eliminare la presenza palestinese da vaste aree». Ektes ci parla della zona compresa tra la statale 1 – che collega Gerusalemme a Gerico – e il nord della Cisgiordania, fino a Tubas. «È lì che si osserva, nella sua forma più avanzata, una violenza strategica» afferma «non più soprusi episodici, ma un progetto organico in cui lo Stato fornisce ai coloni armi, fondi, copertura legale e accesso alla terra. In cambio, i coloni fanno ciò che l’esercito e la burocrazia non possono fare apertamente: espellere, intimorire, svuotare».

Ne sanno qualcosa a Magayer, a est di Turmus Aya, e a Sinjil a breve distanza. Due villaggi in cui i continui raid hanno provocato vittime. «Le strade che collegano i nostri villaggi all’esterno sono percorribili solo a intermittenza, i coloni le bloccano sempre più spesso» ci dice un abitante, Salim Abu Hala, «e le terre intorno sono state confiscate da coloni di Shiloh. Ci sentiamo in trappola, ci rendono la vita impossibile». Più a nord, intorno a Jiftlik, resiste una manciata di comunità come Khalat al-Makhour, della collina Al Parsi e Khadediya, località ancorate a una forma di vita rurale che va indietro di secoli. Ma anche lì, la strategia è chiara: limitare l’accesso all’acqua e rendere insostenibile la vita quotidiana. «Non si può più parlare solo di attacchi – conclude Dror Ektes – in alcune zone si tratta ormai di veri e propri pogrom». I numeri parlano chiaro. All’ombra dell’offensiva devastante e dei massacri di civili Gaza che catturano l’attenzione dei media, in Cisgiordania almeno 46 comunità beduine sono state espulse con la forza o con la minaccia di violenza. Martedì scorso la Commissione Affari Esteri e Difesa della Knesset si è riunita per discutere di un disegno di legge che consentirà ai coloni di prendere possesso di terreni nelle città e nei villaggi palestinesi senza dover ottenere prima l’approvazione delle autorità israeliane.