La fondazione americana che ha estromesso Onu e organizzazioni internazionali dalla distribuzione degli aiuti umanitari a Gaza, ha comunicato ufficialmente di aver cominciato le sue operazioni. Nonostante lunedì 26 maggio il direttore esecutivo dell’organizzazione abbia rassegnato le proprie dimissioni, il giorno successivo i contractor americani delle altre due società che si occupano di sicurezza e rifornimenti alimentari, hanno dato il via a un’operazione fortemente criticata dal mondo intero. Non solo perché realizza di fatto la militarizzazione della distribuzione di cibo a Gaza. Anche per collegamenti poco trasparenti tra le società di sicurezza e il governo israeliano. E tra la stessa fondazione e Tel Aviv.

Una settimana prima di dimettersi, Jake Wood aveva dichiarato alla CNN che non avrebbe mai partecipato a un piano umanitario che avesse come scopo ultimo lo spostamento forzato della popolazione e la pulizia etnica. Le Nazioni unite avevano infatti denunciato l’intero meccanismo come uno strumento a servizio dei fini militari israeliani. La fame, già ampiamente utilizzata da Tel Aviv come arma di guerra, diventa ora un piano per guidare più facilmente lo spostamento della popolazione, fino a giungere alla sua espulsione da Gaza. Lo ha più volte dichiarato candidamente il premier Netanyahu: l’ultimo passo dell’attuale operazione militare nella Striscia sarà l’esecuzione del cosiddetto “Piano Trump”: la “riviera” di Gaza senza i palestinesi.

La fondazione distribuirà cibo da quattro o forse cinque punti. Tutti solo al centro e al sud di Gaza. La popolazione del nord, sotto ordini di evacuazione da parte dei militari, dovrebbe dunque dirigersi al centro per poi, con ogni probabilità, non aver più la possibilità di far ritorno. Wood dichiarò che questo pericolo non esisteva, che aveva chiesto a Israele di istituire aree di smistamento anche nel nord. E che le organizzazioni umanitarie e le Nazioni unite avrebbero dovuto abbandonare i propri dubbi per prendere parte all’operazione. Nel giro di una settimana, evidentemente, tutto deve essere cambiato. Oppure, più probabile, Wood si sarà reso conto che le obiezioni internazionali erano tutt’altro che infondate. È impossibile portare avanti il piano “rispettando i principi di umanità, neutralità, imparzialità e indipendenza”, ha infatti infine ammesso.

Proponiamo di seguito un’inchiesta pubblicata dal quotidiano Il Manifesto sulla fondazione GHF, sui suoi legami e sui personaggi che ne fanno parte.

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di Michele Giorgio e Eliana Riva

Militari e imprenditori d’oro guideranno la fondazione appositamente costituita per gestire la distribuzione degli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza. Il marchio degli Stati uniti è ovunque e per scoprirne il volto basta seguire l’odore dei soldi e della polvere da sparo.

È ormai quasi pronto il sistema «alternativo» per la consegna di generi di prima necessità agli oltre due milioni di abitanti della Striscia e finalizzato, afferma Tel Aviv, ad escludere Hamas dalla gestione degli aiuti. Il quadro emerso rafforza le perplessità degli operatori umanitari internazionali su un’iniziativa che coinvolge figure tutt’altro che trasparenti. A gestire gli aiuti per Gaza, come si sa sa tempo, sarà la Gaza Humanitarian Foundation (GHF), registrata a Ginevra lo scorso febbraio. La rivista online israeliana Shomrim ha rivelato che un’altra organizzazione non profit con lo stesso nome è stata registrata nel Delaware lo scorso novembre, dall’avvocato James Cundiff, che assiste anche la Safe Reach Solutions (SRS), una delle due società americane incaricate dei controlli di sicurezza sulle auto palestinesi in transito tra il sud e il nord di Gaza durante il cessate il fuoco rimasto in vigore tra il 19 gennaio e il 18 marzo. A inizio maggio, la SRS ha improvvisamente avviato il reclutamento di personale per «una missione umanitaria in Medio Oriente». Lo stesso ha fatto la UG Solutions LLC, l’altra società che ha operato durante la tregua, alla ricerca di «professionisti della sicurezza altamente qualificati con esperienza di combattimento per supportare operazioni di sicurezza multinazionali». Saranno quindi contractor – reclutati negli Stati Uniti e altrove, spesso con un passato in missioni armate in varie parti del mondo – a occuparsi della sicurezza. Un’ulteriore conferma del tentativo di Israele di «militarizzare gli aiuti».

Il presidente della GHF è David Papazian, ex amministratore delegato del Fondo di interesse nazionale armeno (Anif) ed ex presidente del consiglio di amministrazione di Fly Arna, la compagnia aerea nazionale armena. Nonostante, a leggere il suo profilo LinkedIn, si direbbero entrambe imprese di successo, in realtà Papazian è stato cacciato via dall’Anif a causa di scandali per abuso di autorità e appropriazione indebita su cui la commissione d’inchiesta armena sta indagando. Il Fondo di interesse nazionale è stato sciolto pochi mesi dopo il licenziamento di Papazian dal Gabinetto del primo ministro armeno, il quale ha definito «un fallimento» anche l’esperienza di Fly Arna, a cui il governo ha sospeso la licenza operativa. Il presidente della neonata Gaza Humanitarian Foundation trattiene solidi rapporti con gli EAU. Sempre attraverso il Fondo di interesse nazionale armeno ha chiuso un accordo da 174 milioni di dollari con la società emiratina Masdar, per la costruzione di una centrale solare. Il progetto, che si sarebbe dovuto completare entro la fine del 2023, risulta ancora in fase di sviluppo.

Ma il volto pubblico della fondazione che distribuirà i pasti (in stretta collaborazione con Israele) per la popolazione assediata della Striscia di Gaza, è senz’altro il direttore esecutivo Jake Wood, un ex Marine americano che ha fondato una società di veterani, Team Rubicon, per la gestione di aiuti umanitari durante calamità naturali. Wood era un cecchino e la sua unità è stata schierata sia in Iraq che in Afghanistan. Team Rubicon è una delle numerose organizzazioni non profit fondate dai veterani delle guerre americane in Medioriente dopo l’11 settembre. Ma a differenza di tante altre è stata finanziata da grandi gruppi di interesse, come Goldman Sachs, JPMorgan Chase e nel 2023 ha registrato entrate per 40,4 milioni di dollari. In tre anni, dal 2019 al 2022, Wood ha guadagnato in compensi 1 milione e 240mila euro. Durante un’intervista con la CNN, ha dichiarato che il piano della Ghf non è perfetto ma che «farà mangiare le persone entro la fine del mese, in uno scenario in cui nessuno ha permesso aiuti nel corso delle ultime 10 settimane». Quel «nessuno», anche se non detto, è Israele. Wood ha ammesso che senza la partecipazione delle Nazioni unite è «difficile dire» se l’impresa potrà riuscire eppure, secondo l’ex militare, sono le organizzazioni umanitarie a dover scegliere: «Questo sarà il meccanismo con cui gli aiuti potranno essere distribuiti a Gaza. Siete disposti a partecipare?».

I profili degli altri membri della fondazione sono quelli di avvocati, come Loik Henderson, specializzato in transazioni complesse; operatori americani, come Raisa Sheynberg, che ha lavorato su sicurezza nazionale e politica economica con il governo degli Stati Uniti; consulenti e amministratori delegati, come Jonathan Foster, specializzato in fusioni e acquisizioni. Ci sono tanti ex militari, come Davide Burke, collega di Wood al Team Rubicon, ex Marine; Bill Miller, Marine anche lui, che ha gestito operazioni antiterrorismo e protezione in Medioriente. E come il tenente generale Mark C. Schwartz, trent’anni nell’esercito degli Stati uniti, ha collaborato direttamente con l’esercito israeliano e con le forze di sicurezza dell’Autorità nazionale palestinese. A quanto pare, solo John Acree ha un’esperienza diretta in missioni umanitarie, seppur attraverso contratti governativi statunitensi.

Secondo la proposta operativa presentata dalla GHF i punti di distribuzione saranno, almeno inizialmente, soltanto quattro: due al centro e due nel sud di Gaza, ciascuno destinato a servire circa 300.000 persone, quindi la metà della popolazione della Striscia. Il piano prevede un successivo ampliamento per coprire i bisogni di due milioni di persone confinate negli «spazi di accoglienza» che Israele sta allestendo nel sud del territorio. Fino al 2 marzo, invece, le Nazioni Unite e le Ong umanitarie avevano consegnato cibo, acqua e pasti già pronti in ben 400 punti diversi di Gaza. La soluzione concepita dalla GHF non potrà dunque che accelerare lo spostamento forzato della popolazione dal nord verso il sud della Striscia, in linea con gli obiettivi del governo Netanyahu. Israele, inoltre, chiede di sottoporre i beneficiari degli aiuti a un attento esame, inclusa l’identificazione tramite riconoscimento facciale. Secondo Tess Ingram, responsabile della comunicazione dell’UNICEF per la regione MENA, il meccanismo obbligherà le persone, spesso esauste e malate, a percorrere un lungo cammino per ritirare gli aiuti e poi ritornare dietro a piedi con un peso che può andare dai 20 ai 25 chili.