“Ganó la paz”. Ha vinto la pace. Più che uno slogan, un sospiro di sollievo, e i polmoni che si riempiono – di impegno e di allegria – prima di riprendere la corsa: verso una nuova tappa da raggiungere per consolidare un progetto di paese che dura da 26 anni. Oggi più che mai, per il chavismo, in Venezuela, le elezioni non sono solo un esercizio democratico – della democrazia partecipata e protagonista definita dalla costituzione bolivariana del 1999 – ma un atto di “autodeterminazione e resistenza”. E i risultati di queste ultime – parlamentari, regionali e dei consigli legislativi regionali – che si sono svolte il 25 maggio, e che hanno dipinto di rosso la quasi totalità della cartina geografica, sono la conferma che il popolo venezuelano non vuole cedere ai ricatti e alle imposizioni dell’imperialismo e continua a costruire il proprio destino, nel segno del socialismo del secolo XXI.

Dando al governo di Nicolas Maduro, al Psuv e all’alleanza del Gran Polo Patriottico un mandato pieno e rinnovato, questo voto è una forte indicazione politica e simbolica: mostra la volontà di approfondire le conquiste sociali, rafforzare l’indipendenza economica e consolidare il potere popolare; dice al mondo che un’alternativa all’egemonia capitalista è possibile e necessaria, e che la speranza risiede nella resistenza dei popoli. In questo senso, il Venezuela si può considerare “una minaccia inusuale e straordinaria”, da distorcere e sanzionare.

“Siamo gente che risolve”, è stato il fortunato slogan di campagna, ideato dal Psuv e dai partiti del Gran Polo Patriottico: più che un semplice cartello elettorale, un’alleanza tattica, che dà per scontata la ricerca di unità nella diversità. Gente semplice, in camicia rossa, di quella che è facile guardare con sufficienza come si guarda passare tutti i treni, ma “gente che risolve”, come ha “risolto” a suo favore la contesa con l’opposizione, conquistando 23 dei 24 stati del paese.

Lo Stato di Cojedes, dove ha vinto un leader dell’opposizione, è rimasto un puntino solitario nella cartina tinta di rosso. Subito, però il presidente Maduro ha telefonato per congratularsi e per offrire collaborazione, come aveva fatto dopo le elezioni del 2021 con i governatori che avevano vinto a Barinas, Nueva Esparta e Zulia, oggi riconquistate.  Si è tinta di rosso anche la Guayana Essequiba, il nuovo stato la cui esistenza è stata approvata con referendum l’anno passato, e che ora ha il suo governatore chavista e 8 deputati. Un’usurpazione, secondo gli Stati uniti e i loro alleati che sostengono, in un inedito quanto peloso afflato “anticolonialista” il governo di Guyana, che ha permesso alle sue multinazionali di perforare la zona contesa con il Venezuela, e al Comando Sur di penetrare per proteggerle con la sua flotta. Una disputa secolare che il governo bolivariano tenta da anni di risolvere appellandosi al diritto internazionale basato sulla Carta di Ginevra, ma che non ha peso di fronte ai mastodontici interessi che si trovano in questa zona ricchissima di risorse.

Il numero di parlamentari ottenuto a livello nazionale – 256 sui complessivi 285 – consente al chavismo il raggiungimento della maggioranza assoluta dei seggi all’Assemblea nazionale (AN), e spiana la strada alle trasformazioni progettate. Il capitolo più importante riguarda la proposta di riforma costituzionale, che verrà presentata all’apertura dei lavori della nuova AN, che si installerà il 5 gennaio del 2026.

Forte anche il voto femminile, che riflette la massiccia presenza delle donne alla direzione di tutti gli organismi popolari. A loro, e alle 5 governatrici elette, ha reso omaggio il capitano Diosdado Cabello, vicepresidente del Psuv, a nome del presidente della repubblica, durante la conferenza stampa settimanale di bilancio del partito.

In quasi tutti gli stati, il chavismo ha aumentato il numero di voti, per un totale di oltre 5 milioni, oltre un milione e trecentomila voti in più del 2021. La percentuale si è ridotta solo negli Stati di Barinas, Carabobo, Merida e Tachira, dove comunque l’opposizione resta forte e i conflitti per il controllo del territorio, accesi. Un numero che potrebbe comunque aumentare, considerando che manca ancora il voto delle popolazioni indigene che andranno alle urne, secondo le proprie norme, il 1° di giugno.

All’appuntamento elettorale del 25 maggio, si sono presentati oltre 6.000 candidati, appartenenti ai 54 partiti politici di ogni orientamento, per occupare i previsti seggi dell’Assemblea Nazionale (più gli 8 dell’Essequibo), oltre ai 24 governatori e ai legislatori regionali.  A destra, sono state due le coalizioni principali a presentarsi, Alianza Democrática e UNT-UPV, insieme con la Red Decide de Henrique Capriles. Tuttavia, era presente anche un’ampia offerta di candidature indipendenti che non si identificavano nelle coalizioni principali e che hanno ulteriormente frammentato il quadro politico dell’opposizione.

 Chi invece ha immediatamente preso a cantare vittoria è l’estrema destra di Maria Corina Machado, che ha fatto campagna per il boicottaggio elettorale, e che ora pretende avocare a sé una presunta vittoria dell’astensionismo, dichiarando che “oltre l’85% dei venezuelani ha disobbedito al regime e ha detto no”. Numeri che stridono rispetto agli stessi dati usati come argomento contro il governo. Primo fra tutti, quello dell’immigrazione che, se si prende per buona l’assenza di 4 milioni di persone dal registro elettorale, incide sulle cifre proclamate, peraltro senza considerare né il tasso di astensione “fisiologica” esistente in questo tipo di elezione non presidenziale, né la semplice disaffezione alla politica, né altri fattori di ordine concreto, come un trasferimento di residenza non registrato, tutt’altro che rari in Venezuela.

La partecipazione al voto è stata di quasi il 43% degli avanti diritto, circa 21 milioni su una popolazione di oltre 29 milioni. Di certo, come ha dimostrato il secondo posto ottenuto dal candidato-fantoccio di Machado alle elezioni presidenziali del 28 luglio, l’estrema destra ha guadagnato terreno in quella zona grigia, indifferente o delusa, riflesso di un’egemonia che impera a livello globale e che attecchisce anche nei settori popolari.

Ma è altrettanto evidente che il chavismo non solo resiste nel suo zoccolo duro, ma guadagna terreno anche fra i più giovani, grazie a una politica intelligente e dinamica di articolazione con nuovi movimenti popolari, come il Movimento Futuro o il Movimento Verde, e grazie alle sue incursioni “gramsciane” (non sempre gradite ai militanti più radicali) nei settori di classe media, imprenditoriali o in quelli religiosi. Dopo 26 anni di piazze e di governo, la presenza del chavismo come sperimentata forza nazionale, popolare e fuori dagli schemi, è indubbia.

È altrettanto indubbio che, a differenza dell’estrema destra, che ripete le peggiori ricette neoliberiste in base al dettato dei propri padrini occidentali, il socialismo bolivariano ha un piano di governo, sia a livello territoriale che nazionale, e si presenta unito malgrado il dibattito, anche acceso, che anima le sue sedi politiche a tutti i livelli. E se i problemi da risolvere sono tanti, anche l’aspettativa dopo queste elezioni è tanta. Dove andrà a parare con i suoi “esperimenti” il laboratorio bolivariano? Per capirlo non servono i paraocchi occidentali, né inventarsi uno schemino appena adattabile ai mal di pancia di casa nostra.

Intanto, questa vittoria non è il risultato del boicottaggio dell’estrema destra, maestra a ogni latitudine nel costruire trappole e boomerang, ma di poco costrutto. È il frutto di un lungo lavoro e di una direzione politica che si è trasferita nelle strade e nelle piazze per accelerare la “nuova epoca di transizione al socialismo”: con oltre 100.000 assemblee popolari, con un parlamentarismo di strada che ha prodotto 94 leggi nel periodo legislativo che si conclude quest’anno in un parlamento a maggioranza chavista, e con un piano concreto di governo presentato da ogni singolo candidato.

Un piano organizzativo preparato da un profondo dibattito di stampo gramsciano nel quadro del Blocco Storico, che ha convocato tutte le forze per valutare e attualizzare gli strumenti politici e teorici della rivoluzione. Una strategia organizzativa efficace e capillare, basata sul “5×5”. Se, infatti, finora il Psuv e i suoi alleati hanno potuto vincere 30 elezioni su 32, questo si deve, per metà almeno, all’organizzazione  capillare e unitaria del partito maggioritario e dei suoi alleati storici con più radici: dal Partito comunista (quello maggioritario che ha conservato la sigla, non l’altro che da qualche anno ha deciso di allearsi con l’estrema destra), ai Tupamaros, da Patria para todos, all’Upv (il partito della dirigente “extralegale”, Lina Ron).

Per il 25 maggio, questa strategia si è è strutturata su 5 fronti, cinque pilastri fondamentali, ciascuno moltiplicato per 5 (5×5, appunto): l’organizzazione dei dirigenti e delle dirigenti di strada e di comunità, che hanno agito all’interno delle Unità di Battaglia Bolívar e Chávez (UBCH); l’organizzazione delle strutture sociali, rappresentata dai Circuiti Comunali; la direzione nei Comitati di produzione e approvvigionamento, composta dai e dalle leader dei Comitati locali di fornitura e produzione (CLAP); l’organizzazione dei difensori della sovranità nazionale, impegnati nella protezione e nella stabilità del Paese in quello che per Ho Chi Minh era l’esercito del popolo e per la rivoluzione bolivariana è l’unione popolare fra civili e militari; le Missioni e Grandi Missioni, insieme al Gran Polo Patriottico (GPPSB) che hanno costituito la spina dorsale della mobilitazione negli 88 distretti elettorali.

Tutti hanno “lavorato per vincere” nel quadro delle 7T. Nella rivoluzione bolivariana non è raro associare numeri e sigle a concetti più articolati. In questo caso, 7T sta per Sette grandi trasformazioni corrispondenti ad altrettanti settori portanti della società venezuelana, normati dal parlamento in base a una Legge organica di sviluppo 2025-2031.

Un piano strategico proposto da Maduro ed elaborato mediante un ampio processo di consultazione e dibattito popolare in tutto il paese, con l’obiettivo di consolidare il processo della Rivoluzione Bolivariana e affrontare le sfide economiche, sociali e politiche in campoa. Un progetto orientato a definire e consolidare la “nuova epoca di transizione al socialismo”.

A preparare la vittoria del 27 maggio hanno concorso anche altri processi partecipativi come l’elezione dei giudici comunali di pace e le tre consultazioni popolari, precedenti alle due che ancora si devono svolgere nel 3° e 4° trimestre dell’anno.

Punti cardini di quella che dovrà essere la prossima riforma costituzionale, tesa ad adeguare la normativa al livello di sviluppo della società venezuelana e alle sfide poste dalle nuove tecnologie e dal contesto internazionale. Maduro ha già annunciato che i primi 10 circuiti comunali che hanno totalizzato il maggior numero di voti riceveranno un finanziamento diretto da parte del Plan Juntos Todo es Posible. Il Plan costituisce una iniziativa strategica del governo bolivariano per potenziare la gestione diretta delle risorse e l’esecuzione di progetti a livello comunitari, che sono già stati votati nelle prime tornate elettorale delle consultazioni popolari. Un meccanismo per centralizzare la gestione delle risorse a livello nazionale, ma per decentralizzarne l’esecuzione e la decisione a livello di base, rafforzando il modello di governo comunitario e territoriale e il potere popolare.

Un progetto che ha fatto andare fuori dai gangheri i candidati della destra, come Henrique Capriles, che ha agitato lo spettro della distruzione dello stato. Che le risorse siano gestite direttamente da chi le produce con il proprio lavoro non viene visto, ovviamente di buon occhio, da chi con la democrazia borghese se n’è appropriato senza conseguenze.

E, infatti, uno dei principali cavalli di battaglia di quell’estrema destra che ha chiesto e continua a chiedere sempre più “sanzioni” e pressioni è la privatizzazione delle risorse e la richiesta a Trump di una maggior rappresentatività politica in cambio di potervi mettere ampiamente la mano. Un incarico di governo (esterno), per quanto virtuale com’è accaduto con l’autoproclamazione di Guaidó e come continua a essere con il suo cadaverico “parlamento in esilio”, è servito e serve ancora a gonfiare il portafogli di una banda di lestofanti, che si è intascata l’oro del Venezuela e ha incamerato e distrutto la raffineria Citgo.

Per questo, il popolo venezuelano sta celebrando i risultati del 25 maggio non come una semplice vittoria elettorale, ma per il suo significato storico e simbolico, basato sulle idee di Bolivar e di Chávez in merito all’indipendenza e alla sovranità nazionale, come indica la seconda delle 7 trasformazioni: Espandere la dottrina bolivariana in tutte le sue dimensioni –  politica, scientifica, culturale, educativa e tecnologica – per rafforzare la sovranità nazionale e la difesa del paese contro le minacce esterne, compresa la protezione della Guayana Essequiba.

La prima T, riguarda la Pace, la sicurezza e l’integrità territoriale, ed è orientata a perfezionare il modello di convivenza cittadina, garantire la giustizia, il godimento dei diritti umani e la difesa della pace sociale e territoriale. In questo senso, acquista maggior forza simbolica dire: “Ganó la paz”, ha vinto la pace. Non solo perché, grazie alla vigilanza popolare e militare, non c’è stato “neanche uno spintone” durante la giornata elettorale, come ha sottolineato il ministro degli Interni Giustizia e Pace, Diosdado Cabello, ma anche perché il risultato elettorale ha inteso chiudere la porta alla violenza propugnata dal fascismo venezuelano e da quello che lo sostiene a livello internazionale.

Impossibile non notare la distanza siderale che esiste con paesi come l’Ecuador che, dall’essere un modello di sicurezza quand’erano governati a sinistra, sono diventati un baratro infernale in cui candidarsi significa spesso mettere a rischio la vita. Impossibile non paragonare l’atteggiamento di Bukele in Salvador, che ha reso il paese un inferno per i migranti e una prigione a cielo aperto, con quello del governo bolivariano che, ogni giorno, manda a prendere, riceve e accoglie centinaia di suoi cittadini “deportati”.

Il 25 maggio, l’unico lutto che si è pianto durante la giornata elettorale si è dovuto a eventi naturali che hanno colpito il generoso impegno di un poliziotto e di due militari che cercavano di portare oltre la corrente il materiale elettorale. L’incidente si è verificato nello stato di Apure, una regione situata nel sud-ovest del Venezuela, al confine con la Colombia.

Dunque, ha vinto la pace. Da una parte i fedeli esecutori di un modello imperialista che solo può imporre sofferenza e guerra. Dall’altro, un progetto di paese basato sulla democrazia diretta e sul potere popolare, quello di una rivoluzione che non intende essere “né calco, né copia, ma creazione eroica”. E che, per questo, a modo suo, sta facendo storia.