Gli analisti duellano in questi giorni sulle vere ragioni dietro l’attacco a sorpresa lanciato da Israele contro l’Iran, ben mascherato dal negoziato fasullo con Teheran avviato da Donald Trump. Un dato, però, dovrebbe essere ormai chiaro: Benyamin Netanyahu non ha realizzato il suo antico desiderio di guerra all’Iran solo per impedire, come afferma, all’avversario di arricchire l’uranio e dotarsi eventualmente della bomba atomica. Altrimenti avrebbe già fallito. La prima cosa che farà l’Iran, appena terminato lo scontro militare, sarà riparare gli impianti atomici danneggiati e assemblare altri missili balistici da usare in caso di future aggressioni. Resistere a questa guerra e alla superiorità militare israeliana farà emergere Teheran comunque vincitrice, o quantomeno non sconfitta, agli occhi delle popolazioni mediorientali. Uno scenario simile a quello di Gaza, dove Hamas, nonostante i proclami di vittoria di Israele e i colpi durissimi subiti, dopo venti mesi mostra ancora una significativa capacità operativa e organizzativa sul piano militare.

Non ci vuole molto a comprendere che Benyamin Netanyahu potrà dire di aver vinto la guerra soltanto se riuscirà a imporre un «cambiamento di regime» a Teheran. È lo stesso obiettivo che da quasi due anni afferma di voler raggiungere a Gaza e che crede di aver innescato in Siria lo scorso dicembre, quando il rapido crollo degli apparati di difesa, sicurezza e intelligence sotto la pioggia di bombe e missili israeliani ha causato la caduta del presidente Bashar Assad e l’ascesa al potere di gruppi islamisti sunniti nemici dell’Iran. Netanyahu si è anche attribuito il «merito» di un presunto «cambiamento di regime» in Libano. Nel Paese dei Cedri, ritiene il premier, Israele, con i suoi pesanti bombardamenti nelle regioni meridionali e a Beirut e con l’assassinio del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, avrebbe ridimensionato il peso del movimento sciita nelle vicende politiche nazionali, aprendo la strada alla nomina, dopo molti anni, di un presidente, Joseph Aoun, apertamente legato all’Occidente e favorevole al disarmo di Hezbollah.

Netanyahu, nel video-discorso diffuso poco dopo l’inizio dell’attacco all’Iran, ha fatto riferimento esplicito alla fine della Repubblica islamica e all’instaurazione di un potere amico a Teheran. Si è rivolto direttamente ai cittadini iraniani esortandoli ad abbattere «il regime». «Mentre raggiungiamo il nostro obiettivo, stiamo anche spianando la strada affinché possiate raggiungere la vostra libertà», ha proclamato. La presunta minaccia nucleare iraniana, quindi, c’entra ben poco. È solo un diversivo. Lo dimostrano anche le dichiarazioni di altri esponenti politici israeliani. Ohad Tal, della Commissione per gli Affari Esteri e la Sicurezza della Knesset, ad esempio, ha detto di sperare che Washington concordi con l’idea di abbattere il regime iraniano. «Non mi aspetto che questa campagna militare finisca nei prossimi due giorni», ha dichiarato a un’agenzia di stampa, «ne avremo altre, finché, si spera, non vedremo cadere il regime». Parole che spiegano bene la speranza che Washington possa prendere parte diretta al «cambio di regime» a Teheran, impiegando le forze terrestri che Israele non può mettere in campo a causa della distanza dall’Iran.

Illudersi che la nuova guerra di Benyamin Netanyahu possa concludersi in qualche giorno o in qualche settimana sarebbe un errore fatale. Sarà un’offensiva permanente, articolata in varie fasi, con intensità diverse e di lunga durata. Come a Gaza, come in Libano: una pressione continua. Dovrà dispiegare l’egemonia israeliana nella regione attraverso l’Accordo di Abramo con i Paesi arabi, la superiorità tecnologica e la potenza militare. L’Iran, malgrado un’economia in grande difficoltà e non poche criticità, si è dimostrato un avversario abile non solo militarmente. Ha saputo aggirare almeno in parte le sanzioni occidentali stringendo accordi con Russia, Cina e altri Paesi che resistono al dominio globale degli Stati Uniti.

Qualcuno sussurra che a spingere Israele all’azione sia stata anche la ratifica dell’adesione dell’Iran ai BRICS+. Gli attacchi israeliani hanno sistematicamente preso di mira il Corridoio di Trasporto Internazionale Nord-Sud, vicino a Bandar Abbas: un progetto sostenuto da Pechino e Mosca per bypassare le sanzioni occidentali. In pieno accordo con l’alleato Trump, il governo Netanyahu ha voluto dimostrare a Cina e Russia che le infrastrutture dei BRICS+ sono vulnerabili. La sofisticazione e la precisione dell’attacco rivelano una pianificazione di lungo periodo, incompatibile con la narrativa dell’urgenza dettata dall’arricchimento dell’uranio. Rovesciare il potere a Teheran e forzare un nuovo ordine regionale sono gli obiettivi. L’Iran ne è consapevole e la sua risposta militare, limitata ma significativa, riflette una moderazione calcolata, progettata per salvare la propria immagine e difendere allo stesso tempo i settori fondamentali dell’infrastruttura economica, a cominciare dagli impianti petroliferi.