di Clara Hage
(Pagine Esteri pubblica solo una parte dell’intervista tradotta in italiano che potete leggere in forma completa al seguente link dell’Orient Today)
L’obiettivo dichiarato di Israele è quello di “impedire” all’Iran di acquisire armi nucleari, ma la portata della sua offensiva e gli obiettivi che sta attaccando, nel contesto di quella che è già stata definita la guerra tra Israele e Iran, rivelano la sua vera intenzione: un cambio di regime in Iran. È improbabile che Israele possa avere successo in questo progetto, per il quale il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha lottato per anni, senza che l’opinione pubblica iraniana si mobiliti nelle strade e che i gruppi di opposizione iraniani si organizzino come alternativa praticabile. La fine della Repubblica islamica è ben lungi dall’essere materializzata, spiega lo storico Peyman Jafari, esperto di politica e movimenti sociali in Iran.
Come valuta il rischio di crollo del regime iraniano?
Prendendo di mira la catena di comando militare, Israele spera che lo Stato imploda, il che, nelle parole di Netanyahu, “spianerà la strada” agli iraniani per rovesciare la Repubblica Islamica. Inoltre, intensificando gli attacchi agli impianti petroliferi iraniani, Israele spera che la carenza di carburante porti a proteste di massa. Ma è molto improbabile che il regime iraniano crolli sotto questa pressione. Per ora, non vi è dissenso all’interno dell’apparato. Queste aggressioni, al contrario, porteranno a breve termine a un rafforzamento dell’élite politica e militare. Uno dei motivi è che l’esercito e la burocrazia iraniani non dipendono da una singola persona, nemmeno dalla Guida Suprema Khamenei, ma sono composti da un gran numero di persone che beneficiano dell’esistenza della Repubblica Islamica. Il loro numero è diminuito negli ultimi decenni, ma rimane significativo. Inoltre, i leader militari iraniani si sono induriti dalla guerra Iran-Iraq degli anni ’80. Hanno imparato a operare in un relativo isolamento internazionale, a riprendersi dai colpi e ad adattarsi alle nuove circostanze. Una guerra prolungata e lo scoppio di conflitti etnici potrebbero tuttavia innescare una reazione a catena verso il collasso. Questo sarebbe lo scenario ideale per Israele: non un cambio di regime, ma la frammentazione dell’Iran, nel timore che il peso dell’Iran in termini economici e demografici possa renderlo un potenziale rivale. A lungo termine, una volta attenuata la minaccia israeliana, potrebbero emergere divergenze sulla possibilità di raggiungere un accordo negoziato con gli Stati Uniti.
L’Iran ha sottovalutato il livello di infiltrazione dei servizi segreti israeliani nel suo apparato di sicurezza?
L’apparato di sicurezza iraniano ha commesso errori enormi, permettendo a Israele di infiltrarsi in Iran. Il sistema politico della Repubblica Islamica ha incanalato così tante risorse finanziarie e umane nel finanziamento della repressione da aver parzialmente aperto la strada all’infiltrazione israeliana. Ma l’errore più grande dell’Iran si è verificato la scorsa settimana: sebbene fossero consapevoli della possibilità di un attacco israeliano, i leader iraniani hanno creduto agli annunci del presidente Trump, secondo cui Israele non avrebbe attaccato finché fossero stati in corso i negoziati tra Stati Uniti e Iran. Hanno erroneamente pensato che le minacce israeliane mirassero esclusivamente ad aumentare la pressione sull’Iran. Per ora, lo Stato iraniano è principalmente interessato a respingere gli attacchi israeliani, ma nei prossimi mesi rafforzerà il suo apparato di sicurezza e prenderà di mira gli “agenti del Mossad”. Ciò porterà a una maggiore militarizzazione e securitizzazione dell’Iran, il che è anche una cattiva notizia per le libertà civili e le prospettive di democratizzazione. Se una guerra continua dovesse iniziare a fratturare lo Stato iraniano, è probabile che il gruppo meglio organizzato all’interno dell’élite della Repubblica Islamica, le Guardie Rivoluzionarie, emergerà per colmare il vuoto.
Come reagiscono gli iraniani a questa escalation guidata da Israele?
Come altrove, in Iran esiste una varietà di opinioni. Una minoranza significativa sostiene ancora la Repubblica Islamica, e questa base sociale verrà ora mobilitata e fornirà nuove reclute alle Guardie Rivoluzionarie, ai paramilitari Basij e ad altri gruppi militari. All’altro estremo dello spettro politico, c’è un ampio gruppo di iraniani scontenti della repressione politica e culturale e delle difficoltà economiche. Gioiscono degli attacchi israeliani o rimangono neutrali. Sebbene parte di questo sentimento sia genuino, molto è stato anche creato o amplificato dalla propaganda israeliana negli ultimi decenni. In particolare a partire dagli anni 2010, Israele ha impiegato soldati e studenti israeliani per influenzare i social network, distribuendo milioni di dollari a influencer, canali televisivi della diaspora iraniana e giornalisti per diffondere il suo messaggio. Tra questi due gruppi, tuttavia, la maggioranza della popolazione prova, a vari livelli, risentimento per le condizioni politiche ed economiche. Pur non sostenendo la Repubblica Islamica, temono anche le conseguenze di una guerra che potrebbe portare a insicurezza, distruzione, crisi economica e, potenzialmente, alla frammentazione del Paese. Molti si oppongono anche a qualsiasi attentato alla sovranità dell’Iran. Se gli attacchi israeliani continueranno nelle prossime settimane, causando ulteriori vittime civili e danni economici, è probabile che i sentimenti nazionalisti si intensificheranno e coloro che inizialmente si sono dimostrati indifferenti agli attacchi israeliani potrebbero opporsi con maggiore veemenza.
Ci sono le condizioni favorevoli per una rivolta in Iran, come spera Benjamin Netanyahu, citando il periodo pre-rivoluzionario?
Non credo. Per molti iraniani, la sovranità nazionale del loro Paese rimane molto importante e temono che l’interferenza straniera possa portare a ulteriore caos. Un numero crescente di iraniani è sempre più insoddisfatto delle politiche della Repubblica Islamica e molti sono scesi in piazza, come durante la rivolta “Donne, Vita, Libertà” del 2022. Ma anche allora, molti iraniani si sono tenuti alla larga, pur condividendo gli slogan delle proteste, perché temevano la repressione statale e il caos politico. Ancora più importante, molti non erano disposti a rischiare la vita e le proprie condizioni materiali in assenza di un’alternativa politica forte e credibile nell’opposizione. Purtroppo, gli appelli di Netanyahu alla rivolta e il sostegno di alcuni leader dell’opposizione iraniana in esilio, tra cui Reza Pahlavi, figlio dell’ultimo monarca iraniano, forniranno ulteriori armi alla Repubblica Islamica per colpire le legittime voci dell’opposizione. L’affermazione di Israele di avere centinaia di agenti sul campo in Iran che avrebbero facilitato i recenti attacchi sarà utilizzata dalla Repubblica Islamica per sostenere che le proteste in Iran sono istigate da agenti israeliani.
Di fronte a questa minaccia esistenziale, l’Iran ha altre carte da giocare?
Nei prossimi giorni, l’Iran utilizzerà principalmente i suoi missili balistici per rispondere agli attacchi israeliani. Tuttavia, se questa capacità dovesse diminuire nel giro di poche settimane, l’Iran si sentirà messo alle strette e inizierà a considerare opzioni più rischiose. Una di queste è quella di creare un blocco parziale dello Stretto di Hormuz per aumentare significativamente i prezzi del petrolio e quindi esercitare pressione sugli Stati Uniti e sui paesi europei che sostengono Israele. Dalla scorsa settimana, il prezzo del petrolio è già aumentato di circa il 13%, passando da 63 a 71 dollari. Ma se il blocco fosse completo, potremmo vedere il prezzo del petrolio salire rapidamente a 100 dollari. I consumatori americani pagherebbero quindi tra i 7 e gli 8 dollari al gallone. L’Iran farà attenzione a non ricorrere a questa opzione troppo in fretta, poiché non vuole alienarsi i paesi del Golfo che hanno ristabilito le loro relazioni con l’Iran. Inoltre, se gli attacchi contro la Repubblica Islamica diventassero esistenziali, i suoi leader potrebbero prendere la decisione politica di ritirarsi dal Trattato di non proliferazione, provocando ulteriori attacchi israeliani e americani. A questo punto, la Repubblica Islamica avrebbe ben poco da perdere e potrebbe ritirarsi completamente, trasformando l’Iran in una versione semplificata della Corea del Nord: una nazione nucleare isolata. Questo percorso si combinerebbe con un completo orientamento verso Russia e Cina, offrendo loro basi militari in Iran, che i leader iraniani hanno finora rifiutato. Gli Stati Uniti potrebbero fermare questa traiettoria inviando truppe in Iran, ma ciò richiederebbe da 0,5 a 1 milione di soldati. Non credo che Trump sarebbe disposto a farlo a causa dei costi economici e politici. Se lo facesse, una guerra americana con l’Iran permetterebbe certamente alla Russia di espandere la sua presenza in Ucraina e alla Cina di attaccare Taiwan. Pertanto, se è vero che l’Iran ha molto da perdere in una nuova escalation militare, lo stesso vale per gli Stati Uniti.