Pagine Esteri – La tregua è giunta all’improvviso. Messa a rischio da un ultimo scambio di colpi tra Iran e Israele alla fine ha tenuto. Donald Trump ha infatti fatto la voce grossa con Netanyahu, convincendolo a richiamare i bombardieri scagliati contro l’Iran con l’obiettivo di infliggere una “punizione esemplare” alla Repubblica Islamica dopo che un missile – che Teheran ha negato di aver lanciato – ha preso di mira lo “stato ebraico” dopo l’entrata in vigore del cessate il fuoco mediato dall’inquilino della Casa Bianca.
Il bombardamento di un deposito di munizioni e di una postazione radar alla periferia di Teheran hanno consentito a Netanyahu e ai suoi ministri di vantare l’ultimo colpo sparato e la “storica vittoria” riportata sul nemico giurato.
Ma il vero vincitore dell’ultimo incendio mediorientale appare al momento il presidente americano che ora si autoincensa come paciere mondiale grazie alla sua strategia della “pace attraverso la forza” e paragona quanto ha fatto addirittura a “Hiroshima e Nagasaki”. A lungo Trump ha cincischiato sull’atteggiamento da assumere nei confronti dell’Iran. Da una parte la necessità di rimanere fedele al proclamato isolazionismo, difeso nei mesi scorsi quando il tycoon ha rimosso Mike Waltz dal suo incarico di Consigliere alla Sicurezza Nazionale dopo aver scoperto che quest’ultimo tramava un coinvolgimento statunitense nella progettata aggressione militare israeliana alla Repubblica Islamica.
Dall’altra però, a costo di scontentare l’ala più a destra del Partito Repubblicano e del suo movimento Maga, Trump non ha potuto evitare di correre in soccorso di Israele quando è diventato chiaro che, da soli, i pur massici attacchi di Tel Aviv contro le installazioni atomiche iraniane non sarebbero bastati a cancellare completamente il programma nucleare di Teheran. Ma lo ha fatto pro domo sua.
Quando, a sorpresa, dopo una serie di affermazioni contraddittorie, i B-2 statunitensi hanno scaricato su tre siti nucleari iraniani le loro “bunker buster”, in grado di distruggere installazioni blindate situate a decine di metri di profondità, sembrava che Washington volesse chiudere la partita con l’Iran. Trump aveva anche evocato un cambio di regime a Teheran, fortemente caldeggiato da Netanyahu, per poi rimangiarsi subito l’affermazione, come d’altronde accade per ogni tema su cui interviene.
Ma il bombardamento strategico statunitense è stato utilizzato dalla Casa Bianca per affermare che la sua mossa aveva rimosso per sempre “il problema” – il rischio che il regime degli Ayatollah si doti dell’arma nucleare – e che quindi Israele non aveva più motivo di continuare la campagna militare contro la Repubblica Islamica.
Quanto tenga Trump alla tenuta della tregua lo ha chiarito il tono con cui il tycoon ha imposto a Teheran e a Tel Aviv di cessare immediatamente le operazioni militari.
È soprattutto contro Netanyahu che ha tuonato il presidente americano, nonostante la sua proverbiale vicinanza allo “stato ebraico”. «Israele. Non sganciare quelle bombe. Se lo fai, è una grave violazione. Riporta a casa i tuoi piloti, subito!» ha scritto Trump sul suo social “Truth!”, aggiungendo: «Israele non attaccherà l’Iran. Tutti gli aerei torneranno a casa. Nessuno si farà male, il cessate il fuoco è in vigore! Grazie per l’attenzione!»
Bibi non ha potuto far finta di nulla, scontentando chi nella sua amministrazione insisteva sull’annientamento del paese capofila dell'”Asse della Resistenza”, al quale comunque Israele ha inferto negli ultimi mesi un duro colpo, indebolendo fortemente Hezbollah e godendo del regime change a Damasco. Netanyahu ha comunque distolto per 12 giorni l’attenzione internazionale da Gaza e si è ora intestato quella che sta descrivendo come una “storica vittoria” sugli ayatollah, confortato dal forte aumento di popolarità registrato dai sondaggi.
La verità è che l’intervento statunitense ha evidenziato tutti i limiti, militari e strategici, di Israele. Senza l’intervento dei B-2, difficilmente il premier israeliano potrebbe intestarsi ora l’eliminazione delle aspirazioni nucleari iraniane. Una meta rivendicata però con veemenza anche da Donald Trump che è arrivato ad attaccare esplicitamente la “stampa bugiarda” che nega che i bombardamenti dei siti di Natanz, Fordow e Isfahan abbiamo realmente centrato l’obiettivo.
Ma è difficile pensare che, di fronte alle ripetute minacce di un’aggressione militare in grande stile, il regime iraniano non abbia adottato nei mesi scorsi le adeguate contromisure.
Ancora ieri il New York Times, citando un rapporto riservato della Defense Intelligence Agency americana, ha spiegato che le bombe di profondità hanno ricoperto di macerie gli impianti attaccati, senza però danneggiarli irrimediabilmente. Per l’agenzia di Washington la capacità di Teheran di produrre uranio arricchito sarebbe stata compromessa solo in parte, ritardando forse di qualche mese il programma nucleare iraniano.

Edifici di Beer Sheva distrutti dai missili iraniani
Non è solo su questo fronte che si è rivelata la debolezza israeliana nonostante lo scarso sostegno all’Iran da parte di Russia e Cina, che solo negli ultimi giorni hanno alzato i toni. Dodici giorni di attacchi incessanti sulle città iraniane hanno inferto un duro colpo alle infrastrutture militari e civili del paese (senza però metterlo in ginocchio), ma non hanno innescato quella rottura del consenso nazionale che Tel Aviv perseguiva. La maggior parte delle opposizioni hanno subito chiarito che respingevano l’aggressione israeliana e non si sono viste proteste di massa contro il regime degli Ayatollah che la politica e la stampa occidentali prefiguravano. Per quanto il consenso nei confronti del sistema imposto dopo la rivoluzione del 1979 sia probabilmente ai minimi storici – come dimostrerebbe la scarsa partecipazione alle ultime elezioni e le massicce proteste precedenti – l’aggressione di Tel Aviv ha probabilmente rinsaldato la solidarietà nazionale iraniana piuttosto che fiaccarla. La repressione e la presenza del moderato Masoud Pezeshkian al vertice della Repubblica – che con le sue pur timidissime aperture alimenta sicuramente meno tensioni rispetto a un “falco” – hanno fatto il resto.
Semmai è stata l’opinione pubblica israeliana a dare segnali di cedimento sotto i colpi dei missili balistici iraniani che hanno seminato vittime e distruzione nelle città israeliane. I potenti sistemi di intercettazione di Tel Aviv – considerati fino al 13 giugno infallibili e oltretutto supportati da quelli dell’intero schieramento militare statunitense in Medio Oriente – non sono riusciti a bloccare il 10% dei colpi iraniani e la popolazione israeliana si è inaspettatamente scoperta vulnerabile ed esposta. Questo nonostante l’Iran, pure in svantaggio rispetto alla potenza di fuoco e al dominio dei cieli da parte di Tel Aviv, abbia utilizzato solo una parte del proprio arsenale riservando i colpi più devastanti per un’eventuale seconda fase del conflitto che Teheran, come dimostra il carattere poco più che simbolico della rappresaglia contro le basi americane in Iraq e in Qatar, ha ritardato.
Le difficoltà israeliane sono diventate evidenti quando Netanyahu, che nei primi giorni di bombardamenti aveva spiegato che l’operazione “Rising Lion” sarebbe durata parecchie settimane se non alcuni mesi, aveva poi dovuto rettificare affermando di voler chiudere la faccenda entro la fine di questa settimana. Il rischio che Israele non reggesse ad una lunga “guerra di logoramento” era troppo alta.
Il blitz di Trump a congelato lo scontro prima del previsto ma non è difficile pensare che Israele tornerà prima o poi all’attacco. Intanto, l’ennesimo incendio acceso da Israele in Medio Oriente è costato la vita a 606 iraniani. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive anche di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con Pagine Esteri, il Manifesto, El Salto Diario e Berria