Questo articolo è stato pubblicato in origine sul quotidiano Il Manifesto
Su alcuni dei corpi per terra negli ospedali c’è un sacco vuoto. Lo avevano con loro quando sono usciti di casa per cercare di raggiungere gli aiuti, arrotolato in tasca o appeso ai pantaloni. Speravano di poterlo riempire con acqua e cibo ma sono stati ammazzati prima di poterci riuscire. Non c’è spazio negli ospedali, i feriti e i morti li hanno sopraffatti, soprattutto da quando le stragi per il cibo sono diventate quotidiane. È un mese, ormai, che la fondazione israelo-americana (Ghf) gestisce la distribuzione degli aiuti. Una distribuzione militarizzata che obbliga le persone a rischiare la vita per portare a casa un pasto.
I cadaveri ripresi nei video sono smagriti, scavati, come quelli dei parenti che li piangono accovacciati per terra. Tra quelli di ieri, in un angolo, anche un ragazzino, con il suo sacco di farina vuoto, l’accesso venoso ancora sulla mano, le mosche sul sangue di cui è imbevuta la camicia gialla.
Ieri l’ufficio dei diritti umani delle Nazioni unite ha dichiarato che “il meccanismo di assistenza umanitaria militarizzata di Israele è in contraddizione con gli standard internazionali sulla distribuzione degli aiuti”. Il portavoce Thameen Al-Keetan ha usato parole ancora più precise: “La militarizzazione del cibo per i civili, oltre a limitare o impedire il loro accesso ai servizi di sostegno alla vita, costituisce un crimine di guerra e, in determinate circostanze, può costituire elementi di altri crimini ai sensi del diritto internazionale”.
L’Onu è ancora presente a Gaza, anche se Israele le permette di gestire operazioni limitate e di introdurre nella Striscia solo alcuni dei suoi pochi camion di aiuti rimasti dal cessate il fuoco. Ma i percorsi dei mezzi, così come le missioni, sono tutti gestiti da Tel Aviv, che vieta quotidianamente i permessi di spostamento.
Sabato e domenica l’esercito ha negato all’Onu otto delle sedici richieste di operazioni umanitarie. Soprattutto di interventi di tracciamento di acqua e carburante, la fornitura di servizi nutrizionali e il recupero delle salme. Delle circa 500 persone uccise mentre tentavano di recuperare cibo, 93 sono state colpite dall’esercito israeliano mentre si avvicinavano ai convogli Onu, le altre nei pressi dei centri di distribuzione della Ghf, che ha sempre rifiutato di fare i conti con le proprie responsabilità. Dopo le dimissioni di chi ha deciso di non averci più nulla a che fare, è guidata solo da fedelissimi del presidente Usa Donald Trump e compagni fedeli del governo di Tel Aviv.
L’ha definita “una fame armata” il capo dell’Ocha (ufficio Onu coordinamento affari umanitari) in Palestina, Jonathan Whittall, attualmente nella Striscia. “Quello che stiamo vedendo è una carneficina. È una fame armata. È uno spostamento forzato. È una condanna a morte per le persone che cercano solo di sopravvivere. A guardare bene, sembra la cancellazione della vita palestinese da Gaza”. Whittall ha ribadito che l’Onu e le altre organizzazioni partner hanno un piano umanitario con cui potrebbero raggiungere ogni famiglia, come hanno fatto in passato, ma che gli viene impedito.
Sono circa 80 le persone uccise ieri a Gaza. Più di 50 si trovavano nei pressi dei centri di distribuzione: 27 ammazzate vicino al sito di Rafah e 25 a Wadi Gaza, nei pressi del corridoio Netzarim. Tutto ciò mentre nuovi ordini di sfollamento sono stati emessi per il nord della Striscia. I volantini lanciati sulla popolazione comandano una “partenza immediata” per i residenti di Jabaliya, al-Tuffah, al-Nahda, al-Rawda. L’ordine è di dirigersi verso l’affollatissima area di Khan Younis, pesantemente bombardata e attaccata con droni e carri armati. Quasi l’intera popolazione è stata deportata dall’esercito, che spinge tutti in una piccola area dell’enclave, Al-Mawasi, gigantesco campo profughi in cui si vive in condizioni difficilissime, senza servizi, senza acqua, elettricità e cibo. Intanto ieri sette soldati israeliani sono stati uccisi e almeno altri feriti in un agguato dei combattenti palestinesi a Khan Younis.